di Caterina Nicolis Lundgren
Copertina: Chiara Casetta
Abito nello stesso paese da sempre, a un paio di strade dalla casa dei miei genitori e a un’ora di treno dalla città. La mia vita si è svolta tutta nel raggio di pochi chilometri: il liceo, l’università, poi il lavoro, il matrimonio. Trent’anni che giro negli stessi metri quadrati, come un criceto nella sua gabbietta, ma a me sta comoda, e mi piace così.
Oggi sono a Milano per un cliente. Il progetto che ho presentato è piaciuto, peccato solo questa pioggia che è arrivata all’improvviso mentre ero già fuori. Non ho nemmeno l’ombrello.
Le gocce di fango dai paraurti schizzano ovunque, l’aria è elettrica, gli sguardi delle persone sfuggenti. Trovo riparo sotto la pensilina dell’autobus. Mi faccio spazio dietro una signora con il carrellino della spesa e un impermeabile azzurro, lo sguardo dritto davanti a sé. Comincia a piovere più forte e altre persone si accalcano tra di noi.
Dall’altra parte della strada c’è uno di quei ristoranti milanesi tanto di moda: una terrazza con ampie vetrate, illuminata da file di luci attorno all’entrata, piante di bambù ai lati. Nella patina grigiastra di questa giornata il locale spicca come un’oasi.
Poi lo vedo. È mio padre. È lì seduto con una donna, si tengono la mano. Ma quella donna non è mamma, ne sono sicura. È una donna bionda, da lontano mi sembra più giovane di lui. Avanzo tra le giacche bagnate, gli stivali e le scarpe della piccola folla radunata lì sotto, spingo avanti e di fianco, qualcuno si lamenta. Le loro proteste mi arrivano ovattate come il rumore della pioggia che batte sull’asfalto. Appena riesco a uscire dal nugolo di persone mi fermo a guardare di nuovo.
Attraverso la strada, ho le calze bagnate, la fronte coperta da un misto di sudore e acqua, il respiro affannato. Mi avvicino al bar e li osservo. È proprio lui.
Riconosco la giacca di camoscio chiaro, il taglio di capelli sulla nuca e il profilo con il suo naso sottile, le mani grandi. Lei ride, e mentre lo fa tira indietro la testa, si aggiusta i capelli. Poi lui si alza e la bacia sulla bocca, accarezzandola, e se ne vanno sotto l’ombrello abbracciati. Mi siedo in quello stesso bar, ho bisogno di pensare. Il cameriere mi porta il caffè macchiato, lo giro nella tazzina fino a farlo uscire dai bordi. Lascio cinque euro sul tavolo e fermo un taxi per andare in stazione.
Prendo il treno per tornare a casa, a ogni fermata guardo l’orologio. Mi torturo un’unghia fino a spezzarla. Lo smalto rosso si apre ai lati e con la limetta rimetto a posto il bordo, poi ricomincio. Avevo promesso a mamma di passare da lei.
Quando arrivo sotto casa dei miei genitori il cortile è vuoto e ha smesso di piovere. A pochi passi da lì c’è un torrente, intravedo i ciuffi d’erba verdi su un orizzonte di campi coltivati. È lì che andavo a fumare da ragazzina, di nascosto dai miei. Lo faccio ancora di nascosto, non lo sa quasi nessuno. Tiro fuori il pacchetto e me ne accendo una. Il fumo mi calma, mentre respiro l’odore fresco della terra bagnata.
Guardo verso casa, la luce della cucina è accesa. Mamma si starà chiedendo se verrò a berlo, quel caffè. La tazzina pronta nella macchinetta, lei seduta in poltrona con le sue matasse di lana. Non manco mai ai nostri appuntamenti, mi piace mantenere la parola, essere precisa.
Mi decido, infilo le chiavi ed entro. In un momento mi assale il dubbio che sia stata tutta un’allucinazione, un miraggio nel riflesso della pioggia. Un po’ come nel deserto, però al contrario. Poi rivedo la scena, limpida come se fosse davanti a me, e la nausea mi esplode nello stomaco.
Entro e mi tolgo gli stivali sporchi di pioggia e fango, poi il cappotto bagnato. La casa è calda, odora di caffè appena fatto.
«Mamma», la chiamo, «sei in cucina?»
«Si, si. Vieni!»
Appena la vedo le do un bacio sulla guancia, è morbida e profumata.
«Com’è andata in città oggi?»
«Bene, mamma. Però… possiamo andare un attimo di là e sederci? Devo dirti una cosa.»
Lei mi accompagna. Ci sediamo vicine sul divano, le stringo la mano.
Prendo fiato. «Non so come dirtelo, e non so se faccio bene a farlo. Ho visto papà, in centro a Milano. Era con una donna.»
Ha un lieve sussulto, deglutisce e piega le labbra.
Poi si china verso la cesta con la lana, prende i ferri e riprende il lavoro.
«Mamma», insisto io, «hai capito cosa ti ho detto?»
Lei continua a sferruzzare, concentrata. Prende la rivista dei cartamodelli, la gira su una pagina e me la indica.
