Testo di Andrea Bruccoleri
Immagini di Ana Fabiola Medina
Non ne potevo più di me stesso. Per questo ho deciso di andarmene. Ho cercato un tirocinio per avere almeno un motivo che paresse valido e alla fine l’ho trovato, il tirocinio dico, perché la scusa, quella non se l’è bevuta proprio nessuno. Pagano una miseria, ma non importa. Ho accettato la proposta perché è lontano. E così lontano, io non c’ero mai stato.
Mi ero stufato dei vestiti regalatimi dalle mie sorelle, degli oggetti accumulati in modo compulsivo, dei libri esibiti sugli scaffali per fare il figo. Volevo liberarmi da quel ciarpame, da quelle cose che mi attorniavano e mi assillavano e che c’avevano sempre qualcosa da rinfacciarmi. Qualcosa di rimandato, o di lasciato fuori posto.
Non dovrei parlare di me però, questa dovrebbe essere piuttosto la storia di Angelica. Ma potrebbe anche essere quella di Luis, di Rosa e di un sacco di altra gente. Oppure potrebbero essere gli stralci della conversazione con Federico, una chiacchierata cominciata in un bar di Providencia e proseguita poi via mail sotto forma di intervista.
I primi tempi dopo l’undici settembre sono stati i peggiori, mi confida Angelica, perché la gente che ha l’abitudine di applicare scariche elettriche ai testicoli dei prigionieri, che infila ratti vivi nelle vagine delle recluse, prima o poi si mette a bruciare libri e biblioteche intere.
Le direttive però non erano chiare, che in generale i gerarchi dell’esercito non si contraddistinguono per essere dei lettori appassionati. Così, a fianco di testi dichiaratamente ideologici – come quelli stampati dalla casa editrice Quimantú –, nei roghi sono finiti tantissimi libri che non c’avevano niente a che fare con la lotta di classe e la coscientizzazione del popolo.
Federico Eisner Sagüés1: Credo che l’elevato prezzo dei libri in Cile sia conseguenza diretta della scarsa domanda. Ciò che dipende da una precisa volontà politica è la mancanza di un interesse massivo nei confronti della lettura. Però non si deve soltanto alla dittatura; penso che sia qualcosa di più antico e in relazione con la tensione cilena ad accettarsi come componente del mondo andino, come paese indigeno. Un paese che è stato convinto dalla sua classe creola a non guardarsi mai allo specchio, a vergognarsi del proprio passato.
Luis è latitante. È novembre e si nasconde in una casa disabitata di Villa Alemana. Una notte lo svegliano i lampeggianti di un’auto che si rinfrangono sulla finestra. Una pattuglia della marina sfonda la porta. Cercano un certo Rojas, un vecchio dai capelli bianchi: l’identikit non torna. Luis però è nervoso. Sul comodino un pacchetto di sigarette, al suo interno un rapporto appallottolato che lo informa della situazione nel paese. Gliel’hanno inviato i compagni del MIR.
Perquisiscono casa, non trovano niente. Rovistano fra i volumi della biblioteca. Mettono da parte i libri degenerati ammonticchiandoli sul letto in una colonna traballante. L’attenzione degli ufficiali è catturata da un testo sulla scrivania. Leggono: “La cibernetica e la Rivoluzione industriale”.
Luis ha un bel spiegare che lui è uno studente di elettronica all’Università Santa María, che il testo in questione non ha nulla a che vedere col socialismo. Non gli credono. Lo spintonano. Arriva un ceffone. In un gesto disperato Luis sferra un calcio al letto, la pila cade al suolo. Approfitta del parapiglia per recuperare il pacchetto. Sfila una sigaretta con una mano, con l’altra recupera la palla di fogli: la inghiotte. Se gliela trovano sicuro gli sparano un colpo in fronte.
Federico Eisner Sagüés: La battaglia simbolica era ciò che veramente importava. In questa arena della conoscenza, queste classi – la rancida plutocrazia cilena – in seno alle proprie famiglie aveva soltanto pecoroni. Perché pensare era pericoloso, innanzi tutto, per loro stessi.
È stato più facile del previsto: ho disdetto l’affitto, chiamato una ditta di traslochi, svenduto i mobili su internet. Ho accatastato scatoloni di libri in cantine di amici. Solo per poco tempo, ho mentito a loro e a me stesso.
