Svaniti
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 01/02/2022 0 Comments 14 min read
Pdfb #1, che in realtà è il #3, che in realtà non ci sto capendo più niente. Previous FAKE TAXI, una call che a dispetto del nome, pare sia venuta a piedi. Next

di Giuseppe Fiore
Copertina di Alpraz

Per accedere c’è un cancello. Una volta oltrepassato il cancello, una strada non asfaltata lunga qualche metro. Il cancello si apre al mio arrivo. La macchina attraversa la linea di confine. Percorro il sentiero. Scendo, apro il portabagagli e prendo il trolley. Una rampa di scale, larghe, simili a quelle che si trovano all’entrata di palazzi storici. Salgo. La porta non è mastodontica. È verde. Suono il campanello. Sarà insonorizzato, perché non si sente nessun rumore, ma la porta si apre. C’è una donna. Il suo vestito è lungo, si infrange sulle caviglie. Il colore bianco sembra riflettere il sole, mi acceca per un attimo. Sorrido. Lei sorride. Entriamo. Un primo corridoio. Le pareti sono bianche e spoglie. Nessuna foto o quadro. Solo quella sensazione a vista di polvere che cadrà nel tempo. Attraversiamo il corridoio. Come l’entrata di un labirinto, il corridoio rappresenta la spina dorsale da cui si sviluppano altri corridoi che creano la struttura. Mi colpisce il bianco. Un singolo colore che li trattiene tutti. Ad un certo punto svolta a destra. La seguo, noto una piccola tasca nel vestito, mi imbarazza. Un vestito lungo non dovrebbe avere tasche. Dovrebbe essere un perfetto tubo di stoffa senza imprecisioni o tagli di nessun genere. Vedo un pacchetto di sigarette dure sistemato nella tasca. Dopo qualche metro nel nuovo corridoio gira, di nuovo, a destra. C’è una stanza, un tavolo, un ragazzo. Tutto è rigorosamente bianco.


La donna si siede su una delle sedie. Io sull’altra libera. Il ragazzo sorride. I due tirano fuori i loro pacchetti e, con le labbra, estraggono una sigaretta. I pacchetti sono bianchi e non ci sono marche o immagini traumatizzanti. Sono stati ricoperti con vernice o qualcosa del genere, magari quei bianchetti che si spremevano una volta come dentifrici. Accendono e il fumo sale. Non ci sono finestre. Rimaniamo in silenzio per un altro po’. I due mi guardano e io tengo basso lo sguardo. Poi il ragazzo, schiarendosi la voce con due colpetti di tosse, parla.

«Non ci aspettavamo così presto la tua chiamata», sorride.

Annuisco.

«Io sarò il tuo supervisionatore per queste settimane. L’unico che potrà parlare con te» si ferma per qualche attimo, poi riprende: «Lei è la madre di questa casa e vuole conoscere tutti i membri in prova, per questo si trova adesso con noi». Annuisco ancora. Lui fa un ultimo tiro, dura qualche secondo e si sente il rumore del tabacco che brucia. Poi spegne la cicca sul bordo del tavolo e la lancia verso l’angolo destro della stanza. Seguo la traiettoria e mi accorgo che, sul pavimento, ci sono diverse cicche.

«Ci sono alcune regole. Per iniziare, il bianco è l’unico colore accettato e non esistono altri vestiti all’infuori di quelli che ti daremo noi. È vietato parlare, solo nel periodo di prova potrai farmi domande e discutere esclusivamente con me. Ogni mattina consegniamo due pacchetti a testa, ma ci sono diversi barattoli comuni con sigarette sfuse da cui puoi attingere. È severamente vietato non fumare. Per queste settimane avrai una camera e dormirai da solo. Una volta finita la prova e accettato l’ingresso ufficiale sarai parte del gruppo»


