di Valentina di Cataldo
Copertina: Ottavia Marchiori – Avoid the hottest hours and drink more water
Era una casa tozza coi blocchetti a vista, di quelle raffazzonate nella notte aggirando i permessi con alibi da capanno agricolo. Su ogni lato, terreni sabbiosi e carichi di sterpaglie rievocavano malamente un passato di lavoro e raccolti, in un contrasto di odori che era una resa inconciliata.
Comprarla era stata un’idea del signor Vittorio, una sorpresa per la Catina, sua moglie, e una riparazione tardiva per bilanciare un periodo di stress coniugale durato quarant’anni. Non che lei avesse mai espresso alcun desiderio al riguardo. La faccenda era più che altro un pretesto: dopo una vita di frustrazioni cittadine su al nord, con la consapevolezza dei suoi sessantatré anni, il signor Vittorio voleva tornare a vivere in quella terra cotta di muretti a secco che era stata l’orizzonte della sua infanzia e poi la miseria da cui scappare e che ora, sperava, avrebbe suggellato la sua personale riappacificazione col creato.
Lo guidava una convinzione solida: si finisce sempre per tornare dove si appartiene.
Non conosceva il paesello, l’aveva scelto perché era tra i più isolati della regione, al sud, in tutto uguale a quello dove era cresciuto: una chiesa, quattro vie, un bar dove si serviva caffè corretto e si giocava a zicchinetta, lo stesso ritmo rallentato, lo stesso niente su cui poggiavano tutte le cose. Uguale, ma non esattamente quello, aveva deciso il signor Vittorio, perché non è mai bene andarsene ad abitare troppo vicino ai propri fantasmi.
Era partito un lunedì di marzo, forte delle sue massime e di una spiegazione incompleta. La Catina gli aveva stirato due camicie, scritto il numero di casa su un foglietto e infilato un panino nel borsone. Per il resto, non aveva fatto commenti.
Il volo andò come previsto, ma il viaggio in treno, dopo, fu come riprendere una conversazione con un tempo remoto, lo riportò indietro all’infanzia, e poi ancora a prima, a un secolo che non aveva vissuto, prima che fossero vivi suo padre e il padre di suo padre. Pensò che aveva fatto la scelta giusta.
Alla stazione si fece indicare l’unica pensione aperta, vi si sistemò, poi si dedicò alla ricerca. Per cominciare, chiese alla donna dell’affittacamere. Lei gli suggerì di domandare al bar centrale, ma senza farsi illusioni.
– Se ne torni in città. – lo consigliò. – Qui non c’è niente.
Il signor Vittorio fu sul punto di protestare, di spiegarle che un posto valeva l’altro, ma poi si accontentò di un cenno vago che non smentiva e non confermava.
Al bar centrale i giocatori gli sembrarono più vecchi di quello che erano e forse erano vecchi davvero, incisi da anni di notti corte e albe pesanti. Gli parvero gente abituata, impassibile, di poche parole. Come se a furia di scavare terreni rinsecchiti avessero finito per seppellirci dentro anche le emozioni. La sua gente, eppure non più. Gli ricordarono suo padre. Quando parlò, le facce non si mossero; solo gli sguardi gli guizzarono addosso tutti insieme per imparare il suo accento meticcio da continentale acquisito.
Ci vollero dieci giorni di acquaviti trangugiate alla salute dei presenti prima che cominciassero a fidarsi.
Ogni sera il signor Vittorio telefonava alla Catina su a Milano per informarla dei progressi. Usava frasi brevi, funzionali, che nascondevano più che dire. Lei si preoccupava che cenasse come si deve. Lui la rassicurava, taceva dei giri di carte e inventava agenzie immobiliari dove non c’era che il bar con il suo niente. La Catina credeva a tutto, ma era chiaro dal modo in cui piazzava i silenzi che cominciava a spazientirsi.
Poi, un pomeriggio, il signor Vittorio entrò al bar e al tavolo c’era un uomo che non aveva mai visto. L’uomo lo stava guardando. Alzò il bicchierino e abbassò il mento: due gesti secchi, netti, quasi impercettibili, che per il signor Vittorio furono un richiamo indubitabile.
