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Inciampi - intervista a Gian Marco Griffi
By Malgrado le Mosche Posted in Cacao Meravigliao, Miscellanea on 01/06/2020 0 Comments 14 min read
Con tutto quel buio là fuori Previous Ma lui chi è? Next

di Redazione
Copertina: Gemelli #1 – Julio Armenante

Con Griffi non ci siamo ancora mai visti, ma poco ci manca che diventiamo amici sul serio. E non perché sia un grande scrittore, lo è, ma perché è una brava persona, di quelle che potresti dire: è un amico.
Prima di sconfinare nell’imbarazzo, ecco l’intervista.
Parliamo di Inciampi, raccolta di raccolti, peraltro molto omogenea, edita da Arkadia, nella collana Sidekar. A dirla breve e senza inganni, comprate ‘sto libro. Ne parliamo qui sotto. Non dico che è Moby Dick , ma è un ottimo libro, vale la spesa e a portarlo in giro fate bella figura.

Gemelli #9 – Julio Armenante

Noi non siamo amici, ma potremmo diventarlo, nonostante io detesti il golf. Però sono ampiamente disponibile a passarci sopra o addirittura a scoprire che c’è del buono perfino nel golf. Ora, perdonami, apro la prima divagazione, che poi è una domanda a cui puoi anche non rispondere se non ti va.
Ma tu a gestire un golf club come ci sei finito?

Per caso, come tutti.

Come funziona un golf club? Per esempio, quanto è grande, come quelli che si vedono alla televisione? E se uno si perde?

Per essere grande è grande, ha l’erba verde verde, l’acqua dei laghetti azzurra azzurra, i fiori rossi rossi gialli gialli viola viola, e poi ha un ristorante un bar un tennis una piscina un hotel una palestra le arnie per le api le nutrie le minilepri i fagiani i cinghiali i tassi le volpi i cacciatori insomma tutto quello che ti viene in mente per rendere la mia vita lavorativa uno schifo complicato, c’è.

Dicevo però, prima di divagare, noi non siamo amici ma potremmo diventarlo, questa intervista in ogni caso facciamo che sia tra amici, se no diventa una rottura di coglioni. Quindi, da amico, io il libro l’ho letto e l’ho trovato non solo bello ma anche sufficientemente strano e nuovo, lo consiglio a tutti e bella lì. Da intervistatore amico, se il libro mi avesse fatto schifo ovviamente non lo direi, ma questa intervista non esisterebbe. Insomma, il libro è bello davvero. Costa anche poco.

Grazie.

Il libro in realtà sono due libri, giusto? Come mai questa scelta? Non che le due parti siano slegate, perché grazie allo stile (ma forse sarebbe meglio dire grazie agli stili) e ai personaggi che ritornano, alla sensibilità della voce narrante che guida tutta la raccolta non lo sono, però sono due parti ben distinte, una che racconta una sorta di epica del paesaggio, geografico e umano, e una seconda che invece destruttura tutto e in un certo senso gioca con la prima. Sto dicendo cazzate? Nel caso me le metti a posto?