Quattro pareti. Un letto. Non c’è armadio. Un comodino senza cassetti. Un lavandino. Non c’è uno specchio. Tutto è bianco. Avevo, nella valigia, un libro, mi è stato tolto. Mi hanno dato una maglietta bianca, un pantalone lungo fino alle caviglie, delle ciabatte che coprono il piede. Osservo il mondo da una porta semiaperta. Questo colore, questo bianco continuo, senza limiti, senza freni mi scoccia, stanca l’occhio. È come un baratro, uno spazio che si nasconde tra la vita e la morte in cui ci rinchiudiamo per nasconderci o per fingere qualcosa. Passano due giorni e non faccio nulla. Esco, spesso, nel giardino. Nella casa non gira nessuno. Non vedo né lui, né la madre. Trovo scatolette di tonno, pane, acqua, sigarette. Mangio. Nel giardino penso. C’è silenzio. Per un po’ mi impressiona. Sono certo che ci sia altra gente. Tutti vengono per fare silenzio. E il silenzio è così strano perché, come il bianco, contiene in sé tutti i rumori possibili. Per ora però, per questi due giorni non c’è stato altro rumore all’infuori di me. Di quello che sbatto, apro o tocco. Delle porte che chiudo o degli accendini che utilizzo. Del mio corpo che mentre fuma tira e respira affannosamente. Non ci sono orologi e il mio è stato preso subito. Esiste la luce, bianco, e la notte, nero che, dentro casa, è bandito. Credevo che qui si venisse per morire, ma sembra più che altro una celebrazione alla vita, alla semplicità. Mi spaventa perché era proprio la vita che volevo lasciar fuori. Erano proprio le sigarette che, pensavo, uccidono.


Il terzo giorno torna lui. Mi alzo e trovo il latte, per la prima volta, e un panino. Mangio inzuppando quello che ho. Il latte è la prima cosa che mi lascia sensazione di casa, di quello che ho lasciato fuori. Fumo la prima dopo colazione. Mi lavo. Ci sono, spesso, fogli bianchi sparsi per la casa. Li prendo e inizio a disegnare qualcosa. Di solito cubi. Faccio 2 quadrati e poi collego i lati e faccio torri, torri di cubi imperfetti. In quel momento entra lui. È sempre lo stesso, fuma. Rientro ancora nella concezione delle sigarette come vizio, ben scandite in orari prestabiliti, dopo attività che necessitano, nella mia testa, del fumo. Qui, invece, il fumo è vivere. Lui non mi saluta. Io non saluto. Si mette a cercare cose, mette a posto altre. Poi si siede e fuma. Allora fumo pure io. Poi, dopo mezz’ora, ma potrebbe essere anche un’ora, va via. Ritorno solo e fumo. Disegno cubi su cubi. Territori inesplorati. Silenzio. Mangio. Dormo. Fumo.


Passano altri due giorni in cui sono da solo. Bianco e silenzio. Fumo, molto. Fumo anche perché non so cosa fare. Spesso esco in giardino e osservo il cielo. Osservo le nubi di fumo che escono dalla mia gola, dalla profondità del mio corpo per svanire, confondersi nell’aria. Rimane la noia. Cerco di perdere ogni abitudine. Di rendere tutto un flusso. Mangio senza orari, quando ho davvero fame. Bevo quando sento la gola secca. Fumo sempre, spesso senza neanche finire del tutto la sigaretta. Dormo a tratti, senza lunghi percorsi. Ho paura dei sogni e di quello che potrei scoprire.


Torna lui. Ritrovo il latte una mattina e lo bevo, ancora casa. Poi inizia a mettere in ordine cose negli scaffali. Fuma. Non finisco tutto il latte perché non mi va. Metto la tazza in frigo per berlo dopo, magari lo scaldo. Fumo anche io. Lui si siede e mi fissa. Una parte di me credeva che questi gruppi facessero solo casino. Nascessero con l’intento di vivere e basta. Se la vita è silenzio, qui si vive. Se la vita è uccidersi, qui si muore. Lui spegne una cicca e ne tira fuori una nuova dal pacchetto.

«Da domani inizierai ad occuparti delle sigarette. È passata una settimana da quando sei entrato e ne manca una alla tua decisione». Si alza e va via.


La mattina dopo c’è altro latte. C’è anche lui. Ha uno zaino. Lo poggia sul tavolo, dove sono seduto a mangiare. Apre lo zaino. Tira fuori due cilindri. È tabacco. Ci sono cinque pacchi di cartine, quelle per sigarette. Un liquido appiccicaticcio e filtri, a loro volta, strani, di un materiale semiduro e aperti al centro. Lui non parla. Fuma. Per ultima tira fuori una macchinetta. Infila il tabacco nello spazio apposito, inserisce la cartina già leccata nella parte della colla da un lato e il filtro all’estremità, poi schiaccia la parte superiore della macchinetta, che ricorda un tagliacarte, e la sigaretta è pronta. La bagna nel liquido che, prima di iniziare, ha versato, tipo vernice, in un piattino. Poi infila la sigaretta, ancora leggermente bagnata, in un pacchetto di quelli bianchi privi di marche da cui, anche io, prendo le mie sigarette.