– Mi dicono che è forestiero e cerca un posto – disse l’uomo.
Il signor Vittorio annuì e specificò: – Giusto un tetto sopra la testa e un angolo di panorama per la vecchiaia.
– Si capisce. Aspettavo proprio lei.
Disse che aveva il posto adatto e si offrì di accompagnarvelo immediatamente. Era un uomo come la terra da cui veniva: ricurvo, magro, rarefatto. Per tutto il tragitto parlò a scatti, alternando i gesti della guida agli spigoli dei concetti, mentre la panda cigolava sullo sterrato e perdeva pezzi di fango secco dalle ruote.
– Vedrà che posto. Bello da morire. Purtroppo non posso tenerlo. Mi ricorda troppo mia moglie. Ma la vita è una ruota: oggi a me, domani a te.
Il signor Vittorio non fece domande. Sperava solo che non ci fossero vincoli sulla proprietà. La panda infilò un viottolo laterale fino a un cancello di fil di ferro tenuto fermo da un bastone. Conficcata in fondo c’era la casa. Era buia, sproporzionata e più malmessa del previsto, ma esercitava il fascino irreversibile di un errore necessario.
Fu tutto fin troppo veloce. Il signor Vittorio guardò le carte appoggiato al tettuccio dell’auto, mentre il proprietario gli elencava i pregi del clima locale e lamentava i tempi tristi e i sacrifici della vita impedendogli di concentrarsi sulle scritte piccole. Parlava con la faccia dolente, nel nome di una presunta affinità di stato o di antenati o di provenienza sociale, indistintamente.
Il signor Vittorio rimase così confuso che non osò chiedere garanzie sullo stato dell’immobile e anzi insistette per pagare subito la metà della cifra concordata. Comparve l’acquavite per suggellare il contratto.
– Per le formalità, non c’è fretta. Mi basta la parola. Si consideri proprietario. E alla salute sua e della sua signora.
Il signor Vittorio si ritrovò in mano una chiave limata male, poi l’altro lo fece risalire in auto e lo riaccompagnò alla pensione. Durante il viaggio di ritorno, non disse mezza parola.
Una volta in camera, il signor Vittorio telefonò alla Catina e le disse di fare le valigie, chiudere bene l’appartamento e raggiungerlo col primo volo. Sarebbe andato a prenderla in aeroporto. La conversazione lo sfinì. Non fece nemmeno la doccia: vestito com’era, si buttò sul letto rifatto. Aveva addosso una sensazione euforica e mesta, come di sconfitta.
Fu solo più tardi quella sera, mentre cenava da solo a un tavolino del bar e ripensava alla casa e ai soldi sborsati, che si rese conto di non aver nemmeno guardato l’affaccio sul retro.
Il giorno dopo, all’aeroporto, era ancora paralizzato dall’idea di aver commesso una leggerezza. La Catina invece era su di giri per le novità. Si stupì che fosse venuto a prenderla in macchina, una berlina degli anni novanta puzzolente di sigaretta e coi finestrini a manovella gentilmente prestata dall’ex proprietario della casa.
– Gentile, non trovi?
– E a lui non serve?
– Ne ha un’altra.
– Dovremo sdebitarci – mormorò la Catina. Se fosse contrariata o solo in imbarazzo, il signor Vittorio non avrebbe saputo dirlo. Si convinse di essersi semplicemente disabituato alla moglie.
Appena arrivati oltre il cancello la Catina scese, respirò l’aria, baluginò intorno un paio di occhi senza fondo e puntò verso l’ingresso. Nel corpo il signor Vittorio le intuì un’inquietudine animale che non aveva mai visto prima.
La Catina si fece aprire la porta ed entrò nelle due stanze dal soffitto basso. Squadrò ogni angolo, muovendosi veloce dalla cucina al bagno alla camera da letto, pratica, metodica, disgustata, mentre scopriva gli infissi marci, le lampadine tremolanti, il muschio melmoso nello scarico del water. Il signor Vittorio la seguiva realizzando l’imbroglio in cui si era cacciato.
