di Gian Marco Griffi
Copertina di Andrea Herman
All’ingresso di Grana c’è un cartello che dice “Benvenuti a Grana, gente ospitale”.
Il cartello significa questo: potete attraversare il paese, annusare l’aria di tiglio e fieno e letame, potete perfino scattare un paio di fotografie ai muri sverniciati di case sulle quali spiccano ancora i fantasmi di iscrizioni che enunciano “sempre pronti a indossare lo zaino”, “la terra non tradisce mai”, “noi sogniamo l’Italia romana”, “ricordate che oggi non ci sarebbe la marcia su Mosca, se venti anni prima non ci fosse stata la marcia su Roma” e riflettere sul vostro passato di merda senza che nessuno prenda un fucile da caccia e vi spari nel culo.
Lo dicevo l’altra sera a Bruno.
Gli dicevo Bruno, se passi da Grana non c’è pericolo che qualcuno ti spari alla schiena con un fucile da caccia, perché là c’è gente ospitale. Lui ha risposto che di questi tempi era mica una cosa da poco.
Aveva ragione.
Abbiamo provato a spiegarlo anche a Johanna e Markus Zgraggen, due turisti di Hannover cultori della lingua e della letteratura italiana che l’altra sera sono passati dal bar per un cappuccino.
Erano in Monferrato per giocare a golf e bere vino, sono arrivati a Grana un giovedì per cenare alla Trattoria Concordia, sull’uscio della porta d’ingresso avevano trovato il Dino, cuoco e proprietario del ristorante, che impugnava una mannaia nella mano destra, girandolando l’attrezzo con ira funesta, e con l’altra mano, quella libera, teneva saldamente i capelli di una donna bionda dall’espressione del volto sgomenta, sua moglie, urlando ai carabinieri frasi che Johanna e Markus Zgraggen stentarono a capire, ma che in italiano letterario significavano “andate tutti affanculo, o sgozzo questa troia”.
Quando il Dino si era accorto della presenza di Johanna e Markus tra i molti curiosi presenti, li aveva ispezionati, aveva immaginato di guardare la scena da un’altra prospettiva, la prospettiva nella quale lui non stava minacciando sua moglie con una mannaia sporca di sangue e carne di pollo fresca, si era ricordato delle recensioni su TripAdvisor, aveva pensato che i turisti tedeschi non avrebbero capito la situazione, ovvero non avrebbero capito che quella donna che lui stava afferrando per i capelli, quella donna bionda tinta che avrebbe volentieri fatto a pezzi a mani nude, era la stronza che dopo averlo tradito con un carabiniere adesso gli impediva di vedere suo figlio, a conti fatti aveva considerato che i turisti tedeschi, in genere, potevano non amare trascorrere una serata in un ristorante il cui cuoco stava per fare fuori la moglie cameriera; a quel punto li aveva indicati, aveva appoggiato la mannaia in terra, gli aveva fatto cenno di accomodarsi all’interno, e senza mollare la presa dai capelli della donna aveva dichiarato che quella sera c’era il fritto misto alla piemontese, una specialità della casa, una delizia, very good.
Johanna e Markus si erano guardati, avevano tentennato. Avrebbero voluto trovarsi in qualsiasi altro posto sulla faccia della terra. Uno dei carabinieri gli aveva chiesto di entrare nel ristorante, loro avevano fatto no con il dito, il carabiniere aveva detto per favore, entrate nel ristorante, Johanna e Markus si erano stretti forte la mano, avevano cominciato ad avanzare verso l’ingresso con passi incerti, il carabiniere gli aveva detto bravi, adesso godetevi la cena.
Vedendoli avanzare verso l’ingresso, il cuoco aveva trascinato la donna di un paio di metri affinché non ingombrasse l’uscio e i tedeschi potessero transitare senza impicci, poi aveva mollato la presa dai capelli della donna, le aveva detto che era ora di lavorare (la donna aveva ubbidito senza fiatare), infine aveva urlato al carabiniere di andare affanculo in meridione, terrone di merda, il carabiniere aveva parlottato con il collega, era salito in auto e aveva atteso che Johanna e Markus cenassero.