«Vuoi che lo facciamo con le maniche lunghe o tipo gilet?»
«Voglio che mi ascolti, mamma. Papà ha un’altra.»
«Io lo preferisco con le maniche lunghe. Mi sembra più comodo.»
E riprende a lavorare.
Rientro in cucina. Il caffè è freddo, lo bevo lo stesso. Mi sembra di essere scivolata in una palude. Non so dove afferrarmi per tirarmene fuori. Restiamo così, io appoggiata al bancone della cucina, lei in salotto, per un po’ di tempo.
Quando torno di là, lei è ancora sul divano, lavora a maglia. Ha ricominciato a piovere, il ticchettio copre i rumori.
«Devo andare mamma, ho ancora del lavoro da fare.»
«Si, certo, vai. Se vuoi, domani vieni a pranzo. Ti preparo un risotto.»
«Mamma, lascia stare. Sai che mangio sempre di corsa.»
La domenica siamo tutti a casa dei miei per il compleanno di mio fratello. Non è cambiato niente, tra di noi. Le mie nipotine si alzano quasi subito da tavola, gli uomini (mio fratello, mio marito, mio padre) discutono di calcio. Mamma continua a parlarmi come se non fosse successo niente.
Finito di mangiare con una scusa mi alzo a vado di là.
Entro nello studio di papà, osservo i suoi libri, le planimetrie arrotolate: tutto in ordine, tutto perfetto. Anche io sono architetto, come lui. Da piccola lo aiutavo a mettere le sue cose a posto, a separare i bozzetti finiti da quelli in corso, a fare le punte alle matite, ad allineare i libri sugli scaffali. Quella stanza mi dava pace. Ancora oggi mi sembra impeccabile, un mondo regolato e sicuro, racchiuso nel metodo.
«Stai cercando qualcosa?» la voce di papà mi arriva da dietro d’improvviso, mi spaventa. Non ho il coraggio di girarmi. Siamo io e lui soli e mi sembra che lui non abbia più il diritto di stare lì.
Si avvicina e mi appoggia le mani sulle spalle.
«Elena, stai bene?»
«Papà, scusami, non è il momento. Se proprio lo vuoi sapere, no: non sto bene. Ci sono delle cose…»
Mi interrompe. «Lo so. Mamma me l’ha detto.»
Mi prende la mano, lo scaccio via in malo modo.
«Elena, per favore.»
«Mi fai pena» gli sussurro.
Vado verso la porta. Di nuovo la sua voce.
«È difficile, sai, alla mia età. Mi dispiace.»
Mi giro, lo guardo negli occhi. «Ma alla mamma non ci pensi?»
«Io la amo, tua madre.»
«Certo, e poi te ne vai in giro a baciare un’altra donna. Ti ho visto, papà.»
«La mamma lo sa. È un accordo nostro. Abbiamo una relazione aperta, da sempre.»
Relazione aperta. Due parole che mi schiacciano come un masso.
«Cosa vuol dire aperta?»
«Che ci vogliamo bene, ma abbiamo sempre fatto così.»
«No, aspetta, papà, cosa mi stai raccontando?»
«Lei non ha il coraggio di dirtelo, sa che ci rimarresti molto male. Ti conosce. Ma è inutile, e stupido, che tu a trent’anni ancora non lo sappia.»
«Non sappia cosa?»
«Anche lei può frequentare chi vuole. Siamo felici così. Tua madre è la donna della mia vita, è la mia famiglia. Ma abbiamo il nostro equilibrio.»
Sono senza parole. Neanche la forza di ribattere, di chiedere. Li rivedo insieme, e poi tutta la loro complicità, e mi vengono in mente episodi, qua e là, di vacanze separati, viaggi studio, serate in cui uno dei due rimaneva a casa. Nessuna tensione, mai.
Esco veloce dalla stanza, lui mi lascia andare, e sento che avrei bisogno d’aria, ma resto in apnea. Torno a sedermi a tavola, c’è il dolce, mamma mi guarda e cerca un sorriso, un gesto. Papà torna a sedersi con noi, le prende la mano e poi la bacia. Un bacio gentile, come una promessa.
In un attimo la tensione dei muscoli si scioglie, il mio sguardo si solleva e vedo le nostre teste dall’alto, le nostre mani che si muovono, la sala da pranzo illuminata, le nostre fotografie alle pareti, i nostri volti sorridenti. Vedo me stessa, tra loro, me come figlia, sorella, moglie. Va tutto bene, mi dico. Ed è proprio così.
Prima di andare, finito il dolce, guardo i miei genitori, poi prendo la borsa e tiro fuori le Marlboro.
«Vado in balcone un attimo» dico «ho voglia di fumare una sigaretta.»
Mio fratello fa per dire qualcosa, ma mia madre si alza, prende un foulard e me lo avvicina.
«Mettiti questo, che prendi freddo.»
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Lucido, attuale, spietato e allo stesso tempo riconciliante, foriero di speranze. Quante sfumature ci sono in un rapporto? Bello averlo letto, grazie.