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La prima notte
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 01/06/2021 0 Comments 14 min read
Triplete Previous Il tempo delle cose Next

di Simona Maresca
Copertina: Non guardarmi, non ti sento – Ottavia Marchiori

«Dovresti metterli più spesso.»
«Cosa?»
«I tacchi. Dovresti metterli di più.»
Serena guarda Tommaso che la guarda, apre l’anta della scarpiera. Tira fuori un paio di mocassini neri con i lacci. Li appoggia davanti ai suoi piedi. Accarezza il pantalone a sigaretta che le avvolge le cosce snelle. Sfila il décolleté nero con il tacco di dodici centimetri. Infila i mocassini, li allaccia. Guarda Tommaso.
«Dovrei metterli più spesso. Non oggi, però.»

1.
«Scusami, Sere, devo proprio scappare. Non credevo di restare. Devo fare un salto a casa.»
«Vai, vai non preoccuparti. Ma dove sarà la mia maledetta borsa!»
«Hai guardato in cucina? Mi sembra di averla vista lì. Vado allora. A dopo.»
Serena entra in cucina. Osserva la chiazza marrone sul piano cottura. Non è riuscita a spegnere la fiamma prima che il caffè venisse su. Intinge l’indice nella macchia e disegna un cerchio. Lecca il caffè che le è rimasto sul dito. È amarissimo. Marco non avrebbe mai lasciato la macchia sul fornello. Prima di bere il caffè avrebbe pulito tutto. Dice che lo sporco lo agita. La loro giornata sarebbe iniziata con la solita routine. Marco, terminata la colazione, avrebbe sistemato le tazze e i piatti sporchi nella lavastoviglie, raccolto le briciole con la scopa e passato un panno umido sul tavolo. Poi avrebbe spalancato le finestre per cambiare l’aria in camera da letto e messo le coperte sul davanzale. Dopo essersi lavato avrebbe asciugato con cura il box doccia e lo specchio e, prima di vestirsi, avrebbe rifatto il letto.    
«Marco, abbiamo una domestica.» 
«Lo so, Serena. Dici ogni giorno la stessa cosa. È una questione di rispetto. Marie ha tante altre cose da fare. E piantala di lasciare i tuoi vestiti in giro dappertutto. Che c’è? Non ti ho comprato abbastanza armadi?»

2.
La borsa di Serena è in cucina, per terra, accanto al bidone della spazzatura. Il suo trench beige è abbandonato sotto il tavolo, sopra uno sgabello. Serena lo infila iniziando dalla manica destra mentre si abbassa per raccogliere la borsa. Muovendosi sente le briciole di una fetta biscottata scroccare sotto la suola delle scarpe. Si ferma un istante a osservare le tazzine sporche che troneggiano sul tavolo. Chiude la porta dietro di sé e, a passo svelto, scende le scale. 
Le persiane in casa sono ancora abbassate, il letto è disfatto.     