Due ore dopo Johanna e Markus avevano cenato (erano stati gli unici due clienti del locale), erano usciti ringraziando, i carabinieri erano entrati per arrestare il cuoco; lui li stava aspettando al centro della sala con la stessa mannaia nella mano destra e con gli stessi capelli biondi della moglie nella mano sinistra. I carabinieri gli avevano intimato di lasciare la donna, lui aveva urlato appellativi latrineschi, stradaioli, vagamente razzisti, poi, presa la mira, aveva scagliato la mannaia in direzione del carabiniere più magro, mancandolo e continuando a sciorinare un’invidiabile varietà di improperi pronunciati ora in monferrino stretto, ora in italiano lato; infine, allo stremo delle forze, si era consegnato ai carabinieri (che si avvicinavano e si allontanavano da lui come due poveracci capitati per sbaglio nella gabbia d’un leone selvaggio), la moglie aveva alzato il dito medio e gli aveva detto crepa, brutto stronzo, lui le aveva sputato (mancandola), e uscendo si era premurato di licenziarla.
Comunque, la recensione di Johanna e Markus su TripAdvisor è stata entusiastica.
*
All’ingresso di Quattordio (prov. di Alessandria) c’era un cartello che diceva “Benvenuti a Quattordio, capitale del colore”.
Tale affermazione quelli di Quattordio la credevano giustificata dal gran numero di fabbriche di vernici, coloranti e resine presenti sul territorio comunale.
I rari visitatori, impressionati da un simile benvenuto e al contempo sconcertati per la desolante e stridente assenza di colore del paese, grigio di un grigio sporco fabbrica, entravano negli esercizi pubblici per domandare dove potevano trovare il colore promesso nel cartello di benvenuto.
Interrogati, gli esercenti non sapevano rispondere.
Qualcuno spediva i visitatori alla vasca artificiale dove le vernici in eccesso della PPG erano smaltite, e tale vasca, per quanto non invitante all’olfatto, testimoniava almeno la veridicità della scritta sul cartello di benvenuto.
Il vascone aveva un diametro di settanta metri, era un po’ nascosto da querce e faggi striminziti e da un canneto cresciuto selvaggio accanto a un fosso schiumoso d’estate e argentato d’inverno.
I visitatori, affamati dei colori promessi dal cartello di benvenuto, si lasciavano imbambolare dalle vernici stagnanti sul pelo dell’acqua, ora verdi pisello ora rosse pomodoro, si abbracciavano e si sussurravano che sì, Quattordio (prov. di Alessandria) era certamente la capitale dei colori, o quantomeno la capitale delle vernici smaltite in un vascone enorme nel quale una turbina in movimento ventiquattro ore al giorno produceva un effetto di notevole impatto visivo.
I visitatori erano felici di aver in parte appagato la loro voglia di colore, anche quando il cielo era marrone grigio e le nuvole oscuravano il sole.
Ma pochi istanti dopo cominciavo a lacrimargli gli occhi e a bruciargli le gole, se ne andavano depressi e a Quattordio non ci tornavano più; si lasciavano alle spalle la PPG e la Italiana Vernici, la Pirelli e la Essex, scrivevano su internet recensioni terribili sull’assenza di colore nel paese dei colori.
Altri visitatori, affascinati dal cartello di benvenuto, parcheggiavano e s’aggiravano per le strade di Quattordio smaniosi di introdurre nelle loro vite un po’ di armonia colorata e campestre.
Si verificavano avvistamenti portentosi.
Un seienne di Cuneo ancora inspiegabilmente privo del commercio della parola indicava la croce verde della locale farmacia, diceva “verde”, la sua mamma s’affrettava a convocare il marito, gli diceva amore, Lucio ha nominato la sua prima parola, poi entrambi si mettevano a fissare insieme a lui il verde della croce della farmacia; una corriera carica di pensionati giunta da Sesto San Giovanni notava la scena, fermava bruscamente, lasciava scendere i pensionati in fila per due, i pensionati erano affamati di colore che a Sesto San Giovanni mancava, non ne avevano trovato neppure a Quattordio, anzi, meno che a casa loro, se ne stavano andando delusi e amareggiati, si incantavano un’ora e un quarto a fissare il verde della croce che andava e veniva, impresso sul grigio cemento dell’edificio che ospitava la farmacia.
Una famiglia di Ivrea, dopo aver vagabondato ore in cerca di colori per cui rendere felici i propri figli, scattava innumerevoli fotografie ai propri figlioletti, un maschio e una femmina, abbracciati alle tute da lavoro arancioni di un operaio intento a rattoppare una buca sulla Provinciale.
Il padre diceva fermi così, che si vede bene la catarifrangenza argentata sull’arancione vivo, e scattava fotografie a raffica. I bambini guardavano quell’arancione addosso a un uomo buono che rattoppava le buche e lo ammiravano.