Alla fine della ricognizione, la Catina si piantò in mezzo alla stanza e indicò la porta sul retro. Il chiavistello era incrostato di ruggine, ma a forza di tirare cedette.
Il fico d’india copriva metà dell’uscita. Occupava buona parte del cortile sul retro. Il signor Vittorio lo guardò sconcertato. La Catina fissò quel corpo inatteso e poi fissò il marito. Si appellò alle carte, ma lui alluse a una faccenda di parole date e acquavite. Chiamarono il proprietario per dirgli che così non si poteva, che quel fico d’india in giardino, mai menzionato durante le trattative, costituiva un problema enorme. Il proprietario fece intendere che non era più affar suo.
– L’avevo detto: a volte le cose della vita…
Il resto fu come un lungo finale rimbalzato tra i non detti.
La Catina fece un gesto stizzito, tornò alla macchina, aprì la valigia e rientrò inforcando guanti e detersivi, pronta a raschiare ammoniaca su tutte le superfici e a spazzolare escrementi di ogni specie. In cambio, il signor Vittorio doveva far sparire il fico d’india prima che le finisse la pazienza.
Per tre giorni la Catina accatastò mobili, materassi e oggetti ammuffiti in cortile. Le due stanze buie di mosche rimbombarono delle sue lamentele smozzicate, recriminazioni buttate lì a mezza voce apposta perché il signor Vittorio intuisse che erano dirette a lui ma non riuscisse a distinguere esattamente le parole. Al quarto giorno, la casa aveva ripreso un aspetto quasi abitabile. Il cactus invece rimaneva ben saldo al suo posto, appoggiato al muro di fondo come a un comodo schienale. Non solo non era stato possibile eliminarlo, ma anzi, era cresciuto di svariati centimetri in altezza e andava arrotondando le forme sui lati. Sembrava determinato a prendersi tutto lo spazio vitale, tutta l’aria e tutta la terra.
Il signor Vittorio lo guardava sopraffatto e senza rendersene conto si abituava a quell’inquilino anomalo. La Catina diventò intrattabile. Le energie che aveva manifestato all’arrivo si incanalarono in un progetto sistematico di sterminio. Ogni sera nutriva la pianta di qualunque ingrediente le capitasse a tiro: candeggina, ammoniaca, acqua sporca dei pavimenti, olio di frittura, aceto, sale. Agiva meticolosa, chirurgica, completando i gesti con accuse indirette e vendette verbali. Come risultato, il cactus buttava gemme di un verde più brillante del normale, aggiungeva pezzi qua e là sempre più lontani e invasivi, si moltiplicava da se stesso, caparbio e folle, mangiandosi la casa, il terreno e l’agognata serenità. Non rimaneva più una finestra che si potesse aprire senza rischio di essere punti o soffocati dalle spine. In profondità, poi, l’intrico delle radici doveva essere ancora più estremo, un coacervo sotterraneo che stritolava e teneva insieme ogni cosa in un equilibrio impossibile.
Un mattino al risveglio trovarono il pavimento divelto.
Maledetto, pensò la Catina, e aumentò le dosi di candeggina e recriminazioni.
Maledetta, pensò il signor Vittorio, e si allontanò, determinato a trovare una soluzione definitiva.