3.
Fuori piove. Una pioggia leggera, che arriva piacevole sul viso caldo di casa. Serena è in ritardo. Sua suocera starà dicendo che è assurdo fare tardi in un’occasione come questa e che i pantaloni che indossa sono troppo attillati per una donna sposata. Il telefono le vibra nella borsa. Si ferma di scatto, appoggia la borsa nera, immensa, sul ginocchio destro tenendosi in equilibrio sulla gamba sinistra. Cerca il cellulare agitando le mani tra gli oggetti buttati alla rinfusa, un pacchetto di Vigorsol, una trousse con il make-up, l’astuccio degli occhiali, gli occhiali, un pettine, uno specchietto, le chiavi di casa, le chiavi della macchina, un portafortuna giapponese, le ricevute del bancomat accartocciate, i fazzolettini umidi, i fazzolettini di carta, una penna, un elastico nero, il portafoglio, delle monete sparse, un pacchetto di cracker sbriciolati, gli auricolari con il filo attorcigliato. Vede la luce del telefono lampeggiare a ogni squillo ma non riesce a raggiungerlo. Le sue dita sembrano le zampe di una cavalletta intrappolata in un bicchiere. Quando riesce a toccarlo ha appena smesso di vibrare. Lo lascia annegare nel buio abisso della borsa e guarda l’orologio. 
A guardarla sembra che corra ma a lei sembra di andare piano, troppo piano. Ha percorso appena pochi metri quando il telefono vibra di nuovo. Serena lo lascia squillare, ma non la smette. Continua, a vibrare e vibrare e vibrare. Con un gesto di stizza sbatte un piede per terra e si ferma. Appoggia la borsa sul cofano di un’auto rossa parcheggiata sul marciapiede. La apre e riprende la caccia al tesoro lampeggiante. Dopo pochi istanti il telefono, clemente, si infila tra le sue dita. Serena guarda il display e risponde alla chiamata. 
«Mamma, che c’è?»
«Sere stai arrivando?»
«Sì, mamma, certo che sto arrivando.»
«Sono tutti qui. Mando tua sorella a prenderti?»
«No, mamma, sto arrivando. Cinque minuti. Ok? Cinque minuti.»
«Ciao amore. Scusa.»
Serena resta appoggiata allo sportello dell’auto. La pioggia è diventata più intensa, non se ne era resa conto. Si guarda nello specchietto retrovisore. Tocca i capelli, sono tutti arruffati. Infila la testa nella borsa facendosi luce con il cellulare. Prende il pettine e l’elastico. Vede la trousse. Tira fuori anche quella. Si abbassa piegando entrambe le ginocchia per riuscire a vedere tutto il viso nello specchietto e raccoglie i capelli in una coda. Sta attenta a tenerli ben tirati lasciando la frangetta un po’ spettinata sulla fronte. Tira su il cappuccio del trench. Apre la trousse e cancella con la spugnetta del fondotinta il rigo nero lasciato dal mascara sciolto sul viso. Mette un po’ di blush con un pennello morbido sulle guance troppo chiare e tira una riga dritta con la matita nera sugli occhi. Prende il rossetto, spinge le labbra in avanti per colorarle senza fare errori. Si guarda. Con il cellulare fa di nuovo luce nella borsa, tira fuori le salviette struccanti e con un unico tocco cancella il rossetto. Sollevando la borsa dal cofano dell’auto il pacchetto delle Vigorsol cade a terra. Lo raccoglie e ne prende una. Il sapore della menta fresca le invade la bocca, un colpo di vento le scopre la testa. 
Non importa, non piove più.  