Un giorno di primavera cinque visitatori di Mestre salivano sul belvedere per ammirare i colori e respirare l’aria, i colori erano neri e grigi, annusavano l’aria di Quattordio, l’aria di Quattordio era come l’aria di una stanza tre metri per tre senza finestre appena pitturata con vernice rancida andata a male, scappavano senza neppure consumare un caffè.
In autunno una scolaresca di Chieri visitava la capitale del colore e la guida preposta accompagnava gli alunni a visitare la grande fabbrica di vernici; gli alunni uscivano depressi e maleducati, disadattati e pieni di buio grigio appiccicaticcio come una gomma da masticare, gli insegnanti trovavano parcheggiata di fronte al bar un’autoambulanza coi colori bianchi e gialli e verdi e una croce rossa, e imploravano l’autista di azionare il lampeggiante azzurro al tramonto, che sarebbe stato qualcosa di coloratissimo, il conducente si rifiutava, la scolaresca fuggiva senza aver visto i colori e con un gusto terribile in bocca.
Sulla strada del ritorno fermavano la corriera in autostrada durante un temporale mentre c’era ancora un po’ di sole all’orizzonte, gli insegnanti dicevano se siamo fortunati esce un bell’arcobaleno, il sole scendeva sotto le Alpi, veniva notte, ripartivano per Chieri.
La sindachessa di Quattordio (prov. di Alessandria) si attivava per prendere delle decisioni.
Decretava che tutti i cittadini di Quattordio si pitturassero la pelle di un colore a scelta, mediante inchiostro o vernice, naturale o artificiale, in modo che il loro aspetto giustificasse l’auto nomina di capitale del colore.
Bisognava essere accoglienti.
E così i visitatori si trovavano di fronte uomini e donne con la pelle gialla canarino, blu di Prussia, amaranto chiaro, si impressionavano. I bambini piangevano. Entravano dal panettiere che aveva la pelle arancione Fantini e ordinavano il pane, il panettiere diceva vi piace Quattordio? I visitatori dicevano abbastanza, e scappavano.
Dopo qualche mese si notava che molti bambini dicevano ai genitori: i cittadini di quel posto che si chiama Quattordio assomigliano a mostruosi Teletubbies (per quanto anche i veri Teletubbies siano indiscutibilmente mostruosi).
Si teneva un consiglio comunale aperto, durante il quale i cittadini esprimevano le loro rimostranze per il decreto della sindachessa.
Ma la sindachessa diceva aspettate e vedrete.
In quella circostanza qualcuno chiedeva se non sarebbe stato più semplice e pratico dare una pitturata alla facciata delle case e dei condomini, che erano di un brutto incolore grigiastro mattonato novembrino.
La sindachessa diceva no, quel che è fatto è fatto.
Un altro proponeva di organizzare un campionato mondiale di graffitari, in modo che abbellissero e colorassero le facciate dei palazzi, i muri delle fabbriche, eccetera, la proposta veniva bocciata dalla maggioranza.
Un papà qualunque di Quattordio proponeva di sfruttare l’accostamento tra il colore delle loro pelli e i Teletubbies, la proposta veniva accolta dalla maggioranza.
Si votava per cambiare la scritta sul cartello di benvenuto in “Benvenuti a Quattordio, capitale del colore e dei Teletubbies”, oppure, su proposta dei più anziani, in “Benvenuti a Quattordio, capitale del colore e dei Barbapapà”.
Vincevano i Teletubbies per ventiquattro voti.
Si diceva che i bambini forestieri di oggi erano maggiormente attirati dai Teletubbies, per quanto mostruosi e spaventevoli da togliere la pace ai vivi e ai morti, piuttosto che dai Barbapapà, leggermente meno mostruosi ma ormai superati dal corso del tempo.
Seppur tra le proteste degli amministratori delegati della PPG, della Essex, ecc, che producevano il rosso Ferrari e le scie colorate delle frecce tricolore, si cambiava la scritta sul cartello.
In fretta e furia si organizzavano corsi per la popolazione, si insegnava a comportarsi come i Teletubbies.
Dopo qualche mese, i cittadini di Quattordio guardavano tutte le puntate dei Teletubbies, pativano incubi terribili ogni notte. Qualcuno fuggiva di casa, qualcuno si svegliava nel cuore della notte gridando, qualcuno moriva.
