di Tiziana Bianca Calabrò
Copertina: Ottavia Marchiori – The sound of silence
Ancora un’altra settimana senza pioggia e dovrò uscire da qui. Non è bene allontanarsi dal paese. Una distrazione e te lo trovi abitato. Gli altri dentro e tu fuori. Dopo la fatica di questi anni, per farlo diventare fortezza e isolarlo dal resto. In pochi si sono avvicinati. Mica sono scemo io. Io so anticipare il futuro. Per questo ho scelto lui, nascosto tra le valli che neanche il vento riesce a portare le voci lontane. L’ho fatto quando in città si stava stretti, ma non ancora tanto male. Succede così, un giorno senti che le stanze che abiti non ti vogliono più. Ti respingono. Bisogna essere bravi a capirlo in tempo. A confondere la pazzia, intendo, per l’abbandono improvviso. Ho fatto scacco alla regina, prima di essere mangiato. Ho chiuso il pc poggiato sulla mia piccola scrivania da burocrate. L’onnipotenza rinchiusa in quella piccola merda di pixel, che ti allaccia al mondo e ti tiene prigioniero. Nel frattempo studiavo, ricercavo il paese più adatto, i terreni, pensavo alle greggi, a un clima non troppo ostile. Un posto dimenticato. Un po’ come me. Il bello di quando non hai una famiglia, una storia a cui aggrapparti, album di fotografie, vigilie, compleanni, gli occhi di una madre, luoghi in cui voler tornare. È facile crescere così. Senza punti fermi. Quelli li ho sempre cercati dentro di me. Nessun legame, se non per far esultare il corpo. Più un’esigenza fisiologica, come pisciare. È così che rimani isolato, diventi un paese disabitato. Neanche al lavoro sentiranno la mia mancanza i colleghi. Mi hanno sempre considerato uno stronzo anaffettivo. Ma in fondo non siamo poi così diversi. Il mondo è messo male. Soffoca come i sentimenti degli umani. Solo che nessuno lo aveva capito allora. C’è una certa ostinazione nel credere che andrà tutto bene e nell’immaginarci migliori di quanto in realtà non siamo.
È così che sono sparito. Non è difficile. Basta volerlo e non voltarsi più. Ma osi solo se non ti fai prendere da nostalgie e mancanze. Bisogna essere allenati e onesti. Perché degli altri a nessuno fotte niente. Si vuole solo sopravvivere. Così era dieci anni fa, quando sono scappato. Che anno di merda. Adesso è pure peggio. Le notizie mi arrivano dalla radio. Sì perché nel frattempo mentre tutti ti consideravano uno sfigato se non avevi la tecnologia infilata fino al buco del culo, io imparavo a diventare radioamatore. Da qui da questa valle da un punto alto e nascosto, intercetto conversazioni, umori, disagi, paure, di una terra che non mi appartiene più, fatta eccezione per questo paese, che ho trovato, sistemato pezzo pezzo, inerpicandomi per le vie vuote, entrando nelle case dalle porte divelte, calpestando pavimenti un tempo abitati e poi divenuti covi di animali notturni e dei loro escrementi. Ci ho portato un gregge, semi, la mia arte nel coltivare, la mia dimestichezza con le bestie, il mio disinteresse per gli esseri umani, e un pezzo alla volta, l’ho recintato, ho trovato i luoghi di vedetta del paese. Bastiani. Questo il suo nome, scritto su un’insegna abbattuta forse dal vento o da qualche fulmine di passaggio. L’ho appoggiata a un grosso masso. Così la leggono le pecore.
Forse inizia a piovere.
Stavo bene solo. Finché non è accaduta quella cosa lì, che mi maledico tutti i giorni per la mia debolezza.
Stavo bene.
