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Memorie di un drago rosa
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 11/10/2022 0 Comments 19 min read
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di Luca Skuyatulek
Copertina di Susan Orlok x Midjourney

Discendo da una schiatta di anfitteri, iaculi, linnormi e coccatrici, ma non assomiglio molto a nessuno di loro. Con l’addomesticazione sono diventato piccolo, morbido e rosa shocking. Vado a pile. Faccio una specie di WROF se mi schiacciano il pancino e sono in vendita ai grandi magazzini (e forse anche in quelli meno grandi).

Sono entrato nella tua vita che neanche te lo ricordi, perché sei un pirla, per citare Montale. O perché i cuccioli di uomo non ricordano un cazzo dei loro anni da cucciolo, quando poi crescono. Ma i tuoi genitori se lo ricordano, che tuo padre era preoccupato che non ti staccavi da ‘sto drago rosa (muà), e tua madre gli diceva non rompere dai.

Ti piaceva abbracciarmi mentre dormivi e ti piaceva schiacciarmi il pancino e farmi dire WROF. Alla materna le maestre vi lasciavano portare un peluche per il riposino pomeridiano e tu una volta hai portato me. Solo che mi avevi fatto fare WROF senza sosta, svegliando tuttə (che coglione) e avevi rotto talmente tanto (ero sinceramente imbarazzato per te) che le maestre avevano dovuto fermare tua madre all’uscita e pregarle di non farti più portare il drago rosa. Sarebbe bastato che non mi avessi fatto fare WROF tipo diecimila volte e avremmo potuto continuare a dormire insieme, cretino.

Che poi per me era difficile fare il riposino pomeridiano da solo, nella tua cameretta, col muso rivolto al soffitto, con un ragno nell’angolo che mi fissava. Vieni qui che ti incenerisco, cercavo di comunicargli attraverso lo sguardo. Ma non ho mai avuto lo sguardo da duro. Niente fessure alla Clint Eastwood o alla Butch de Il viaggio di Arlo. Piuttosto occhi grandi, grandi pupille, un po’ da thc semmai. Occhi grandi che non si chiudevano, da solo col ragno.

Ma alle cinque di pomeriggio tornavi a casa e la notte, almeno, mi stringevi forte e dormivamo insieme. E facevo delle gubbiate ristoratrici fantastiche e sognavo che andavamo in giro a incenerire la gente, gli edifici, i centri commerciali, i parcheggi, insomma tutte quelle attività che un bambino dovrebbe fare con il proprio drago, e mi svegliavo ancora pieno di gioia, che mi sarebbe venuto da piangere, se i miei occhi di plastica avessero potuto piangere. Poi tu andavi a scuola, da solo, e io stavo a casa a guardare il soffitto.

Eri un bambino rotondo e occhialuto, e non so come tu abbia fatto a sopravvivere senza di me, cioè senza un drago rosa sputafuoco a difenderti dai bulli e dalle bulle.

Le cose tra noi cominciarono a peggiorare quando il tuo migliore amico, che potremmo chiamare Giantipo, che era tuo amico dalla materna, un giorno, dovevate avere già otto-nove anni, disse: «Ma cosa tieni sul letto questo drago da froci?»

Gli domandasti cosa fosse un frocio e lui rispose: «È un busone» e tu gli domandasti cosa fosse un busone e lui: «Un busone è uno che lo prende nel culo, anche se è anche una persona che ha culo, quindi una persona fortunata».

Tu allora indagasti se allora una persona era fortunata a prenderlo nel culo e poi, aggiungesti, che cos’era esattamente, questo prenderlo nel culo. Un frocio, tagliò corto il tuo amico, è un maschio che si comporta da femmina. Alla domanda su dove avesse sentito tutta ‘sta roba, disse che l’aveva capita un po’ da suo padre, che gli diceva spesso di non fare il frocio e un po’ a scuola, dove Davide, un ragazzino in classe con voi, si era preso l’incombenza di spiegare a tutti (a tutti tranne te, mi sembrò di capire) cos’erano la sborra, la figa e i froci.

Insomma, d’un tratto ero un drago da froci. Mi sembrò subito un’ottima cosa. Una specializzazione, pensai. C’è il cane da guardia e il drago da froci e tu stesso, in futuro, avresti avuto molti più problemi con le guardie che con gli omosessuali.

«Ma perché questo drago sarebbe da froci?», avevi chiesto timidamente (e infatti avevi detto “sarebbe”).

«Ma perché è rosa. Il rosa è da femmine!»