4.
Dal viale che conduce all’ingresso dell’obitorio intravede una folla di persone. Serena sente il suo respiro farsi corto, deve fermarsi almeno un istante. Appoggia la schiena al muretto che costeggia la strada. È umido di pioggia. Chiude gli occhi.  Le viene in mente quando da bambina, avrà avuto sette, otto anni, saliva a piedi le scale del palazzo dello studio del pediatra, il dottor Angelo Vannicelli. Aveva così tanta paura. Più la porta del terzo piano si avvicinava, più rallentava il passo. Sua madre dall’ingresso le urlava di sbrigarsi, Angelo sorridendo le diceva di non preoccuparsi, non le avrebbe fatto la puntura: «Dai il dottore non è cattivo. Sere’ ti hanno dato proprio il nome sbagliato! Se fai la brava ti regalo uno sticker e una caramella.»
Più l’obitorio si avvicina, più le sembra di allontanarsi. Riconosce i volti di amici, parenti, conoscenti. Persone che non vede da anni, gli amici delle cene del sabato sera, i colleghi di lavoro di Marco. Intravede Marie. Prima di riuscire a fermare il pensiero si guarda il dito e risente in bocca l’amaro del caffè della mattina. Non è stata lei ad avvisarla. Chi ci avrà pensato? Era Marco a gestire tutte le faccende burocratiche, incluso il rapporto di lavoro con la domestica. Non era neanche sicura di avere il suo numero di telefono.
«Lascia stare, Serena, penso a tutto io.»  Suo marito le diceva sempre così. 
Non sapeva neanche chi fosse l’amministratore di condominio, tale Orcioni o Sorcioni forse, e, da quando abitavano insieme a Via dei Mille 122, interno 10, circa nove anni, non aveva mai pagato una bolletta della luce o del gas. Era Marco a occuparsi di tutto. Aveva acquistato l’appartamento dopo aver venduto il suo monolocale in centro e la casa al mare che gli aveva lasciato in eredità la nonna. Era stata la sua sorpresona di nozze, ma a Serena non aveva fatto scegliere neanche un bicchiere o una posata. Amava avere il controllo di ogni situazione, non gli piaceva essere contraddetto e, in ogni caso, era lui ad avere ragione. Serena, d’altra parte, non amava contraddire gli altri. E in ogni circostanza era convinta di essere lei dalla parte del torto.
Il padre di Marco sta parlando con uno degli addetti dell’impresa funebre. È una donna. Serena non aveva mai visto una donna fare il becchino. Alta, con i capelli raccolti in una mezza coda, magrissima, indossa una giacca nera molto aderente e una gonna lunga fino al polpaccio. “Il figlio se lo riportano a casa loro, nel paesino dove è nato, vicino al mare”Serena riconosce il vocione del suocero tuonare oltre il brusio della folla intorno a lui. Sua suocera piange e urla il nome del figlio. Sembra in stato di trance. Raimondo, il cognato, tiene la mano della mamma. È atterrato da Madrid due ore fa, vive in Spagna da dieci anni. Serena sarebbe dovuta andare all’aeroporto a prenderlo. Si erano accordati al telefono poco prima che lui si imbarcasse. Se ne era dimenticata. Riconosce anche Ingrid, la fidanzata storica di Marco. La fidanzata in gamba. È medico. Fa l’anestesista al pronto soccorso. C’era anche lei al capezzale di Marco mentre i dottori cercavano di salvarlo. Non c’era più nulla di fare, aveva riferito. Il cuore di Marco, per dirla in parole semplici, era come esploso.   
La madre di Serena vedendola arrivare la blocca con un abbraccio. Le dà un bacio, le accarezza i capelli e inizia a parlarle nell’orecchio.  
«Attenta, hai le scarpe slacciate, ci manca solo che cadi…»

5.
La sera prima verso le undici e mezza Tommaso si era presentato a casa di Serena. Lei aveva ancora addosso i vestiti della mattina. Una camicia a fiori blu, un cardigan grigio abbandonato sulle spalle e un’ampia gonna, lunga fino ai piedi. Il trucco era ormai completamente sfatto e i capelli attorcigliati sulla testa in modo distratto, raccolti in uno chignon fermato da una matita. 
«Tommaso che ci fai qui? Meglio così… pensavo fosse mia madre. Ho spento il cellulare e staccato il telefono di casa, mi sta perseguitando.»
«Ah, l’hai spento… ti ho lasciato un po’ di messaggi in segreteria. Non ascoltarli, ok?»
«Ok.»
«Sei sola, quindi?»
«Sì.»
«Posso entrare?»
Serena si volta. Guarda il divano con i cuscini in disordine, la birra aperta poggiata sul tavolo, il piatto con un toast al prosciutto appena morsicato.
«Stavo cenando. Non mangio nulla da stamattina.»
«Ti faccio compagnia, solo mezz’ora poi vado.»
«Sono molto stanca Tommaso. Facciamo un altro giorno, ok?»
«Non voglio lasciarti sola, per favore.»
«Ok, Tommaso, sei peggio di mia madre. Prendi un paio di pantofole, sono lì nel mobile sulla destra. Marco non vuole che si cammini con le scarpe sul parquet.»
Tommaso apre il mobile, prende un paio di pantofole blu imbottite con la scritta “Benvenuto” in rosso e le indossa. 
«Le scarpe dove la lascio?»
«Lasciale pure lì davanti alla porta.»
Si siede sul divano accanto a Serena. Si guarda intorno come un bambino in un negozio di giocattoli in cerca del suo premio per il dieci in pagella. 
Serena morde il toast e beve un sorso di birra.
«Ne vuoi un po’?»
Tommaso fa cenno di no con la testa.
«Hai… avete una casa bellissima. Questa lampada è stupenda.»
«Cosa?»
«La lampada.»
«Ah, sì è un pezzo vintage, originale. L’ha comprata Marco. A me andava bene pure una lampada dell’Ikea ma lui si è voluto fare un regalo. A Marco piacciono le cose belle.» 
«Mhmm…»
«Piacevano in realtà. Mi ci vorrà un po’ per abituarmi.»
«Che fai, resti con la giacca addosso?»
Serena si avvicina a Tommaso, gli sfila la giacca e la lascia cadere a terra. Gli accarezza la nuca e sale a cavalcioni sulle sue ginocchia.
«Grazie per essere venuto.»
«Volevo vedere come stavi. Non rispondevi, mi sono preoccupato. Lo so, non avrei dovuto.»
I seni di Serena premono sul petto di Tommaso. Lui le sfila la matita dai capelli, le accarezza il viso, spinge il suo sesso contro quello di Serena. Lei si solleva bruscamente dal divano e va ad aprire la finestra. Si tocca la fronte. È calda come se avesse la febbre. 
«Scusami. Non so perché sono venuto qui. No. Non è vero, lo so. Io volevo venire qui. Sarei dovuto venire molto tempo fa. Abbiamo sbagliato. Abbiamo sbagliato tutto.»
Serena sfrega i polpastrelli sul viso, chiude gli occhi e tira un lungo respiro.
«Spegni la luce, Tommaso.»
«Cosa?»
«Spegni la luce. Voglio farlo al buio.»

