Recidere
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 06/10/2020 0 Comments 9 min read
Un posto brutto, illuminato male Previous Cortinarius X cannella Next

Testo: David Valentini
Copertina: Da quaggiù la Terra è bellissima – Antimonio

Mi sono svegliato e Sara non c’era più.
È stata mamma a dirmelo. Quando sono andato in cucina non mi ha sorriso come suo solito. Invece mi ha fatto sedere, poi mi ha stretto forte come prima di una partenza. Mi sono sentito morire, avvolto in quell’abbraccio.
La prima cosa che ho fatto è stata guardare fuori, fra quelle strade dove non avrei più potuto incontrarla. Dietro di me, sentivo la presenza di mamma come quella di un secondino silenzioso.
Non so quanto tempo sono rimasto così. Dev’essere stato parecchio, perché a un certo punto mi ha detto che oggi potevo restare a casa se non me la sentivo.
Ok, ho detto. Non ce l’avrei fatta a mettere piede là dentro, a incontrare gli altri.
Così stamattina, invece di andare a scuola, mi ritrovo sulla nostra chat di WhatsApp. Sono stanca, scriveva, cado a pezzi. Davanti agli occhi mi passano tranci di conversazioni – fanculo, mi manchi, ho paura, almeno tu stammi vicino – finché non arrivo a quasi due settimane fa.

Sai chi è stato? 01:10
Ti prego Nicco 01:12
Se lo sai dimmelo 01:18
non lo so 01:43
te lo giuro 01:44
Dimmi che non ne sapevi niente 01:44
ma che dici 01:45
ti pare? 01:45
Hai ragione scusa 01:45
Sto impazzendo 01:45
Mi fido di te 01:45
♥ 01:47
♥ 01:52

Mi viene da vomitare se penso a quello che stavo facendo in quel momento.
Il suo ultimo messaggio è di un paio di giorni fa: l’mp3 di quella maledetta canzone. Alla fine aveva deciso di chiamarla Recidere. Non ho mai riprodotto l’audio, mi era bastato sentirgliela suonare una volta. Le ho inviato un cuore, ma non ha mai risposto.
Speravo in qualcosa – non so cosa di preciso, forse un addio – invece non c’è altro.
Sotto la doccia mi brucio con l’acqua bollente, così ho una scusa per urlare.

Su Telegram, scrivono che bisogna solo far calmare le acque. Marco risponde che non sa se ci riesce, e lì partono gli insulti. Scorro la chat, torno al punto zero.

Renzo
Avete chiuso il canale sì? 08:12
Luchetto
Si 08:12
Appena ho saputo 08:13
Giako
Daje fra 08:13

A quanto pare, la discussione si è accesa poco dopo, quando Giacomo ha scritto che comunque ha il backup di foto e video, appena la cosa si sistema tornano operativi. Parlano come fossero spie sotto copertura, invece sono solo delle merde.
Sto per scriverglielo che sono delle merde, poi cambio.

Tu
Siamo delle merde 10:35
Facciamo schifo vero 10:35
Meritiamo di bruciare all’inferno 10:35
Tutti, nessuno escluso 10:35

Per un bel po’ nessuno scrive più niente.

All’ora di pranzo su Facebook sono già comparsi diversi profili fake. È pieno di Sara Magno ma nessuna è lei. Ne segnalo una decina, ma dopo poco lascio stare. È inutile.
Poi cominciano a comparire le pagine e i gruppi. Sara sei volata in cielo, Il nostro angelo Sara, e come sfondo una foto di lei a scuola. Alcuni di quelli che commentano sono anche nel canale Telegram. Vorrei scrivere qualcosa ma non ha senso: non ne ho alcun diritto.
Torno a cercarla nell’unico spazio incontaminato che mi viene in mente, la mia galleria. Trovo un selfie di noi due nella sua cameretta. È di qualche mese fa. Sulla parete dietro di noi sono appesi i suoi disegni – Notte stellata sul Tevere, le ballerine di Degas ma con dei gatti antropomorfi in posa per le foto. Aveva una fantasia senza limiti, eppure non aveva previsto tutto questo.
Nella foto è raggiante. Poco prima mi aveva detto di essere innamorata. Io trattengo una smorfia perché non si tratta di me.
D’altronde non si è mai trattato di me, e ancora oggi non so se non l’aveva capito, o se magari l’aveva capito ma faceva finta di niente perché si sa che in questo mondo ognuno ha dei ruoli da rispettare, e poco importa che uno ritenga giusto il proprio.
Ero suo amico, punto.
Ero suo amico, il suo primo confidente, ma non mi bastava più. Così l’ho sporcata.

Papà mi telefona verso le quattro. È la terza volta che chiama, stavolta rispondo. Ha la voce buona, quella di quando torna dai colloqui con i prof che gli hanno detto quanto sono bravo. Mi chiede come sto. Gli rispondo che non lo so, che mi sento come se fluttuassi in una bolla o galleggiassi sull’acqua; insomma uso quelle immagini a cui ti aggrappi quando mancano le parole.
È colpa mia, continuo, e lui risponde che non devo dirlo neanche per scherzo. In questo momento è l’ultima cosa che devi fare, Nicola. Non colpevolizzarti. Lei non vorrebbe, lo sai. Ok?
Quando attacca torno su Spotify e riprendo Questa notte, degli Ex-Otago. Me li ha fatti conoscere lei. Mi diceva spesso di prendere il suo telefono e ascoltare questo o quel gruppo. Si fidava che non andassi a curiosare fra le foto e i video.
Non le criptava neanche, le cartelle. Era tutto lì, nella galleria. In fondo, perché avrebbe dovuto preoccuparsi di cose come queste?
Trattengo le lacrime: non merito di piangere per lei.