«Sì?»

«Certo, non te l’hanno mai detto i tuoi genitori? E dato che il rosa è da femmine, se un maschio gli piace il rosa è frocio».

Ora, non per dire, ma questo tuo amico era letteralmente ROSA. Sembrava Babe, il maialino coraggioso. Tu, ok, sei più sul giallo, ma il tuo amico, ripeto, ROSA, totalmente ROSA. Gli mancava solo che a schiacciargli il pancino facesse GRUNF. Che cazzo voleva da me?

Eppure, sto imbecille doveva avere un certo ascendente su di te, perché subito mi raccogliesti dal letto e, abbastanza sbrigativamente, apristi l’armadio e mi ficcasti lì, tra le coperte invernali. L’armadio si chiuse e io rimasi al buio, a sentirvi parlare d’altro. Beh, di altre stronzate:

«Qual è la tua donna ideale?» (diceva lui)

«Non lo so, a me piace la Sonia». (dicevi tu)

«Ma ha gli occhiali E l’apparecchio».

«Sì, infatti, da quando le ho visto l’apparecchio vorrei avercelo anch’io…»

«Ma sei matto. La mia donna ideale deve essere alta magra avere le labbra carnose i fianchi larghi la vita sottile e una quarta di tette».

«Ah».

«Ma penso che tutti la pensino così. E qual è la tua macchina ideale».

«Non mi piacciono molto le macchine, ma mio zio ha una Transalp e…»

«La macchina più bella è la macchina della polizia».

«Ah, e perché?»

«Perché non ci sono froci tra i poliziotti. Me l’ha detto mio padre, che fa il poliziotto. Quindi la macchina della polizia e la macchina più maschia che c’è».

Quando Giantipo se ne andò, corresti da me e apristi l’armadio. Mi guardasti un po’, con uno sguardo che non ti avevo mai visto addosso. Era come se mi studiassi. L’esatto opposto di quando ci siamo incontrati per la prima volta (tu non puoi ricordarlo), in cui nel tuo sguardo c’era solo un amore traboccante e l’incredulità di trovarsi di fronte a tanta rosea morbidezza. Quel giorno, no. Sì, quel giorno tu mi studiavi.

Mi ritirasti fuori dall’armadio, ma ogni volta che veniva Giantipo (e veniva quasi ogni giorno) mi rimettevi dentro. Le vostre sedute alla playstation, le passavo al buio. E giocavate pure a Spyro, porcosangiorgio (così bestemmiamo noi draghə).

Però la sera mi tiravi fuori, e dormivi con me. Fino a che, un giorno, dovevi avere tredici o quattordici anni, non ti sei semplicemente dimenticato di ritirarmi fuori.

Una volta, sempre dal mio armadio buio sentii Giantipo dirti che, da grande, avrebbe provato il concorso per entrare nella polizia. Così, diceva, potrò guidare la loro macchina tutto il tempo. Tu sembravi entusiasta, pieno di incoraggiamento, ma poi ti lamentasti, la sera, con Giantipa, la figlia del cartolaio e compagna di liceo di Giantipo, che Giantipo ti sembrava troppo ossessionato con la storia della polizia. La polizia, ti sembrò giusto ricordare, aveva caricato gli studenti in piazza. Ma come, aveva detto Giantipa, la polizia è necessaria per mantenere l’ordine. È molto nobile, da parte di Giantipo, voler fare un mestiere tanto rischioso, e così altruista, un po’ come il dottore, che ce n’è tanto bisogno. Beh, come il dottore, avevo pensato io, ma senza dire niente dall’oscurità del mio armadio, non proprio come il dottore. Più che altro, si era chiesta Giantipa, ma Giantipo è alto abbastanza per entrare nella polizia?

Nell’armadio mi abituai al buio, che non è una roba facile. Dall’armadio sentivo un sacco di roba che dicevi, che ti dicevano. Ti dicevano:

«Cosa leggi ancora i fumetti?» (Giantipo)

«Io voglio un uomo sicuro di sé, come mio padre». (Giantipa)

«Questo ha fatto la spia nello spogliatoio, per me non è un vero uomo». (Giantipo)

«Ma tu lo meneresti uno se ci provasse con me? Cioè, riusciresti a menarlo?» (Giantipa)

«Ma tu stai con questa qua? La cicciona di quinta C?» (Giantipo)

«Ho bisogno di sentirmi protetta, dovresti fare un po’ di palestra». (Giantipa)

Avrei voluto uscire fuori e dare fuoco a tutti e tre, ma ci avevo pensato troppo tardi e ormai le pile cominciavano a scaricarmisi. Chissà se avrei saputo carbonizzarvi a puntino, come fantasticavo debolmente ogni sera, cercando di addormentarmi.