Viaggio solo con un trolley nonostante la mia destinazione disti quattro voli. Mi sposto senza zavorre, senza manco una lingua su cui fare affidamento. Riapprendo a chiamare le cose che mi circondano, a dare loro un nome. Manco di lessico, di sfumature.
Senza pose da studente, senza caselle già prestabilite. Punto dritto alla sopravvivenza: dieci verbi, quattro tempi, un bagaglio risicato con meno di duecento termini.
Hanno bruciato testi di fisica come “La resistenza dei materiali”: la parola resistenza era sospetta.
Hanno strappato le pagine del libro “La cibernetica e la Rivoluzione industriale”.
Hanno dato alle fiamme gli esemplari dell’opera di medicina “La serie rossa”. Perché tutto ciò che era rosso era un cancro da estirpare.
Hanno requisito i volumi sul cubismo. Perché persuasi che il cubismo avesse a che fare con Cuba.
«Negli anni Settanta leggere era di moda», ricorda intervistato da “La Estrella de Valparaíso” il professor Luis Costa, docente della facoltà di Giornalismo all’Università di Playa Ancha. «I prezzi di alcuni testi erano talmente bassi che la lettura era diventata accessibile a tutti. Si vendevano libri persino nei chioschi».
«Il ruolo di editori progressisti come Quimantú non è stato solo quello di affermare che la lettura è un diritto umano, ma anche quello di scatenare nelle coscienze un desiderio incontrollato di educazione, di conoscenza».
Con questo proposito il governo della Unidad Popular, dopo avere acquisito il quaranta per cento della casa editrice Zig-Zag, aveva fondato la Empresa Editora Nacional Quimantú. Perché il libro non fosse più un bene di lusso, un privilegio fra le mani di pochi. Per tre anni, nelle diverse collane della casa editrice, furono pubblicati classici, testi di storia e letteratura contemporanea, ma anche saggi, tesi di ricerca, libri per bambini e adolescenti.
Angelica è un’insegnante in pensione. È vedova. Sull’affitto ci fa la cresta, ma non importa. Nel cunicolo senza finestre che pago a caro prezzo c’è spazio a malapena per un letto. Mi basta, mi avanza.
Angelica tiene una fila di libri su un ripiano dell’armadio; poesie, romanzi, volumi a cui è stata strappata la copertina. Nella maggior parte delle case in cui vado mi colpisce questa assenza: non ci sono librerie.
Mi racconta che c’è stato un tempo in cui avere libri a casa era sospetto. A Valparaíso hanno organizzato roghi sotto l’Orologio Turri e sulla piazza Ánibal Pinto. Si narra che dopo un sequestro nella biblioteca dell’Università Santa María hanno bruciato nove tonnellate di letteratura marxista.
Nei quartieri di rogne non ne volevano: non è che fossero delle cime i militari che arrivavano di notte a casa tua. Molti hanno fatto da soli, sbarazzandosi di libri, dischi, ricordi. Seppelliti nei giardini insieme alle armi, buttati nelle stufe a legna insieme alle tessere di partito.
Federico Eisner Sagüés: Nella mia generazione si è cristallizzata una sorta di diffidenza nei riguardi della lettura. Sorretti da un sincero astio nei confronti dell’orrore e del piagnisteo, nonché guidati dall’imperativo del “guardare avanti”, gran parte della mia generazione ha sentito che non serviva più a nulla continuare a rivoltarsi nel passato e nella sconfitta.
Rosa vive nella calle Simón Bolívar, nel settore rurale La Reina. La retata le piomba addosso un giovedì di aprile. Agli ordini del colonnello Ceballos, un reparto dell’aeronautica si presenta alla sua porta. Nessuno la tratta col riguardo dovuto a una donna giunta al sesto mese di gravidanza. In casa scovano il marito, architetto e membro del MIR, in compagnia di un dirigente del movimento e di un medico argentino rifugiatosi illegalmente nel paese.
Rosa sente i tonfi provenire dalla stanza accanto, le grida strozzate. Le teste sbattute contro le pareti. Li trascinano fuori a forza.
Portano via il figlio sedicenne del marito.
Portano via il fratello adolescente di Rosa.
Portano via tutti quelli che, quel pomeriggio, bussano alla porta per comprarle una dozzina di uova.
Impiegano svariati giorni ma alla fine, dopo diversi viaggi, svuotano la libreria di cui andava fiero il marito.