Era convinto che la risposta fosse nella terra, così come nella terra c’erano le radici di tutto: le loro vite, il presente, il passato, le dinamiche incancrenite, l’assurdità di quel matrimonio che negli anni li aveva resi due facce piatte di un odiarsi reciproco, feroce, costante, ma ancora li costringeva insieme come se non potessero più farne a meno. Tutto nascosto in profondità, nella terra rinsecchita e trapassata di quell’isola senza scampo da cui già una volta era fuggito e a cui alla fine era tornato, arreso, incapace di opporsi. Dentro di sé lo sapeva: se avesse cercato con cura sarebbe riuscito a risalire al punto da cui i germi originari si diramavano, ma ci sarebbero voluti tempo, pazienza e soprattutto un coraggio di cui non era capace. E anche ammesso che alla fine arrivasse allo strato più profondo, alla maledetta radice del problema, non avrebbe poi saputo cosa farne: estirparlo avrebbe significato sradicare la casa intera, ritrovarsi a contemplare un’unica, enorme voragine. Del resto, non poteva nemmeno continuare così, con quel cactus a crescergli sotto il naso e la Catina a fargli pesare le sue inadeguatezze di uomo e di marito. Che errore tremendo, che stolida illusione. Tutta colpa della Catina, ovviamente. Era sempre stata lei, il vero problema, il signor Vittorio lo sapeva dall’inizio ma aveva voluto ignorarlo. Poi pensò che probabilmente questo sono i matrimoni, e nient’altro: amarsi un poco e poi passare l’esistenza a litigare, rubarsi l’aria e perfino odiarsi a morte. Chissà quanti altri avevano già vissuto le stesse dinamiche. Si sentì parte di una storia eternamente ripetuta, come se lui e la Catina non fossero affatto i primi ma solo gli ultimi eredi momentanei di un destino ineluttabile. La vita è una ruota che gira, aveva detto il vecchio proprietario con il tono di uno che abbia già vissuto il finale. Il signor Vittorio sentì addosso il peso delle vite di tutti, i vivi e i morti, suo padre, suo nonno e quelli che erano prima.
Forse fu la semplicità dell’idea a convincerlo, o forse lo spaventò la prospettiva di doversi abituare per sempre a quella condizione: la casa, i soldi persi, i lavori incominciati, la terra secca e quel cactus sempre più enorme a chiudere gli orizzonti. Fece qualche passo sul sentiero biancastro, poi si decise. Non ci sono alternative, sospirò.
C’era un coltello, in cucina, uno di quei coltellacci per sfilettare il pollo che la Catina teneva ben riposto nell’ultimo cassetto, nascosto dentro la doppia confezione di fabbrica, uno strato di panno dentro uno strato di cartone, tal quale il giorno in cui gliel’avevano regalato, perché i coltelli è sempre meglio non lasciarli a passeggio per la casa.
Il signor Vittorio tornò in cortile. Il fico d’india era lì ad aspettarlo. Gli sembrò che fosse cresciuto ancora. Dovette farsi spazio tra le spine per riuscire a raggiungere un punto buono.
La Catina gli piombò alle spalle.
– Si può sapere cosa fai?
Il signor Vittorio non rispose. La Catina si sporse, guardò il coltello, recriminò, sprecò il fiato e ammutolì.
Dopo neanche due ore, il signor Vittorio livellava il giardino, finalmente libero. Un mucchio di pale di fico d’india segate giaceva ai suoi piedi pronte per essere ripiantate. L’impresa era stata più ardua del previsto. Le maledette radici avevano davvero perforato ogni centimetro: appena aveva dato il primo colpo di pala, il terreno martoriato gli era franato tra i piedi come un imbuto verso l’abisso, lasciando emergere strati su strati di storie sepolte.
– Vedi, cara? – si rivolse alla terra. – In fondo non siamo stati niente di speciale.
Quando gli parve di nuovo tutto in ordine, si fermò a contemplare il lavoro finito: la pianta appena riconficcata era più rigogliosa che mai.
Poco dopo, chiuse la porta di casa, fermò il cancello, salì in macchina e guidò fino in paese. Al bar centrale, il tavolo dei giocatori era come lo ricordava. Le facce non si girarono, ma qualcuno, impercettibile, sollevò il bicchierino alla sua salute. Il signor Vittorio rispose con un cenno secco e gli stessi occhi liquidi di suo padre. Si sentì vecchio più di quanto non fosse, o forse era vecchio davvero, solcato dalla fatica di aver rivoltato quella terra impestata di fantasmi. Andò ad aggiungersi al gruppo dei suoi simili. La sua gente, ora ne era sicuro. Si sedette al loro tavolo, poi annunciò che vendeva la casa e aspettò che arrivasse un forestiero.
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