La leggenda di Daji e Hei Te
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 26/04/2022 2 Comments 12 min read
Fughe, improbabili percorsi musicali - Il rapimento di Lalo Schifrin Previous Agnello Leone Maiale Uomo Next

di Claudia Grande
Copertina di Pablo Follieri

Un bel giorno, Hei Te decise d’infilare sua sorella Bao dentro a una scatola e offrirla in dono al fantasma di Daji. Il fantasma abitava alle pendici del Monte Kunlun, sulla cui cima nebbiosa sorgeva la terra fatata di Xuan Pu. Hei Te prese una scatola dalla cantina, la portò in salotto e chiese a Bao di saltarci dentro, ma per quanto Bao si sforzasse di piegare le gambe, curvare la schiena, stringere le braccia intorno alle ginocchia, non riusciva a farsi della dimensione giusta per esaudire Hei Te.

Hei Te si spazientì.

«Bisogna che tagliamo via qualche parte del tuo corpo: intera sei troppo grande».

«Credi che Daji sopporterà un oltraggio simile?» rispose Bao, che conosceva bene la crudeltà del fantasma. «Lei è ingorda, vanitosa; non accetterebbe mai un dono incompleto. Ucciderebbe, piuttosto».

«Bisogna che ti dividiamo in parti, allora: se ti spezzettassimo finemente, potresti entrare tutta quanta nella scatola. Bisognerà solo rimetterti insieme, dopo».

«La strada che conduce al Monte Kunlun è lunga e tortuosa. I pezzi si mischieranno tra loro per colpa delle curve, e quando Daji aprirà la scatola non sarà in grado di ricompormi. Si sentirà presa in giro e ci ucciderà».

Hei Te stette in silenzio per un po’.

Camminava lungo il perimetro del salotto, una stanza umida e scura sezionata da lunghi fili di ragnatele argentee. Il pavimento era punteggiato di scorze di scarafaggio, e l’aria sembrava oppressa da un velo nero di antico abbandono.

«Ho un’idea» disse Bao, che non tollerava di vedere sua sorella angustiarsi a quel modo. «Prendiamo tante scatole, una piccina e le altre più grandi; in ogni scatola infiliamo un pezzo: in quella più esterna mettiamo i piedi, nell’altra le gambe, poi le ginocchia, la pancia e così via fino al cuore, che occuperà l’ultima scatola, quella centrale, la più piccola di tutte. In questo modo, Daji distinguerà i pezzi e saprà in che ordine attaccarli, una volta partita dai piedi».

Hei Te tirò un gridolino di gioia e si precipitò in cantina, dove conservava un mucchio scatole; Bao, intanto, si diresse verso il piano cottura e scelse un paio di coltelli dalla lama affilata, che utilizzava per affettare le anguille e la carne di maiale più fibrosa e tenace. Quando ebbero trovato ciò che cercavano, le sorelle tornarono in salotto.

«Tocca a te iniziare» disse Hei Te, scoperchiando la scatola più grande. Bao si tagliò i piedi con due colpi calibrati e precisi. Hei Te afferrò i piedi, asciugò il sangue con uno strofinaccio e li adagiò nella prima scatola; dopodiché ne aprì una seconda, un po’ più piccola della precedente, si voltò verso Bao e le fece cenno di proseguire. Andarono avanti sino a notte fonda, quando la luna fu alta nel cielo e le lucciole ebbero preso possesso del giardino che circondava la casa, accendendo le foglie, i rami, i pistilli intabarrati nei boccioli chiusi. Hei Te ripose la testa di Bao nella penultima scatola e il cuore nell’ultima; sigillò la scatola del cuore con qualche lacrima di cera e la infilò dentro a quella della testa, che sigillò a sua volta e infilò in una terza scatola, e così via fino ai piedi, che stavano nella scatola più grande. Per finire, Hei Te infilò tutte le scatole in un sacco di iuta; prese un paio di corde, le legò al sacco e se lo mise in spalla, pronta a partire alla volta del monte.

«Stai comoda, sorellina?» disse.

«Comodissima» rispose Bao. «Ma prima, procurati qualche candela. Dobbiamo avere della cera a disposizione, nel caso in cui i sigilli si spezzino».

Hei Te scese in cantina, arraffò quattro pacchi di candele e uno di fiammiferi; imboccò la porta di casa e uscì, sorridendo nell’oscurità.

Ci vollero sette giorni per raggiungere il Monte Kunlun.