A un certo punto Giantipa ti ha mollato (forse dopo aver appurato che no, non saresti riuscito a menare qualcuno per lei) e per un po’ sei stato abbastanza giù di morale. In quel periodo non mi hai mai tirato fuori dall’armadio, però, quindi immagino tu ti sia limitato ad abbracciare il cuscino quando ti addormentavi. Poi, un giorno, hai incontrato Piertipa. Piertipa non veniva dal tuo paesino, ma da addirittura un’altra regione, da Tortona, anche se a quanto pare, avevi scoperto su Wikipedia, anche là parlavano una variante del tuo dialetto. All’inizio sembrava promettere bene, perché la prima cosa che ho sentito è stata un complimento – o, almeno, si capiva dall’intonazione che era una frase intesa come un complimento: «La tua barba è così mascolina mmm» (Piertipa)

E poi, non lo so, sembrava gentile, e a letto ti faceva fare dei suoni direi di grande soddisfazione, pari solo a quelli che facevi ingollandoti i baci di dama che ti portava quando ritornava dopo essere stata da sua madre. Dovevi esserne invaghito, perché un giorno mi hai tirato fuori dall’armadio, mi hai aperto la schiena (zero anestesia, tante grazie) e dopo avermi tolto le pile, del resto ormai scariche hai messo al loro posto due cioccolatini. Mi sembrava una grezzata, offensiva un po’ per tuttə. Cioè, prima di tutto, io non sono un drago da cioccolatini. Ammesso che il tuo amico Giantipo abbia ragione, sono un drago da froci, e altrimenti sono semplicemente un drago da fuoco, un drago rosa sputafuoco. Quello era il posto delle pile, senza le quali non posso fare WROF.

La seconda cosa è che avevi dovuto schiacciarli parecchio questi cioccolatini, che chiaramente non ci stavano, e chiaramente si sono mezzi sciolti. E poi due di numero, che miseria. Credo sia anche per queste grezzate che Piertipa ti avrebbe poi lasciato.

Comunque, quel pomeriggio mi ha preso, e ha detto: «Oooh, è per me?» e tu, né confermando né smentendo un passaggio di proprietà che mi fece temere il peggio, hai detto: «Guarda dietro, nella gobba».

Che poi gobba sarà tua madre. Al massimo un po’ di scoliosi.

Piertipa mi ha preso tra le sue manine umidicce (mi toccò diverse volte nei mesi successivi, e le sue dita erano sempre umidicce), mi ha aperto la schiena (zero anestesia) e ne ha estratto due cioccolatini spappolati.

«Ah, che uomo romantico»

Notavo che ogni volta che ti faceva un complimento ci metteva sempre dentro qualcosa relativo al fatto che eri un uomo. “La tua barba è così mascolina” e “Che uomo romantico” erano solo due esempi. Nei miei mesi passati nell’oscurità, ho compilato una lista mentale di tutte queste caratteristiche:

«Che pancia da birra, da vero uomo».

«Che schiena vellosa, da vero uomo».

«Che alito maschio, da vero uomo».

«Che sudore intenso, da vero uomo».

«Che sopracciglia forti, da vero uomo».

«Che gambe muscolose, ma è perché hai giocato a calcio da vero uomo?»

Però in qualche mese, le frasi cambiarono leggermente:

«Che pancia flaccida; perché non fai un po’ di palestra?»

«Che schiena pelosa, ma è un problema ormonale?»

«Fai qualcosa per questo alito o non possiamo più dormire insieme».

«Ma perché sudi così facilmente, è un problema ormonale?»

«Ma hai mai pensato di andare dall’estetista per queste sopracciglia?»

«Non avevo mai notato che avessi le gambe storte, ma è per aver fatto i pulcini per due anni?»

Oh, io non ci capivo niente prima e non ci capivo niente dopo, eh. Che forse andava bene così, che forse i complimenti che ti avrei potuto fare io non ti sarebbero piaciuti, tipo:

“Che bella pancia morbida che hai, da vero drago rosa di peluche”.

“Che occhi grandi che hai, da vero drago rosa di peluche”.

“Come fai bene WROF, quando ti impegni”.

