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Pare di martorana
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 27/10/2021 0 Comments 10 min read
Non è la legge, sono le identità. Previous Il libro della memoria Next

di Giorgio B. Scalia
Copertina di Sante Cutecchia

Oggi fanno dieci anni che la mia pupetta non c’è più. Ai tempi, sono dovuto sparire. Altro posto, altro nome, altro lavoro e sono qua, al cimitero del Santo Spirito di Milano.  La ragione non è la pace di questi prati o il silenzio, la ragione siete voi, sotto tre metri di terra e belli che morti.
Il teatro era ancora una favola. Lo fece mio nonno, Ninni Atlante, non l’ho mai conosciuto, ma so che era un puparo eccezionale. Mio padre mi battezzò come a lui. E come mio nonno gli insegnò il mestiere, lui l’insegnò a me. Poi tutto andò in fumo. Fu una cosa incedibile. Il teatro pareva una barcuzza in mezzo a una marea di fiamme. Era un sole, faceva luce che non ci si poteva credere – non esagero: le persone che buttavano voci scassate e tutto insieme pure le sirene dei pompieri, un bordello fu. Ancora oggi il quartiere è convinto che pigliò fuoco per disgrazia, ma non andò accussì.

La settimana prima di Natale facevo sempre una serie di spettacolini. La sera del 23 – non fosse mai venuta – a teatro si presentò Sacripante. Raccontavo di quando Orlando perse il senno e il suo compare Astolfo lo va a pigliare sulla luna. A fine spettacolo, uno m’arpionò il braccio. «Mariasanta», gridai quando me lo vidi difronte con due occhi tanti. Lo conoscevo di vista, scaminiava sempre per il quartiere. Aveva vent’anni o qualcosa del genere e faceva ancora spaventare i colombi per farli volare e poi rideva – ci siamo capiti.
«Ma come fa?».
«A fare che?».
«A fare vivere i pupi».
«Solo tanta esperienza ci vuole».
«Non sembrano pezzi di legno».
«Ti va di vedere il mio laboratorio?».

Lo portai sul retro del teatro e gli aprii la porta. Sacripante fissava le pareti con i pupi appesi. Alcuni erano quasi finiti, altri non avevano ancora una faccia. «Minchia, è un battaglione pronto alla guerra», pareva dicessero i suoi occhi. «Ma vola?» mi domandò taliando u grifone, è batté le braccia. Poi toccò la punta di una spada e si sucò il dito. Gli dissi che erano appuntite – ma lui niente, proprio.
Non passò molto prima che diventò una presenza fissa nel mio laboratorio. Gli mostrai come sceglievo i tocchi di legno, i pennelli che usavo, come cucivo le stoffe per i costumi e il martelletto per piegare la latta delle armature – lui per un po’ stava attento, ma poi si faceva il solletico con le piume dei pennacchi. Arrivava da me già la mattina, non dicevamo nulla, io gli aprivo e andavamo nel laboratorio. Si metteva alle mie spalle e mi osserva al lavoro.

«’Sto pupo pare di martorana».
«Si mangia, come i dolcetti per i Morti?».
«Ma quando mai! Voglio dire che è accussì bello che pare vero».
«È un mago signo’ Ninni».
«Ho una testa di là, la vuoi provare a dipingere?».
«Io non lo so fare».
«Amunì, prova. Nessuno nasce insegnato».
Il pennello non era proprio cosa sua, lo teneva come uno zappone; a piallare il legno, poi, non ne parliamo. Una volta gli diedi u martelletto, non gli andò a sminchiare un piede a un paladino? Allora, gli feci fare una cosa semplicissima, che pure che lo faceva male non era niente d’irrecuperabile: lucidare un pupo con la cera. Era Angelica. L’avevo fatta da poco, quella di prima aveva più di trent’anni e i tarli se l’erano mangiata viva, così l’avevo messa a dormire. C’ero affezionatissimo, fu il primo pupo che feci tutto da solo, quando in teatro c’era ancora mio padre. La nuova Angelica mi serviva bella e pronta tra una settimana, c’era un suo spettacolo in calendario: Ruggero, Angelica e l’orca, ma quello scimunito di Sacripante al posto della cera pigliò l’acquaragia, e ce la strofinò per mezz’ora. Angelica diventò una pietà, facevano male gli occhi a taliarla – mi dovete credere.