«Non ti porterò più latte, da ora non ci saranno più legami con quello che sei stato o quello che facevi prima».

Dopo va via. Rimango solo. Inizio a chiudere sigarette e preparare pacchetti. Una dopo l’altra il movimento inizia a susseguirsi sempre uguale. Mi chiedo da cosa derivi il liquido in cui imbevo le sigarette. Cerco di annusare, ma hanno eliminato ogni odore e anche il colore è privo di sfaccettature. Una specie di grigio senza vitalità. Io non fumo le sigarette che chiudo, continuo a fumare quelle che mi hanno dato, sperando non vengano bagnate con quel liquido, sperando questa sia una prova per capire quanto ci tengo. Per il resto del giorno rimango al tavolino a lavorare. Dovrei ricordare ancora che fuori c’è un mondo, che le cose continuano ad accadere e che la gente non si è fermata come ho fatto io, non tutta almeno.


Il giorno dopo finisco una delle due tazze di latte che avevo conservato in frigo. Ne rimane una, ma la prendo e butto il latte nel lavandino. Fumo. Continuo a chiudere sigarette. Ho già completato una quindicina di pacchi. Una volta chiusi li infilo nello zaino. Lui arriva credo verso l’ora di pranzo. Prende lo zaino, osserva i pacchetti e la qualità delle sigarette chiuse. Non mi dice nulla. Fuma. Finisce, penso vadano bene.

«Fra tre giorni abbiamo preparato una festa, vicino ad uno dei complessi del Vuoto. È giusto che tu ne prenda parte. È giusto che tu comprenda tutto quello che siamo. Silenzio e tranquillità, ma anche demoni che pretendono di vivere. Pretendiamo di avere ragione. Pretendiamo che gli altri, quelli che vivono le loro vite normali, nelle minuscole case o quelli che decidono di uccidersi per anni in attesa di qualcosa di migliore, si accorgano di noi, di quello che rappresentiamo per questo mondo. Noi siamo la vita. L’attesa e il terrore di tutti quelli che ne hanno paura. La morte e la distruzione per chi crede di aver capito, ma sbaglia, sbaglia continuamente. La violenza è parte di tutto questo. Capisci?»

Annuisco. Fumo anche io, per la prima volta, una delle sigarette che ho chiuso. Sono come le altre. Sapevo questo. Sapevo della violenza e delle feste. Delle notti di fiamme. Dei messaggi di sangue che cercano di mandare. L’odio smisurato verso le mosse di marketing. Verso qualcuno che dice di conoscere una verità. Verso chi ci casca.

«Dopo la festa potrai decidere. Essere nulla o fingere di non esserlo. Riempirti la testa di storie per credere nel significato di qualcosa. Partiremo nella notte, verrò io a svegliarti» si alza per andare via. Parlo per la prima volta.

«Cos’è questo liquido che ho spalmato sulle sigarette?»

Non sembra intenzionato a rispondermi. Poi si gira.

«Distillato a piccole dosi, ti porta a perdere tutta l’ansia per quello che sei stato. O almeno questo ci piace credere. Rilassa, rilassa sempre di più, ma se ne abusi bevendolo o provando ad infilartelo in qualsiasi buco tu abbia utilizzato per drogarti prima ci rimarrai secco».

Rimango solo. Fumo. Riprendo a disegnare cubi. Intingo sempre di più le sigarette nel liquido. Dormo.