L’ultima volta che sono stato in camera sua, qualche giorno fa, l’ho trovata con le cuffie sulle orecchie. Pizzicava le corde di una chitarra che non emetteva suoni. Sul comodino c’erano solo una bottiglietta d’acqua e delle compresse: i libri se ne stavano ammucchiati in un angolo, il televisore sulla scrivania era sommerso da magliette e pantaloni sgualciti. Dalle pareti era sparita ogni cosa.
Ho riconosciuto a malapena il suo sguardo, quando l’ha rivolto verso di me. Gli occhi smunti erano contornati da occhiaie viola, i capelli parevano filo spinato. Le mani tremavano mentre buttava giù la valeriana. Ricordo di aver fatto un pensiero orribile in quel momento: che se avessi incrociato per strada una tipa del genere, non mi sarei voltato a guardarla. Era brutta.
Ho paura, ha bisbigliato. L’ha fatto con fatica, come se avesse la bocca piena di fango.
Passerà, ho detto. Vedrai che passerà.
Questo mi spaventa, Nicco: che sembra non finire mai. Ogni giorno mi arrivano messaggi da perfetti sconosciuti: mi mandano foto di cazzi, scrivono che ho gli occhi da troia, che vogliono farmi squirtare, e venirmi in faccia, fra i capelli. Ma dove cazzo l’hanno preso il mio numero?
Non lo so, ho detto, ma lo scoprirò e gliela farò pagare.
È stato Paolo a far girare quel video, ha continuato. Ne sono sicura, l’avevamo fatto insieme. Pensa tu di chi mi sono innamorata.
Le ho assicurato che avrei indagato. Non ho avuto il coraggio di dirle che su Telegram Paolo voleva condividere anche un secondo video dove lei, mentre tratteneva il dolore, lo pregava di fotterla nel culo. Diceva che ce lo avrebbe mandato ma poi non l’ha fatto. E io non ho mai detto nulla.
La consolavo, le promettevo l’impossibile e intanto la tenevo per mano, la stessa con cui mi ero masturbato giorni prima all’idea di sentirla gridare il mio nome. Con me Sara parlava di musica, di serie tv, di arte. Usava parole dolci mentre mi raccontava i suoi sogni. In quel video sembrava un’altra.
Volevo avere accesso anche io a quel lato animale che me la rendeva estranea; volevo vedere anche io quegli occhi da troia, prenderla a schiaffi, farle male, essere dentro di lei. Volevo amarla come mai mi sarebbe stato concesso.
Ma perché hai chiuso il canale YouTube? le ho chiesto per sopprimere quei pensieri. Alla fine sono solo canzoni. Le tue canzoni.
Mi ha guardato come si fa con i bambini che niente sanno della vita. La gente ti trova, ha detto. Non so come fanno, ma ti trovano. Ho cancellato tutto, così magari si scorderanno di me. Voglio solo sparire. Eclissarmi via.
Poi ha staccato il jack dalle cuffie e suonato qualche nota. Cambiamo discorso, sennò mi deprimo peggio. Dimmi che ne pensi, poi te la mando. Devo ancora decidere il titolo. Mi raccomando, Nicco, voglio un parere sincero. Mi fido di te.
La stanza in penombra si è riempita di un vibrato basso, grave. Ha preso a cantare a occhi chiusi, ma non una parola si è fissata nel mio cervello, rapito com’ero dalle sue espressioni facciali: sembrava stesse ripercorrendo la sua intera vita da sotto le palpebre, qualcosa da cui stavo venendo tagliato fuori. D’un tratto ho sentito l’angoscia prendermi la gola: senza sapere perché, ho provato un terrore antico, come quando da piccolo mi risvegliavo in preda agli incubi.
Quando ha finito mi ha chiesto cosa ne pensassi. Ero paralizzato, sentivo l’arsura in bocca. Mi piace, ho mentito. È proprio il tuo stile. In realtà non avevo idea di cosa parlasse quella canzone, e neanche volevo saperlo.
Mi ha guardato. La delusione le attraversava il volto. Siamo rimasti in silenzio per non so quanto.
Era a un metro da me, eppure lontanissima e inavvicinabile.

Non riesco a lasciarmi alle spalle questa giornata spietata: continuo a rotolarmi fra le lenzuola; afferro il telefono, lo getto via, lo riprendo.
Vorrei poter riavvolgere il tempo, sistemare le cose e tornare a un mondo in cui Sara c’è ancora, e mi scrive alle due e passiamo tutta la notte a scambiarci canzoni e meme.
Scorro la chat avanti e indietro senza sosta, passo in rassegna tutte le nostre foto, tutta la galleria, finché non mi ritrovo davanti quel video schifoso. Non so perché l’ho tenuto.
Faccio per cancellarlo, invece premo play, infilo la mano nelle mutande e consumo tutto ciò che resta di noi.
Dopo, torno al suo ultimo messaggio, a quell’mp3 che non ho mai riprodotto.
E alla fine – ora che è troppo tardi – ascolto ogni parola di Recidere. Ascolto il requiem che aveva composto per se stessa.

Antimonio David Valentini letteratura Racconti Recidere Ziggy


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