6.
«Amore mio, mi ascolti? Hai le scarpe slacciate.»
«Sì, mamma, scusami, sono molto stanca.»
Serena abbassa lo sguardo. Prova a inclinarsi per allacciare i mocassini ma la morsa dell’abbraccio della mamma è troppo stretta. 
«Sei riuscita a dormire stanotte? Marco, il nostro Marco, ma come è possibile? Voi e queste maledette moto.»
«Mamma, ha avuto un infarto.»
«Un infarto. Non mi fido di quel medico del Pronto Soccorso era troppo giovane.»
«Troppo giovane.»
«Se penso che in quella camera mortuaria potevi esserci anche tu. Meno male che non eri con lui.» 
La mamma di Serena inizia a piangere e a stringerla ancora più forte. 
«Mamma lasciami. Non riesco più a respirare. Ci guardano tutti. Devo andare da Marco.»
«Non ti dovevo lasciare da sola stanotte. Non dovevo… Oh cielo! Sta arrivando Verchi.»
«Chi?»
Serena si stacca dal petto della mamma facendo leva su tutte e due le braccia, sposta il collo che aveva appoggiato sulla sua spalla e gira lo sguardo verso il viale.
«Tommaso Verchi, il collega di tuo suocero. Il tipo più giovane che l’anno scorso gli ha rubato la promozione a dirigente. Tua suocera non parla d’altro. Ma non ti ricordi? È stata proprio lei a presentarcelo. Eravamo al Circolo, alla festa per i settant’anni di Franco, il papà di Marco.»
Tommaso le supera senza salutare, passandole di fianco, e raggiunge la folla raccolta all’ingresso. La mamma di Serena si fa il segno della croce, lo conclude con un “Amen” a bocca stretta e un bacio sulla mano destra diretto a Gesù.
«Speriamo non faccia una scenata. È fuori di sé poverina.»
«…»
Gli occhi di Serena cercano quelli di Tommaso. Si trovano. 
«Mamma…»
«Dimmi, tesoro.»
«Andiamo.»
Percorrono insieme i pochissimi metri che le separano dall’obitorio. La mamma le resta indietro di un passo come i fedeli dietro al crocifisso durante una processione della Settimana Santa. 
Uno dei lacci dei mocassini neri le si impiglia sotto la scarpa. Serena lo calpesta. Inciampa e cade.  

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