E niente, poco dopo che le frasi erano cambiate, anche Piertipa ti lasciò. Ebbe la gentilezza di riportarmi da te (o forse non voleva più niente che le ricordasse di te, nemmeno un drago rosa) e questa volta tu mi mettesti dentro uno scatolone e mi spedisti in cantina.

Come ti avrei bruciato la casa per questa infamata, sangiorgiocremato (così bestemmiamo noi draghə). In quegli anni sonnolenti, confusi, quante volte, nel dormiveglia, ho immaginato la tua casa avvolta in turbinii di fiamme, soffocata dal fumo. Ma ero senza pile, e quindi senza forze, se non per sognare, fantasticare, ma non troppo, che le mie stesse fantasie incendiarie erano spossanti. Anche l’odio richiede troppe energie. Inoltre, cominciavo a perdere il senso del tempo, e, non sapendo se fossero passati mesi o anni da quando ero stato esiliato in cantina, iniziai a dubitare che tu abitassi ancora nel palazzo.

Nessuno scendeva laggiù. Attorno a me, probabilmente, un mucchio di scatole e scatoloni, valigie rotte, vecchie lenzuola, un pallone sgonfio o un frisbee sbreccato.

Perché ero lì, veramente? Ero stato condannato perché ero troppo morbido? O era perché ero troppo rosa? Questo non poteva essere, perché il tuo migliore amico, il buon vecchio Giantipo, veniva pur sempre a trovarti (erano i suoi passi che sentivo rimbombare per le scale, ne ero sicuro – e quindi, sì, immagino tu vivessi ancora lì) e Giantipo era la persona più rosa che avessi mai visto. No, doveva essere la morbidezza. O era perché ero un drago? O perché ero un drago morbido?

In cantina capii anche che c’erano diverse qualità di buio, per esempio il buio naftalinico e il buio umido. Il buio naftalinico era ovviamente quello dell’armadio, quello umido quello della cantina. La differenza era che dal primo avevi la speranza di riemergere, di essere tirato fuori come un abito passato di moda o di stagione e tornato improvvisamente utile. Il buio umido era il buio abitato dalla muffa, dai ragni, dai topi. Dal buio umido, avevo l’impressione, non si usciva tanto facilmente. Nel buio umido, mi sembrava, era più facile seguire l’esempio delle travi di legno, e marcire.

Ma non era questa la sensazione peggiore. Ad essere più insopportabile, per me, era che mentre io ero confinato in questo buio senza uscita, una persona come Giantipo girava all’aria aperta, veniva a trovarti, forse passava il concorso e diventava poliziotto, e trovava una che lo sopportasse (o come lo avevo sentito dire una volta, una che non gli rompesse i coglioni) e faceva figli a cui insegnava a non comportarsi da froci, come suo padre aveva insegnato a lui, e caricava e manganellava gli studenti in piazza e in casa vietava al figlio di avere un drago rosa e alla figlia di avere un drago blu, mentre la moglie la sera gli stirava le camicie e lavava i piatti e dopo un paio di colpi gli si addormentava accanto al sospiro di oh, che uomo, che uomo che ho.

Una settimana fa sei venuto a interrompere il mio torpore. Hai aperto lo scatolone e hai lasciato che la luce colpisse le mie pupille perennemente dilatate. Eri un po’ cambiato. Meno rotondo di faccia, sempre occhialuto, ma senza la barba tanto apprezzata da Piertipa. Vicino a te, una ragazza dalla faccia leggermente squadrata, anche lei occhialuta e, soprattutto (fu questa caratteristica a farmela subito venire in simpatia), con i capelli rosa.

«È questo il peluche di cui mi parlavi?»

«Sì. Mi è tornato in mente vedendo i tuoi».

«Dici l’orsetto e l’ornitorinco?»

«E il papero e il furetto e il tasso e tutti gli altri mustelidi. Ma sai che ora che lo vedo, così tutto rosa, mi ricorda un po’ te? Per i capelli, sai».

«E a me la sua morbidezza ricorda la tua pancetta. Dai, portiamolo su».

Mi hai preso in braccio e mentre facevate gli scalini la ragazza ti ha chiesto se non ti sembrava infantile che lei avesse, a più di vent’anni, ancora tutti quei peluche in casa. In realtà, le hai risposto, ho capito che era ok avere dei peluche proprio perché li ho visti da te. Ho pensato, hai aggiunto frugandoti le tasche, che se una persona tosta come te può avere dei peluche a casa, allora…

«Io sarei tosta?»

Ti aveva interrotto così, mentre inserivi le chiavi nella porta di casa, quattro piani più in alto dell’inferno dove mi avevi confinato per anni.