Portano via tutti, loro si trattengono. Della pattuglia iniziale rimangono in cinque, accampati alla meno peggio nel soggiorno. E lì restano, per oltre due mesi, a fumare, giocare a carte, lustrare le armi. Ogni volta che squilla il telefono le puntano il fucile al ventre.
Digli di passare, le intimano.
Federico Eisner Sagüés: Personalmente non ho vissuto questa realtà, la dittatura uruguaiana ha avuto altre sfumature, molto più maldestre se vuoi, come ad esempio cercare di proibire il mate (puoi immaginartelo?), e benché fosse un regime anticomunista non adottò mai una linea apertamente neoliberalista come in Cile. Inoltre, questa dittatura fu più breve e terminò prima.
Chissà valga la pena di ricordare Mauricio (non ricordo il suo cognome), un professore di inglese che abbiamo avuto alle superiori e che aveva il dono di basare le sue lezioni esclusivamente sull’analisi dei testi delle canzoni americane, soprattutto dei classici del rock. A volte, quando le canzoni che commentavamo si facevano più impegnate o avevano risvolti attuali, non resisteva più e ci raccontava della prigionia e della tortura. Gli era difficile trattenere le lacrime. Di fatto ci sembrava che gli fosse difficile riuscire a vivere.
La prima volta che la conducono all’Accademia di Guerra Aerea, Rosa non lo sa dove si trova. Solo arrivati a destinazione le tolgono la benda. Al centro della stanza vede un tavolo lunghissimo con diversi funzionari intenti a battere sulle macchine da scrivere.
Tentano di convincerla con le buone: Collabora, le dicono.
Di fronte al suo silenzio, ricorrono alle minacce: Per ora si trova nella Penitenziaria, ma se non collabori lo spediamo ai campi di lavoro.
Rosa non parla, non cede, non denuncia. Uscendo dall’interrogatorio, prima che le coprano di nuovo gli occhi, nota decine di libri accatastati lungo la parete. Riconosce alcuni volumi appartenenti al marito: testi di storia, di politica, i tomi di un’enciclopedia.
Federico Eisner Sagüés: La generazione precedente la mia è quella che è nata con il golpe de estado. È stata una generazione a cui è toccato il compito – essendo molto giovani, poco più che adolescenti– di farsi carico di battaglie che i loro genitori non potevano più affrontare, dato che avevano vissuto l’orrore nelle proprie ossa, in prima persona. La generazione chiamata del Novanta, mi riferisco a loro, sebbene poco dialogante o dottrinaria, non ebbe altra scelta che essere critica. Il punto è che questa profonda capacità critica durò appena il tempo per essere tradita con il ritorno alla democrazia.
Cosa possiede un libro di così importante da spingere qualcuno a rischiare la vita pur di conservarlo? Perché è considerato una minaccia tale da doverlo bruciare? Queste sono solo alcune delle riflessioni suscitate dalla mostra “Biblioteca recuperada: Libros quemados y escondidos a 40 años del golpe”.
Voluspa Jarpa, una delle artiste invitate all’esposizione organizzata dall’Università Diego Portales, intervistata da “El Mostrador” sottolinea come i roghi di libri avessero due scopi: «L’obiettivo bellico consisteva nell’umiliare pubblicamente i vinti togliendo loro il diritto alla lettura e alla riflessione. Ma ve n’era un altro sottinteso: trasformare il pensiero critico in qualcosa di pericoloso, e dunque di proibito».
Secondo Ramón Castillo, curatore della mostra e direttore della Scuola d’Arte dell’università, un libro rappresenta un simbolo. «Non racconta soltanto una storia di letture, ma anche la sua storia in quanto oggetto».
Angelica m’ha regalato una raccolta di Neruda. È un pezzo di merda, le dico.
Lei ci impazzisce per la sua opera e non si cura che al giorno d’oggi non goda più del prestigio tributatogli ai suoi tempi, che nelle sue memorie s’è vantato di avere stuprato una donna quando era in missione in Sri Lanka come ambasciatore del governo Allende. Angelica sminuisce queste accuse, mi recita a memoria i suoi versi quando al ristorante ordiniamo una zuppetta di grongo.
Prendo in mano il libro. La copertina è sgualcita, le pagine spiegazzate, piene di macchie brune e giallastre.
L’umidità, risponde Angelica al mio sguardo interrogativo. È rimasto sotto le zolle del giardino, per sette anni. Queste poesie me le recitava mio marito. Adesso è tuo. Per i tuoi prossimi viaggi.
Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso.
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