«Che minchia fai, Sacripante?».
«Scusi signo’ Ninni. Non l’ho fatto apposta».
«Sai leggere? Cosa inutile!».
«Lo feci senza pensare. Non volevo farla arrabbiare».
«Tu non pensi mai! Vattene, prima che ti piglio a boffe».

Sacripante mi taliò come un cane bastonato e corse via. Non si presentò per tre giorni – fece buono, lo sapeva che i pupi erano come figli per me.  Mi pigliavo cura di loro tutti i santi giorni, li spazzolavo, li truccavo e soprattutto li facevo muovere. I pupi devono muoversi liberi sul palco, combattere e fare incocciare le spade, superare montagne di cartapesta e sacrificarsi per la fanciulla in pericolo. I pupi come le persone sono: se stanno troppo fermi diventano soprammobili e fanno le ragnatele. Anche con la prima Angelica l’avevo sempre fatto, infatti, a parte i pirtusi delle tarme, fili e tiranti erano nuovi nuovi. A questo punto, l’unica cosa che potevo fare per salvare lo spettacolo era risvegliare la vecchia Angelica, al più presto possibile. Mi sarei dovuto rompere la schiena per farla salire sul palco, bella come ai vecchi tempi. Appena Sacripante se ne andò, mi misi a lavorare come un folle. Tre giorni dopo, lui era di nuovo alla porta del laboratorio, non osò entrare e con la testa faceva come una pendola per spiarmi. Mi voltai di scatto e saltò in aria. Poi mi alzai e, senza manco taliarlo, gli chiusi la porta e mi rimisi a lavoro. Non ne avevo tempo da buttare con lui.

L’indomani, ad Angelica le avevo già tappato tutti i pirtusi delle tarme, con lo stucco a cera solida, e le avevo messo pure i capelli nuovi, rossissimi, fiammeggianti. Era già bella così, pure senza vestiti. Si vedeva che mi stava venendo bene, forse pure meglio di prima. Il terzo giorno, invece, le feci gli occhi, erano grandi, duci come u zucchero. Minchia, da dovunque la taliassi pareva che mi seguiva.

Tutti i santi giorni alla stessa ora, Sacripante veniva sul retro e faceva quel teatrino credendo che non mi accorgevo di lui. Anche dopo che chiudevo la porta del laboratorio se ne rimaneva là. Ogni tanto mi giravo e vedevo la sua ombra che faceva avanti e indietro da sotto la porta. Però non mi facevo fregare né dalla compassione né dal suo collo lungo e gli tenni nascosta Angelica, fino a quando ho potuto.
Pochi giorni prima del suo debutto, la stavo facendo riscaldare sul palco, spogliata, proprio per farla sentire più libera. Quel paio di minne pareva che abballavano. Ci mancava solo la parola, e in falsetto mi scappò una sua battuta: «Signor, mi sleghi prima che l’orca s’arruspigghi. Portami cu tia! Non fare che m’agghiutta u brutto pesce virdi».  Fu allora che Sacripante sbatté le porte del teatro e la vide recitare tutta nuda e buttò una voce: «Ti salverò! Taglierò i fili che ti legano», e se ne andò piangendo. Il mattino appresso, lo beccai nel mio laboratorio – chissà da dove minchia era entrato – che se ne stava impalato davanti ad Angelica. Era appesa a riposare, e lui le diceva a macchinetta: «Quando ti talio negli occhi, mi fai fare tum-tum al cuore. Lo sai?». Rimasi a taliarlo per un po’, ché quasi ci speravo pure io che Angelica gli rispondesse.
Sacripante s’accorse di me e scappò un’altra volta. Mi sentivo un pezzo di fango per averlo scacciato così male quel giorno e ora volevo farmi perdonare, sventuratamente, però, non ci fu modo – ve l’assicuro. Era scomparso.