Non stai dicendo cazzate. Il fatto è che considero la seconda parte, “Tutte le riviste della mia vita”, un racconto unico, anche se è fatto di più racconti (le riviste). Per come ho pensato il libro, mi pare ci possa stare, ci può stare insomma la storia di uno scrittore frustrato che si rompe i coglioni di non essere considerato dalle riviste letterarie (e dagli editori) e inizia a scrivere articoli, storie e racconti per riviste bizzarre sparse qua e là, con il solo obbiettivo di tirare su un po’ di grana.
Ma il racconto, o l’insieme di racconti, “Tutte le riviste della mia vita” è la naturale prosecuzione delle storie che ci sono prima, un po’ come se le storie della prima parte “Notizie dalle colline” fossero state scritte dallo stesso tizio che poi scrive per le riviste.
In quest’ottica, i racconti di “Notizie dalle colline” sono stati scritti dal tizio quando ancora c’era in lui un briciolo di fiducia nella propria scrittura, hanno un’emotività, denotano un innamoramento per la vita, per la natura, perfino per le persone.
Lo stesso tizio perde tutto ciò nella seconda parte, nella quale l’emotività, il sentimento, la fiducia nella scrittura e nel suo potere vengono decostruite, ammazzate dal contesto cinico.
Così, racconti come “Storiella del fango del Tanaro”, se decontestualizzato ha una grande carica emotiva, un coinvolgimento, mentre io volevo che questo coinvolgimento si disperdesse, e contestualizzandolo all’interno della faccenda delle riviste credo succeda proprio questo: un narratore frustrato e deluso dalla propria scrittura abbandona l’emotività e ogni forma di coinvolgimento e mente, a sé stesso prima di tutto, narrando storie che lo colpiscono profondamente (come quella di un’amica morta durante l’alluvione del Tanaro del 1994) con distacco e disinteresse, mascherando ogni sentimento nell’invio del racconto a una rivista messicana che si chiama “Les calamidades ilustradas a través de alegorías, metáforas, dibujos”.
Volevo che ci fosse contrasto tra l’apparente distacco, disincanto, della scrittura per riviste scalcagnate e il coinvolgimento, l’incanto dei racconti che il tizio invia a queste riviste.
Mi sono spiegato? Ne dubito.
Pazienza, non sono mai stato bravo a scrivere.
Comunque, per scrivere la cornice di “Tutte le riviste della mia vita” mi sono ispirato a uno stronzo che conosco, uno i cui racconti per anni e anni sono stati scartati e sbeffeggiati da tutti, riviste e editori, uno stronzo che pareva essere invisibile, e anche adesso non è che vada tanto meglio, anche se ogni tanto qualche rivista gli fa un intervista.

La prima parte è strabiliante per come attraversa il tempo consegnando una realtà certamente diversa ma immutata rispetto ai caratteri più umani, più etici. Tu cerchi di nascondere nella nebbia la morale ma la morale emerge continuamente. In questo senso parlavo di epica e si potrebbe aggiungere che si tratta di un’epica volenterosa ma stanca, nella quale si avverte la fatica, addirittura un sonno inspiegabile, antimilitarista. Per farla breve, non c’è epica senza etica e qui ce n’è a carriolate, ci sono delle vere e proprie missioni da compiere. È un’etica contemporanea? È un’etica senza tempo? Cosa vuoi dirci?

Parto dalla fine: non so se voglio dirvi qualcosa. O meglio, certo che voglio dirvi qualcosa, ma quel qualcosa non te lo posso dire qui, in un’intervista. Per dirvi le cose che volevo dirvi, negli ultimi vent’anni o più ho sentito la necessità di scrivere cento racconti (che poi sono ben più di cento), come faccio a dirvele in un’intervista? Non riesco neppure a riassumerle.
Torniamo su. Mi piace la definizione di epica stanca, mi piace la definizione di sonno antimilitarista. Faccio un passo al di fuori di Inciampi: per ogni racconto pubblicato su Inciampi ce n’è almeno un altro, talvolta anche due o tre, che non sono stati pubblicati su Inciampi per ovvie ragioni di mercato, perché se Inciampi avesse dovuto contenere tutti i racconti che avevo scritto appositamente per Inciampi, il libro sarebbe stato di mille pagine, sarebbe dovuto costare 30 euro e nessuno lo avrebbe comperato e letto. Non che l’abbiano comperato e letto in tanti, intendiamoci, ma credo che una ventina di persone lo abbiano comperato, è venti e meglio di zero. Comunque: il racconto “Storiella del sonno”, la storia di Osvaldo che parte da Casorzo (un paesucolo del Monferrato) per andare in guerra – stiamo parlando della prima guerra – è la storia dei contadini del Monferrato (tra cui mio Bisnonno) che il giorno prima zappavano la terra e il giorno dopo impugnavano una baionetta, senza avere neppure una vaga idea del perché, è la storia dei dialetti di una lingua formidabile, di cui sono innamorato come un bambino: l’italiano fiorentino due-trecentesco che poi, con tutte le mille contaminazioni, è diventato una lingua di una bellezza che mi strabilia ogni volta che la leggo. Perfino nelle scritte sui muri, sulle porte dei cessi, ovunque. La bellezza dell’italiano sta anche, e forse soprattutto, nel mescolarsi con i dialettalismi, gli idioletti, eccetera. Osvaldo impara a parlare e a scrivere leggendo Salgari, non sa che in guerra si troverà a parlare con italiani che parlano una lingua a lui sconosciuta, ciononostante si ritrova lì, in guerra, e il suo corpo, la sua mente, reagiscono in un modo che è un dito medio levato di fronte alla guerra. In realtà, il racconto che più svolgeva il tema antimilitarista, collegandosi al tema del viaggio in sidecar (l’ultimo racconto di Inciampi), collegando tutti i soldati protagonisti dei racconti, da Fausto militare di leva che si ritrova in Irpinia a tirar fuori morti dalle macerie dopo il terremoto all’alpino che invia insetti dalla Russia, fino a Osvaldo, è “Storiella degli impiccati”, che in Inciampi purtroppo non c’è entrato, ma poco male, tu lo conosci perché alla fine lo hai pubblicato su Malgrado le mosche. Ecco, quel racconto lì è tutto quello che ho da dire sull’inevitabilità e al contempo sull’assurdità della guerra.
L’ultima cosa sulla morale: tutti i miei racconti sono moralissimi, talmente morali che mi faccio schifo. Bene, male, chi sa cosa siano? Tu lo sai? Sì, tu mi sa di sì. Ma io, talvolta, nelle piccolezze, faccio fatica. Intendiamoci, riesco a distinguere il male, riesco a distinguere un fottuto nazista da uno no, ma riuscirei a distinguere il bene, quando il bene c’è, in un fottuto nazista? E credimi, credo ci siano così tante sfumature di morale, etica, senso di colpa, rimorso, nella coscienza di un essere umano, perfino di un fottuto nazista, che rendono la ricerca complessa e bellissima.