«Certo che sei tosta», le hai detto: «Ti ricordi quando quei poliziotti ti hanno tirato via dalla strada, uno per le gambe e uno per le ascelle, e poi ti hanno buttato per terra, accanto a me? Io ti ho visto che ti rialzavi, e non ti tremava la gamba. A me avevano appena fatto la stessa cosa, le hai detto, mi avevano preso e buttato per terra, e rialzandomi non riuscivo a dire alla mia gamba di smettere di tremare».

«Forse», ti ha detto lei, «ti stressavi da solo con ‘sta cosa che non dovevi avere paura e tutta sta tensione ti ha fatto tremare la gamba».

«Comunque», le hai ribadito, «tu sei tosta». Poi hai aggiunto, «Prima, in cantina, hai menzionato la mia pancetta e, non lo so, dicevi toccando la mia coda nervosamente, mi chiedevo se è un problema per te, questa mia pancetta».

Entrati in camera tua, mi hai messo sulla scrivania e avete cominciato a spogliarvi. Aspetta, ha detto lei. È venuta da me e, prendendomi per i fianchi, mi ha girato verso la finestra. Così non lo traumatizziamo, ha aggiunto, magari è un drago piccolo. Dovrebbe avere tipo la mia età, hai detto tu. Va beh, magari due umani che fanno sesso gli fanno schifo, ha detto lei.

Invece, ti ha sussurrato sfilandoti la maglietta, ora ti faccio vedere come mi piace la tua pancina. Mi piacciono, continuava, tutte le parti morbide che hai: la pelle del collo, che sembra quasi il collo di una donna, le guanciotte, le labbra… questa parte di braccio. E poi ovviamente la pancina, morbidissima, come il tuo drago. 

Il panorama dalla finestra non era male. Non mi ricordavo di averlo mai visto. C’era un baretto, un tabaccaio, un minimarket, tutti al primo piano di un edificio dove forse vivevano i proprietari di quei locali. Sotto casa c’era la fermata dell’autobus. Il vostro sesso è durato tre arrivi dell’86.

Quando avete finito, sei venuto a prendermi e mi hai portato sul letto con voi. Lì mi hai schiacciato la pancia. Non ho emesso alcun suono.

«Una volta faceva ROAR, se lo schiacciavi».

«Sì?»

«Sì, mi hanno persino cacciato dal pisolino pomeridiano alla materna perché lo schiacciavo troppo».

«Che disturbatore della quiete pubblica. Vabè, allora bisogna comprare le pile».

Siete scesi (immagino dal tabaccaio) e siete tornati su dopo un quarto d’ora con delle pile. Tu stavi per aprirmi la schiena, ma la ragazza che era con te ha detto: «Aspetta! Bisogna fargli l’anestesia».

Così ha cominciato a massaggiarmi la schiena, poi mi ha dato un bacino sul pelo (nessuno mi aveva mai baciato prima, nemmeno tu) e poi mi ha aperto la cerniera. Ha inserito le pile e mi ha richiuso. Poi mi ha girato sulla pancia e me l’ha premuta. WROF, ho detto. Giuro che mi ricordavo che faceva ROAR, hai detto tu.

Poi avete parlato di cose che capivo solo a metà:

«Potresti portare il drago, al prossimo sit-in».

«Ma dai».

«Sul serio. Hanno detto di portare qualcosa che ci tranquillizzi. Io credo porterò Ugo».

«L’ornitorinco?»

«Conosci altri ughi?»

«Non lo so».

«Cosa non sai?»

«È che l’ho appena ritrovato e non mi va di perderlo».

«Ma dai, per me questo è un drago d’avventura. A casa si annoia. L’hai tenuto per anni in cantina, chissà quant’è che non lo porti a fare un giro. E poi possiamo chiederglielo: vuoi andare a lanciare i brillantini ai poliziotti?»

WROF.

«Vuoi andare ad abbrustolire il patriarcato?»

WROF, WROF!

«Vuoi andare a portare la morbidezza nel mondo?»

WROF, WROF, WROF!!!

Due giorni dopo mi stringevi forte al petto, il tuo petto che forse perché lo schiacciavo faceva TUM TUM TUM mentre scappavi con gli occhi arrossati, forse guidato dai miei occhi più lucidi, più resistenti ai lacrimogeni (poiché di plastica) mentre qualche metro più indietro l’agente Giantipo cercava di spiegare al tenente Mazzetta e al commissario Bomboloni che la sua auto era stata appena carbonizzata da un drago rosa.


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