L’odore di bruciato è forte. Non è quel bruciato da falò, quell’odore naturale. È quel bruciato che sa di plastica. Chimico, tossico. Abbiamo riempito 4 pulmini. Una cinquantina di persone. Tutti zitti e vestiti di bianco. I pulmini li abbiamo lasciati, più o meno, ad un chilometro da qui. Dicono tengano abbastanza sotto osservazione gli edifici del Vuoto. E noi non vogliamo altro che essere visti. La festa ha luogo nel parcheggio di uno di questi edifici. Un grosso spiazzo adibito alla conservazione delle macchine. Macchine di persone che non usciranno da quelle porte per altri trent’anni. Lasciano le macchine, scelgono il sonno lungo con la speranza di trovare un mondo diverso. Meno cattivo, meno sporco, magari senza la morte, senza i tumori, senza cattiveria. Ma è un’illusione no? Ci illudiamo che il progresso ci porterà un miglioramento. Ci siamo messi in fila. Una fila indiana di persone che non hanno volto, ho pensato. Io ero verso la fine. Siamo arrivati nel silenzio assoluto. Un fiume piatto. Poi il panico reale. Qualcuno, non sono riuscito a capire chi, ha tirato fuori delle casse, da lì musica che non ho mai ascoltato. Rumore, rumore e ancora rumore, ma con una nota di arcaico. Ho pensato a quei vecchi riti, quelle vecchie feste a cui gli dèi stessi prendevano parte. Ma dove sono ora gli dèi? Magari siamo noi, magari quel progresso tanto desiderato ci ha portato a questo. Magari chi dormirà per trent’anni si risveglierà in un mondo popolato solo da esseri divini, con un livello d’intelligenza tale da riuscire a risolvere qualsiasi problema. Resta il fatto che l’essere divino non esclude l’essere umano e questo comprende comportamenti e sensazioni che non spariranno, che ci renderanno sempre illusi. Ci hanno lanciato delle mazze, pezzi di legno, di ferro, mazze da baseball non professionali, racchette, tutto ciò che può distruggere. E gli altri, io in un primo momento sono stato preso da una paralisi dovuta allo shock di quanto stavo vedendo, hanno preso a spaccare tutto. Finestrini, cofani, sportelli. Il rumore del vetro che va in frantumi, un continuo. Mi si spaccano le orecchie, dopo giorni di silenzio. La rottura. Il rumore che opprime l’orecchio, l’udito. Distruggono le macchine. Ballano. Accendono petardi. Accendono falò. Fuochi che illuminano la notte. Luce che risplende e si espande attraverso i nostri vestiti. Persone che rimangono in silenzio per giorni, settimane, hanno la possibilità di sfogare l’esubero di tranquillità. Alcuni si baciano. Altri si toccano. La maggior parte continua a distruggere. Macchina dopo macchina. Persona dopo persona. Idea dopo idea. Tutto. Una fila perfetta di veicoli parcheggiati in sequenza. Ci regalano il vuoto piacere di distruggere. Anche io afferro una mazza e comincio a spaccare. Ad urlare e spaccare. Vetri. Specchietti. Calci. La vita è una linea piatta con picchi di violenza indiscriminata. Inizio a sentire le sirene. Le macchine della polizia. Sei, sette, otto. Si fermano. Urlano cose incomprensibili nel rumore. Nessuno smette. Nemmeno io. Si avvicinano con gli scudi, i manganelli, le pistole. Prima solo due o tre, poi quasi tutti ci buttiamo di forza sulla schiera di poliziotti. Sento colpi di manganello, ma continuo a sfondare, colpire con la mazza. Vedo sempre meno, anche se la notte è sempre densa. Ho mal di testa. Ci sono urla, tante. Parole. Musica forte. Ancora violenza, anche da parte mia, anche se non riesco più a capire chi colpisco nella marea di persone. Vedo il bianco, sprazzi di bianco appaiono nella folla. Poi, come in quelle vecchie storie con le campane, con i flauti e i richiami, la musica si ferma. Tutto si ferma. La folla riprende a schierarsi. Il silenzio assoluto. Ci sediamo a terra. Io non so di doverlo fare, ma lo sento. Dobbiamo mostrare quello che siamo. Dobbiamo mostrare l’arma più potente che possediamo: il silenzio. Il bianco, adesso, è sporcato dal rosso, sui corpi e sui volti. Ma il bianco non sparisce, il bianco contiene tutto quello che è altro. Come la violenza, come il rumore, tutto nel silenzio. Inizia a salire il sole. Noi fermi, dopo la distruzione. Loro ci guardano. E qualcuno tra di loro, come noi, guarda il sole. Poi torniamo in fila, silenzio. Una sola testa. Una lava bianca che scende dal pendio. Camminiamo. In fila. Verso i pulmini. Mi accorgo che dietro, alla fine della fila, qualche poliziotto ci segue. Non per farci male. Ci segue con la testa alta. Siamo noi. Infilo la mano in tasca. Prendo una sigaretta. Fumo. In silenzio.


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