È chiaro che il Monferrato è importante per te, ma ho la sensazione che se tu fossi nato o abitassi, che ne so, in Angola o in Canada, sarebbe stato lo stesso. Ovvero è la terra a essere importante, i legami delle persone con la terra che abitano, a non essere logorroico come sono, in una parola sola: le radici. E difatti nel libro sono importanti, mi sembra, anche quando si parla di Russia o di Romania. Cosa ne pensi? No, invece se fossi nato Toscano ‘sticazzi delle radici?

Le radici sono fondamentali. Io posso passare la vita a lamentarmi di quanto si stia di merda ad Asti e contemporaneamente non poter fare a meno di stare ad Asti. La terra ti impregna dei suoi odori, dei suoi colori, ti plasma, non sei tu che plasmi lei. Se fossi nato in Angola sarebbe lo stesso.

Mi piacerebbe che tu chiarissi, a me come lettore più che come intervistatore estemporaneo e eventualmente agli altri che si fossero chiesti la stessa cosa (secondo me è una domanda che viene quasi obbligatoria leggendoti), il tuo rapporto con la questione partigiana, quello con la guerra. E, di nuovo, dipende dal ruolo che i partigiani hanno rivestito lì dove le storie abitano? Altrove sarebbe stato diverso? C’è dell’altro?

Sono nato e cresciuto in uno dei posti più segnati dalla guerra civile post otto settembre millenovecentoquarantatré (sì, sì, gli storici sono discordi nel definire la guerra partigiana una guerra civile. Ma se non è stata una guerra civile quella, con gli strascichi che ci portiamo dietro ancora oggi, quale lo è stata?), nell’edificio in cui andrà a scuola mio figlio c’era il rimessaggio dei mezzi nazisti, al muraglione contro cui ho tirato sedicimila pallonate hanno messo cinquanta cittadini di Montemagno, il paesucolo dove sono cresciuto, il paesucolo di mia mamma, dei miei nonni, dei miei bisnonni, e uno ogni dieci lo hanno fucilato, o hanno finto di farlo, che è pure peggio.
Ovunque ti giri trovi un ceppo, un insegna, un cartello, un albero, una panchina che ti ricorda che qui hanno ammazzato Giuseppe, qui hanno fucilato Giovanni, qui Tommaso Francesco e Riccardo sono stati ammazzati per darvi la libertà.
Non puoi crescere qui senza sentire l’eco e il peso di ciò che hanno fatto i tuoi nonni, in un verso o nell’altro. Nel mio paesucolo c’erano i partigiani e c’erano i repubblichini, e tali sono rimasti pure dopo.
Ma quando riduci una guerra civile a mille abitanti puoi osservare le dinamiche. E scopri, racconto orale dopo racconto orale, che i partigiani ne hanno combinate più di Bertoldo, che se vuoi scrivere una storia non puoi scrivere una storia sui partigiani che son morti per la libertà e sui fascisti che erano porci, devi scrivere una storia su quei partigiani lì, che combattendo per la parte giusta hanno razziato e si sono approfittati della situazione, e su quei fascisti là, che difendendo la parte sbagliata (parte sbagliata è un grandissimo eufemismo, diciamo difendendo la MERDA DELL’UMANITÀ) si sono innamorati, avevano sogni, eccetera. Merda, ho appena scritto una carrettata di banalità. Disperdile come letame.