Arrivò il giorno dello spettacolo. Quella mattina, andai più presto a teatro, dovevo allestire tutto: la scenografia, le luci, fare le pulizie e dovevo pure mettere la lacca sulle piume del grifone e oliargli il becco, oltre che sistemare le ammaccature dalle corazze dei paladini, sul palco i colpi di spada volavano. Doveva essere tutto perfetto e bellissimo come Angelica. Era la mia figlia preferita. Spiccava su tutto e tutti e si sa – no? – che se un attore spicca troppo, il resto pare una schifezza.
All’improvviso, sentii una voce dall’alto, che ululava: «Che bell’occhi! Maria, che bell’occhi!». Era un lamento che faceva rizzare le carni. Allora andai fuori e Sacripante gridò: «Ninni non ti potrà legare più. Tu sei mia, Angelica. Io sono tuo».
Alzai la testa e, sopra il tetto del teatro, vidi quel minchia di Sacripante, con Angelica in braccio. All’inizio, mi dette l’impressione di stare scherzando, parlava strano, pareva recitasse. Stava tutto storto e rigido, una gamba tesa, l’altra piegata, un braccio era molle mentre nell’altro stringeva dalla vita la mia Angelica. Era nuda, coi fili tagliati e i capelli all’aria. Quei bei capelli rossi ora parevano un falò.

«Stai accura, Sacripante, ché poi cadi. Scendi, pezzo di locco».
«Lei vuole stare qui con me!».
«Amunì, finiamola con ‘sto teatrino. Non sto babbiando, Sacripante!».
«Diccelo al signo’ Ninni che vuoi essere libera», disse stringendosi al petto di Angelica.
«Ma ci fai o ci sei? Lo scherzo è bello quando dura poco. Se scendi subito, ti prometto che non m’arrabbio».
«Lei è cattivo», poi le face una carezza sulla testa, «Non ascoltarlo, gioiuzza».
«Minchia, scendi subito! Ridammela».
«Lo sapevo che diceva accusì. Non può farle fare quello che dice lei, Angelica è una femmina libera! Ora le faccio vedere come brucia il nostro amore!».
«Sacripante, ora basta!». Con un braccio teneva Angelica, mentre con l’altro sollevò un bidoncino. Inclinò la schiena in un modo pauroso e svuotò tutto sulla mia Angelica. Si bagnò pure e un po’ gli finì in bocca,  tossì come un cane. Cominciò ad agitarsi e a gridare cose che non ho mai capito – rimasi bloccato. A un certo punto, fece silenzio e dalla tasca pigliò un accendino. In una scintilla, pigliarono fuoco tutte cose. I capelli di Angelica s’incenerirono al lampo e così pure i vestiti di Sacripante. Lui faceva come una trottola mentre sulla schiena gli battevano ali di fuoco. Ma pure così, stringeva Angelica, tutta nera – pareva una tarantella di diavoli.
Quando ‘sta danza finì, alzò Angelica verso il cielo, la taliò negli occhi e fece un grido acutissimo: «Che bell’occhi!». Cadde di sotto, lasciandosi dietro una coda di fumo.
Non sapevo che fare. Sacripante era lì davanti a me, carbonizzato, con la testa spaccata sulla balata del marciapiede. Teneva la manina nera di Angelica che faceva ancora fumo mentre le fiamme sul teatro quasi bruciavano il cielo. Erano gli stessi visti accussì, due pezzi di carbone.
Sentii una caterva di persone avvicinarsi e gridare: «Ma che è ‘sta puzza di bruciato?», «Quanto fumo, andiamo!». Ebbi paura, paura di essere incolpato in qualche modo. Non volevo passare i guai per quello scemo. Allora lo presi in braccio e lo gettai tra le fiamme per non lasciare tracce.  Subito dopo, arrivarono i pompieri, poi tutto il quartiere, e taliarono allibiti la danza del fuoco, intanto che io sparivo tra la folla, con la testa di Angelica che ancora scottava.

Di quello che pare vivo, non ne voglio sapere più niente, e  qui non c’è proprio come fare confusione. Vero, Angelica? Amunì, pigliati ‘sto bacetto e te ne torni nella tasca di papino, ché ora devo a tagliare il prato.

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