E ancora questa pioggia non smette di precipitarsi tra i viottoli di pietra, farne letto di fiume. Se non la finisce, il paese diventerà una cascata, tutto in discesa com’è. Che con l’acqua sembra più incrinato, come sull’orlo di un precipizio e le salite scompaiono. Se non smette mi fotte le coltivazioni. Il bestiame ha l’inquietudine dell’immobilità forzata. Ma il vero problema è lei che piange in preda ai demoni. Sovrasta l’acqua, quella che cade in pezzi e quella attorcigliata e prigioniera tra i vicoli. Si è mischiata alle sue lacrime. Il torrente sta diventando mare, con i confini stretti. Ma no, lei non mi costringerà a lasciare il paese per cercare aiuto o cure. Non dovevo darle quel nome. Doveva servirle da monito crescendo e non da maledizione nella mia vita. La vita. Troppo sopravvalutata. Ci sono cascato anche io alla fine, in questa buona educazione del cavolo. Se fossi stato più libero da questa architettura di pensiero, l’avrei lasciata tra le foglie secche degli alberi, ci avrebbero pensato gli animali di notte, o il freddo. Era quello il suo destino. Quale donna poteva essersi spinta così nei boschi, per abbandonarla? Se avesse fatto ancora qualche chilometro avrebbe potuto scoprire il paese. Sarà stata la fame a riportarla indietro. O forse era un uomo, un padre lasciato con questa rompiscatole tra le braccia, spinto fino a qui per abbandonarla. L’avrei dovuta ignorare, come i funghi velenosi. E invece l’ho raccolta da terra, ha smesso di piangere e l’ho portata al paese. Un’altra bestia da addomesticare, ho pensato, magari utile quando sarò vecchio. Le ho dato un nome, come a tutte le bestie che ho. Seiunpeso, così, tutto attaccato. Che tanto non aveva bisogno del nome dei santi. Nessuno l’avrebbe battezzata e tantomeno cercata e qui le uniche preghiere sono le mani sempre al lavoro. In fondo io e lei siamo simili. Senza passato e ora se non smette di piovere, saremo anche senza futuro. Allineati con gli altri nelle città. Ma a loro le incertezze non vengono soltanto da un clima fuori controllo. Quelli delle città non hanno la terra e un paese dove stare larghi. Sono tutti in guerra, lì, tutti arrabbiati senza più nemici contro cui prendersela. Che tanto nelle città non va più nessuno. Forse piangono e si disperano per ogni mancanza, come Seiunpeso adesso.
La lascerò morire, se non la finisce, anche se è più di un anno che sta qui con me e le bestie e tutto il resto. Anche se ha imparato a dire il mio nome e per un attimo, in quel momento, ho davvero pensato di ammazzarla, torcerle il collo come alle galline.
Dino è un nome banale, ma detto da lei non sembra più così ostile. Le concessioni di tenerezza hanno un prezzo alto e io ho fatto la stupidaggine di ficcargliela in bocca, con solo quattro lettere. Mi sono fidato e lei, ora, mi ripaga così.
Ha smesso di piovere. Durante la notte, all’improvviso. Si sente il paese zuppo, sgocciolare lentamente. Al mattino sarà tutto un luccichio riflesso in migliaia di bolle d’acqua. Dovrò controllare le bestie, farmi vedere, fargli sentire che possono sempre contare su di me, che non le ho abbandonate. Che neanche adesso lascerò questo posto, quando capiranno che non c’è più e che non tornerà. Mai più. Mi ha parlato tutta la notte. Delirava a tratti. Non avevo paura. Dino mi ha insegnato a non averne mai, che la vita è sopravvalutata e la morte un dettaglio. Mi ha raccontato, per l’ennesima volta, di quando in una notte di pioggia come questa, quando ero una bambina che sapeva dire solo il suo nome, iniziai a piangere, per quattro giorni e quattro notti, fino a che la pioggia non smise e io con lei. Pensò fossi morta, insieme all’acqua. Così si affacciò al mio letto. Ebbi appena la forza di pronunciare il suo nome, dice, e lui il mio. Dino. Seiunpeso.
Non so cosa voglia dire Seiunpeso. Dino non me lo ha mai voluto spiegare. Ma forse perché i nomi non hanno un senso. Mi ha insegnato tutto Dino, anche come usare le mani in ogni cosa, ma Seiunpeso, no.
Però quando lo pronunciava, mi piaceva di più stare lì, con lui. Non doveva essere come i nomi di città. Ma tanto io nelle città non ci andrò mai. Era un anno vuoto, diceva Dino, la notte della pioggia e del mio pianto di bambina, pieno di brutta gente, mi diceva, come adesso.
Ora ti scavo una fossa profonda Dino, così non sentirai mai le loro voci. Poi sistemo il paese zuppo. L’acqua ha fatto molti danni, lo sento da come soffia il vento tra le cose. Lo sistemo con le mani, così, giusto per pregare un po’.
Autrici Isolamento Ottavia Marchiori Racconti Tiziana Bianca Calabrò
Il bello di questo racconto è che sembra normale.
Come la pioggia.