La seconda parte, dove scrivi racconti per riviste immaginarie e folli eppure assolutamente plausibili, dall’assurdo, a volte dal grottesco, sfonda nella parodia. Se mi posso permettere, e qui c’è l’unica critica, forse in quei momenti il racconto perde un po’ di forza. Potrebbe essere un mio problema che con le parodie ho un rapporto conflittuale, però credo che uno dei lati più interessanti del libro sia proprio riuscire a tenere nella realtà delle situazioni, dei personaggi, delle storie che sono assurde. Con la parodia il gioco si mostra, si vede il trucco. Immagino che tu non sia d’accordo e probabilmente, dal momento che l’hai scritto tu e ci hai pensato su sicuramente più di me, hai anche ragione. Manca il punto interrogativo ma è una domanda.

Non sono d’accordo sulla questione generale della parodia. Ma manco per il cazzo.
Però se discutiamo dell’uso che fa gian marco griffi della parodia allora il discorso cambia: quando uno mi dice che qui e qui il racconto perde forza, si vede il trucco, eccetera, non posso fare altro che alzare le mani e rimettermi all’impressione che il lettore ha avuto.
Se io leggo una cosa, e se io sono in grado di comprendere un testo scritto, e se io ho quell’impressione lì, l’impressione è giusta. Fine. Che ti deve – o può – dire, l’autore? Niente.

“Inciampi” dimostra che tu puoi scrivere in molti modi diversi. La prima parte è profondamente orale, è una scrittura che diventa suono; la seconda ha degli esperimenti espliciti, tipo Bolaño, Gadda (sono quelli proprio dichiarati). Sono esperimenti riusciti, tanto è vero che con Gadda ho fatto una fatica mostruosa, non si tratta di questo. Mi chiedo però perché, qual è il pensiero soggiacente al di là del virtuosismo stilistico che, appunto, è riuscito, ma che sicuramente non spiega del tutto la volontà di lavorare a una cosa del genere che non è semplice e richiede non solo padronanza ma anche fatica. Scrivere come Gadda non faceva piacere neanche a Gadda probabilmente.

Guarda qui potrei scrivere un saggio, invece no, e sarò sintetico: a me Gadda fa morire dal ridere quando lo leggo, mi diverte proprio tanto, e mi diverte proprio tanto scrivere alla di lui maniera.

Tu dai talvolta l’impressione, e questo libro sembrerebbe confermarlo, di considerare la letteratura una questione non dico di secondo piano ma per la quale non vale la pena morire e neanche soffrire più di tanto. Nel mio piccolo tendo a essere d’accordo ma questo è poco importante. Volevo capire invece se è un problema di contesto, che è oggettivamente deprimente, o di etica.

Ho una passione enorme per la letteratura. La letteratura ha mostrato l’uomo all’uomo da sempre. Quella di “raccontare storie” è un’attività che dovrebbe essere obbligatoria in ogni scuola di ordine e grado, io abolirei la matematica e la sostituirei con “raccontami una storia”, ma io non conto niente, e la matematica conta troppo di più.

Ndr: qui ci sarebbe dovuta essere un’altra domanda e relativa risposta. La risposta era giusta, purtroppo la domanda invece era sbagliata. E allora l’ho tolta.

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