Il viaggio fu faticoso e pieno di insidie, come aveva previsto Bao, e ogni volta che Hei Te poggiava un piede su qualche zolla malferma, le scatole battevano l’una contro l’altra e i sigilli di cera si spezzavano; Hei Te doveva fermarsi, allora, controllare che i pezzi di Bao non si fossero mescolati tra loro e sigillare nuovamente le scatole aperte con la cera fusa. Quando arrivarono alle pendici del monte Kunlun, trovarono il Sole spento. Dormiva profondamente. Se ne stava appollaiato sul ramo più alto di Fusang, il suo albero preferito. Non era sferico come Hei Te se lo immaginava: era un cerchio piatto con il contorno di fuoco, e a guardarlo di profilo sembrava non avesse spessore. Ogni tanto prendeva un respiro più lungo degli altri, gonfiandosi tutto, e diventava grassoccio e giallo, uguale alle storie raccontate dagli uomini; d’improvviso espirava, tornava sottile, sputando dalle guance rosse molli fiotti di aria e luce.

«Non svegliarlo» sussurrò la testa di Bao dalla penultima scatola.

Hei Te sgattaiolò tra i cespugli, stando attenta a dove metteva i piedi, ma la cautela non fu sufficiente: inciampò in una radice nascosta dal muschio e cadde. Le scatole si aprirono ancora una volta e i pezzi di Bao rotolarono via, perdendosi tra i ciuffi d’erba. Hei Te si tirò su e incominciò a cercarli; li trovò tutti, tranne il cuore. Chissà dov’era andato a cacciarsi. Dopo aver esplorato l’intera vallata, Hei Te capì. Corse dritta verso l’albero Fusang: il cuore di Bao si era accucciato all’ombra delle sue fronde, annichilito dalla paura, e pulsava talmente forte che i battiti avevano destato il Sole.

«Cosa stai cercando» tuonò il Sole, rivolto alla bambina.

Squadrava Hei Te da capo a piedi, grattandosi la schiena coi rami di Fusang: i raggi spuntavano aguzzi dal suo dorso curvo e gli davano un prurito tremendo.

«Cerco il cuore di mia sorella».

«Come si chiama?»

«Bao» rispose Hei Te con un filo di voce, sperando che il Sole non volesse sottrargliela. Avrebbe taciuto, se le fosse stato concesso; ma il Sole sapeva tutto, vedeva tutto: era impossibile tenergli nascosta finanche una zampa d’insetto.

«Bao: pietra preziosa. Un bel nome, davvero. Significa che il suo cuore è prezioso, e io lo voglio. Dammelo».

Hei Te serrò i pugni, guardò il Sole dritto negli occhi e disse:

«Il cuore di Bao non è roba tua».

Il Sole si arrabbiò. Sbuffò, borbottò, scosse i rami di Fusang tanto forte che rischiò di sradicarlo; poi abbassò il capo in direzione di Hei Te.

«E di chi sarebbe se non del Sole, colui che illumina e riscalda, colui che scaccia via la notte quando gli uomini più la temono?»

«È per Daji, la sola a cui voglio darlo».

Il Sole scoppiò a ridere.

«Daji! Non lo sai che è una donna crudele? Non c’è bontà nel suo animo, né un pizzico di compassione. Si prenderà il cuore di tua sorella e lo getterà da una rupe. Poi sarà il tuo turno, e ti pentirai amaramente di aver invocato il suo nome».

Hei Te titubò.

«Perché mai dovrei crederti?» chiese.

«Perché io sono il Sole: gli uomini si perderebbero, senza di me. Senza i miei raggi, sareste un branco di formiche cieche».

«Una formica trova sempre la strada di casa, anche quando tutte le luci si spengono».

Il Sole cacciò un grido di collera, si gonfiò e staccò un raggio dal dorso, scagliandolo verso Hei Te; Hei Te schivò il raggio, che colpì un’allodola. L’uccello morì sul colpo, stramazzando al suolo. Hei Te afferrò il corpo bruciante, si arrampicò sulla corteccia di Fusang e trafisse l’astro egoista col becco dell’allodola; il Sole prese a rantolare, vomitò tutta la luce che aveva in pancia e morì, afflosciandosi sui rami di Fusang come un palloncino bucato. Hei Te recuperò il cuore di Bao, lo ripose nella scatola e proseguì sopra un sentiero di orme di volpe, che l’avrebbe condotta da Daji.

Il fantasma di Daji fluttuava davanti a una grotta scavata nel tufo, che si affacciava sulla bocca di un burrone. Daji se ne stava distesa nell’incavo di una foglia di banano, rubata a Ba Jiao Gui, lo spettro femminile dei banani; accarezzava languidamente le nove code di volpe bianca che gli spuntavano dal fondo della schiena. La spietatezza di Daji non conosceva limiti, come aveva raccontato il Sole; ma Hei Te non poteva saperlo, perché Daji era bella, la donna più bella che avesse mai visto: alle volte, la bellezza splende al punto di eclissare il male, ingannando anche gli occhi più esperti.

«Fai attenzione» sussurrò saggiamente la testa di Bao.

Hei Te s’inginocchiò, poggiando la fronte nella polvere in segno di reverenza.