I visitatori portavano i propri bambini nella capitale dei Teletubbies; gli esercenti si comportavano da Teletubbies umanoidi o antropomorfi colorati di tutti i colori della scala Pantone.
Da ogni parte del Monferrato si portavano i bambini a trascorrere una giornata in compagnia dei Teletubbies di Quattordio (prov. di Alessandria), che sorridevano ai bambini di Viarigi, Montemagno, Felizzano, Castello d’Annone, Rocca d’Arazzo, e gli distribuivano caramelle Sperlari coloratissime.
I bambini forestieri iniziavano a manifestare disgusto per i Teletubbies fasulli, i cittadini di Quattordio si sentivano ridicoli e non si comportavano a modo, cioè non agivano imitando i Teletubbies ma semplicemente imitando uomini la cui pelle era pitturata di verde asparago, verde palude, celadon, fucsia ciliegia, giallo citrino, giallo di cadmio, malva, melanzana, eliotropo. E inoltre si erano anche messi a fare i razzisti, quelli sul blu contro quelli più sul giallo (e viceversa), quelli sul rosso contro quelli più sul rosa (e viceversa), quelli dai colori caldi contro quelli dai colori freddi (e viceversa), eccetera.
I bambini scappavano.
Si teneva un nuovo consiglio comunale che annullava il decreto. Si modificava il cartello da “Benvenuti a Quattordio, capitale del colore e dei Teletubbies”, a “Benvenuti a Quattordio”.
Qualcuno protestava, ma si trattava di una minoranza.
Dopo qualche tempo i visitatori giungevano ancora a Quattordio, dicevano non è questo il paese dei Teletubbies? I cittadini dicevano no, non è questo. I visitatori dicevano non è questo il paese dei colori? I cittadini dicevano no, non è questo.
Si teneva un consiglio comunale. Si toglieva la scritta “Benvenuti” dal cartello “Benvenuti a Quattordio”. Restava “Quattordio”.
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Fino a un po’ di tempo fa all’ingresso di Refrancore (At) c’era un cartello che diceva “Benvenuti a Refrancore, paese dei finocchini”.
Era stato inaugurato tre anni prima, in occasione della sagra del finocchino, biscotto tipico di Refrancore famoso in tutto il mondo (o almeno così sostenevano a Refrancore).
Per tre anni, più o meno ogni notte, uno o più ignoti si sono presi la briga di cancellare l’ultima sillaba della parola “finocchini” sul cartello, cosicché la sera si entrava nel paese dei finocchini e la mattina si usciva dal paese dei finocchi.
La prima volta, forse non a torto, si pensava a una ragazzata e si ripristinava la scritta sul cartello nel pomeriggio.
Alla dodicesima volta in quindici giorni si pensava a un atto di guerra da parte dei cittadini del comune limitrofo di Cerro Tanaro, si preparava una spedizione che finiva a botte, nonostante i cittadini di Cerro Tanaro fossero del tutto estranei alle manomissioni.
Un mese e ventiquattro manomissioni dopo, l’Amministrazione comunale installava una telecamera nell’area del cartello.
La prima notte videosorvegliata era una notte calda d’estate.
La registrazione del giorno dopo mostrava un campo di girasoli, una vigna, il cartello di benvenuto e un uomo vestito di nero, con una maschera da Topo Gigio, che cancellava con vernice bianca l’ultima sillaba della parola “finocchini” e successivamente mostrava il dito medio all’obiettivo.
Intervenivano i carabinieri, i quali organizzavano ronde e appostamenti, ma l’ignoto manipolatore riusciva a farla franca ogni volta.
Tre mesi dopo si ingaggiava una guardia giurata per piantonare il cartello.
Una notte la telecamera riprendeva la guardia giurata svenuta e una donna con la maschera di topo Gigio mentre cancellava l’ultima sillaba dalla parola “finocchini”, un’altra notte la guardia era imbavagliata, il cartello manomesso, un’altra ancora la guardia si lanciava all’inseguimento di un sospetto, e mentre lo inseguiva un complice del sospetto manometteva la scritta.
Si stracciava il contratto con la compagnia che forniva le guardie giurate.
A maggio nella bordura accanto al cartello crescevano papaveri e fiori selvatici, la telecamera riprendeva un ignoto con una maschera da Zorro che raccoglieva i papaveri e cancellava l’ultima sillaba della parola “finocchini”; prima di andarsene estraeva una bomboletta spray da uno zainetto e disegnava una Z sull’obiettivo della telecamera.
Il nove luglio di tre anni dopo, per sfinimento, si inaugurava il cartello che diceva “Benvenuti a Refrancore, paese dei finocchi”, tuttora ben visibile all’ingresso del paese.
Le manomissioni cessavano.
Il cartello finiva sulle prime pagine dei giornali, al TG della sera, su Instagram e Facebook.
Con l’arrivo dei primi curiosi, i cittadini di Refrancore si vergognavano moltissimo e decidevano di non uscire più di casa se non per andare a lavorare. Appendevano alle finestre lenzuola con la scritta “Qui abita un eterosessuale”, e si rinchiudevano nelle loro case.
Nel giro di sei mesi, innumerevoli omosessuali giungevano a Refrancore dall’Iran, dall’Arabia Saudita, dall’Afghanistan, dal Camerun, dal Bangladesh, dal Pakistan, dalle Filippine, dall’Italia meridionale, da Santiago (non so più se del Cile o di Cuba) e da molte altre località innominabili; tra loro c’erano medici omosessuali, insegnanti di matematica omosessuali, poeti omosessuali, muratori omosessuali, informatici omosessuali, artisti omosessuali, eccetera.
I cittadini di Refrancore li scrutavano dalle inferriate poste alle finestre, dalle persiane sigillate o dagli spioncini delle porte blindate; quando s’accorgevano che gli omosessuali non fornicavano in mezzo alla piazza del paese o per le strade, non vestivano come quelli del Gay Pride ma esattamente come loro, qualcuno con pantaloni e magliette, altri con camicie e giacche, non infastidivano i bambini, non tentavano di molestare animali o persone, dapprima si stupivano, successivamente si tranquillizzavano, infine tentavano timidi approcci con i forestieri omosessuali giunti da ogni parte del mondo.
Si costruivano nuove case e villette.
Si inauguravano cinema e negozi, parchi e locali, botteghe e musei, centri sportivi e gallerie d’arte, un ospedale, una piccola fabbrica e perfino una moschea, giacché si scopriva, con stupore e un po’ di terrore, che alcuni tra gli omosessuali credevano addirittura in Dio.
Un poeta omosessuale iracheno cantava i papaveri cresciuti nella bordura delle strade di Refrancore, le orchidee selvatiche cresciute nelle vigne di Refrancore, le case basse di Refrancore. Gli informatici omosessuali si mettevano in società con un imprenditore omosessuale e con un ingegnere omosessuale e fondavano una compagnia che dava lavoro a centinaia di eterosessuali.
L’unico omosessuale di Refrancore, prima timido e vergognoso della propria natura, sposava un saudita a cui in patria era stato mozzato il dito anulare della mano sinistra e veniva eletto sindaco. Il giorno dello sposalizio infilavano le fedi nel dito medio e le mostravano orgogliosi alle telecamere della Vita in diretta.
Alcuni eterosessuali chiedevano di sostituire la parola “finocchi” del cartello con un termine meno denigratorio e più politically correct, ma tutti gli omosessuali, autoironici e ben consci del fatto che l’ospitalità, l’accoglienza o anche la semplice accettazione vadano oltre qualsivoglia insulsa terminologia, si opponevano.
Un giorno, durante la festa del paese, il sindaco saliva sul palco e diceva chiamateci pure froci, checche, cupiu, culattoni, busoni, iarrusi, caghineri, buggeroni, per noi non ha più alcuna importanza. Ma quelli di Renfrancore, ormai, avevano preso a chiamarli per nome, li chiamavano Giorgio, Philemón, Luisa, Mohammed, ecc. e non avevano bisogno di chiamarli in altro modo.
Refrancore diventava famosa nel mondo per i suoi finocchini e per i suoi finocchi, meta turistica e ricca sfondata.
In seguito ho sentito di altri cartelli di benvenuto manomessi, e perfino anagrammati, in giro per il mondo, cartelli che grazie a piccole manipolazioni promettevano un po’ d’accoglienza e accettazione a profughi e extracomunitari, a disabili e zingari, a socialisti e democristiani, a tossici e alcolisti, ma nessuno sortiva l’effetto sperato, e dopo poco venivano sradicati, l’accoglienza dimenticata, le minoranze oppresse, i deboli sottomessi, i bisognosi abbandonati, come al solito, come dappertutto.
Andrea Herman Annotazione sui cartelli stradali in Monferrato Gian Marco Griffi letteratura Monferrato Racconti