Daji era stata la concubina preferita di re Zhou, l’ultimo della dinastia Shang. Re Zhou l’amava al punto di trascurare il regno per godere della sua compagnia; per diletto di Daji, che sapeva ridere solo quando un innocente soffriva, fece uccidere centinaia di persone, macchiando la sua terra di sangue e vergogna. Daji non era sempre stata malvagia, e questo re Zhou non ebbe l’accortezza di comprenderlo; lo diventò dopo essersi accoppiata con lo spirito dannato di una volpe a nove code, che piantò un seme marcio dentro di lei. Da quel momento, Daji si abbandonò alla cattiveria con ardore tale da cancellare qualsiasi scorcio di redenzione: il seme della volpe aveva generato radici profonde, tanto da esser impossibile estirparlo senza spaccare il cuore della concubina; e così, Daji visse di eccidi e torture fino a che non fu giustiziata da re Wu, che depose re Zhou e sciolse la dinastia Shang. Il fantasma di Daji fu condannato ad abitare le pendici del Monte Kunlun, anelando alla sacra terra di Xuan Pu senza poterla mai raggiungere, senza possedere niente, senza nessuno da amare; ecco perché Daji rubava: giacché povertà e solitudine erano il suo castigo, si consolava sgraffignando le cose altrui, nutrendosi del dolore inflitto a chi le riusciva di beffeggiare. Quando vide Hei Te, Daji sembrò sorpresa. Sistemò le pieghe dell’abito, sollevando il busto dalla foglia di banano per guardare meglio la sua interlocutrice.

«Chi sei» disse. La voce di Daji era rauca e sensuale, e avrebbe facilmente condotto un uomo alla pazzia.

«Mi chiamo Hei Te. Abito lontano da qui, in una piccola casa sporca. Ti ho portato in dono mia sorella Bao, che potrà farti compagnia» rispose la bambina, senza sollevare la fronte dalla polvere. «Bao è la cosa più preziosa che ho, e io voglio darla a te».

Daji scese dalla foglia di banano e si diresse verso Hei Te, roteando le code; s’inginocchiò con grazia, afferrò il mento di lei e lo tirò su per esplorare i suoi occhi: non vi leggeva traccia di orrore. Impressionata da tanto coraggio, Daji affondò il naso nella nuca di Hei Te, inspirando a pieni polmoni: sapeva riconoscere i bugiardi dall’odore, ma la pelle di Hei Te era tenera come il bambù, sincera come l’infanzia. Daji si sedette accanto alla sua ospite, incuriosita, e incrociò le gambe prima di parlare.

«Perché sei venuta qui?» domandò.

«Voglio essere furba quanto lo sono le volpi. E voglio che tutti si ricordino di me, dopo che sarò morta: dovranno raccontare leggende in eterno, meravigliandosi di ciò che sono stata».

Hei Te porse il sacco di iuta a Daji, che lo slacciò e aprì le scatole, ricomponendo pezzo per pezzo il corpo di Bao; quando giunse all’ultima scatola, quella in cui c’era il cuore, Daji si fermò. Il fondo dei suoi occhi, bellissimi e neri, si accese di una fiamma terribile.

«E così tu sei Bao» disse, rivolgendosi alla giovane offerta.

«Sono io» rispose Bao. «Metti il mio cuore al suo posto: sarò completa, allora, e potrai avermi per te soltanto».

«E che te ne fai, di un cuore? È talmente piccolo che a malapena ci entra un ricordo, un sentimento. Io dico che non ti serve» ridacchiò Daji, e gettò il cuore nella bocca del burrone. Bao lanciò un urlo, atterrita; prima che Hei Te potesse fermarla saltò giù anche lei, sparendo nell’oscurità. Hei Te rimase in piedi sul ciglio del burrone, scossa dai brividi: scrutava il baratro con insistenza, come se fissarlo tanto a lungo potesse far tornare sua sorella indietro. Daji si avvicinò a Hei Te con un balzo.

«È vera la storia che raccontano sulla cima al Monte Kunlun, nella terra fatata di Xuan Pu? Dicono che hai ucciso il Sole, per me. Nessuno aveva mai osato tanto, prima d’ora».

Hei Te non rispose. Le lacrime stringevano la gola in una morsa dolorosa.

Daji poggiò le labbra sull’orecchio sinistro di Hei Te e sussurrò:

«Poiché mi sei devota, io ti esaudirò. Ma prima, muovi tre passi in avanti e portami indietro tua sorella. Sono solo tre passi: non è molto, se ci pensi, considerato che in cambio tu pretendi l’eternità».

Hei Te fece un passo in avanti, poi un altro.

Si era levato un vento secco e gelido a schiaffeggiare la cavità del burrone.

Dal profondo dell’abisso, vuoto e ottuso, il battito del cuore di Bao echeggiava dolcemente nel furore.


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Autrici Claudia Grande fantasmi giappone letteratura Pablo Follieri Racconti


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