di Anna di Leo
Copertina di Sante Cutecchia
“Gli occhi sono la dimora della vergogna”
Aristotele, Etica Nicomachea, IV sec. a.C.
Se la vergogna è negli occhi, la colpa, tutta la colpa, è degli occhi. Ogni volta che mi guardo allo specchio e vedo questi occhi azzurri che il DNA di mia madre mi ha trasmesso, penso che è colpa loro.
È negli occhi, non nello stomaco, che nasce questa fame che mi tormenta, in questi occhi che tutti dicono bellissimi, da queste iridi cangianti che in certe ore del giorno – e con una certa luce – sfumano dal pervinca al violetto, due stelle che fanno innamorare perdutamente di me gli uomini e perdutamente me di certi oggetti.
Non riesco a spiegare bene – non so spiegarlo a me stessa né allo psichiatra che mi ha in cura – perché questa cosa mi accade, ma devo tentare di farlo per la sofferenza che mi prende ogni volta, e che ogni volta mi travolge l’anima togliendomi il fiato, quando sento che sta per succedere, quando avverto sul nascere questo appetito insaziabile che mi coglie di sorpresa, mentre sono intenta a leggere o mentre faccio una doccia. Ero al lavoro, l’ultima volta, ma può succedere tra le bancarelle del mercato o mentre mi guardo negli specchi di un grande magazzino. Non so mai quando arriverà; so che mi sento come una bambina disorientata, all’inizio, poi come un fuscello sbattuto dalla piena di un fiume, infine come una tigre pronta al salto.
È così che nasce, indistinta all’inizio, appena una sfumatura nella mente, ma si ingrossa velocemente e dilaga in ogni fibra del corpo e allora devo cercare nutrimento, e placare i morsi di questa fame prima che lei possa ridurmi a un grumo di carne angosciato. A questo punto sono loro, gli occhi naturalmente, che si mettono al lavoro, cercando in ogni direzione finché non trovano ciò che cercano. È da loro che parte verso il cervello il comando di far muovere la mano in una frazione di tempo infinitesimale, pari all’abbagliante velocità di un fulmine.
Non so dire quando è cominciato; guardando indietro non riesco a risalire a un momento preciso del passato, non riesco a individuare un giorno della mia vita in cui mi sono accorta di percepire, per la prima volta, questo lacerante languore. Mi pare di averlo avvertito per la prima volta soltanto ieri, ieri notte, quando il mio amante, nudo sul tappeto del soggiorno, mi sussurrava inutilmente all’orecchio, descrivendomele per farmi eccitare, in quali nuove e acrobatiche posizioni mi avrebbe presa. Ma invano, perché la mia mente era lontana da lui, dai suoi muscoli tesi, dalla sua voce suadente, lontana e in cerca di un altro godimento, inseguendo un altro desiderio, perdendosi tra bagliori rossi come lingue di fuoco e carezzevoli tocchi di pelle scamosciata liscia come seta e morbida come velluto.
Ma se apro un certo cassetto, nella mia camera da letto, i fatti mi dicono che non è così, che ieri notte non è stata la prima volta, che non è affatto una cosa nuova ma è in me da molto tempo, una cosa vecchia, una fame antica che si rinnova di continuo e non trova requie, un impulso che passa solo quando trova necessario nutrimento.
Lo psichiatra vuole che gli parli di me, della mia vita, del mio lavoro. Non so che dirgli se non che sono una persona normale, con una vita e un lavoro normali, una persona non infelice, che fa vacanze, ha amici, compagni di lavoro, vicini di casa. Una persona anche più fortunata di tanti altri, non solo perché non mi manca nulla ma perché ho sempre avuto anche il superfluo, bei vestiti, vacanze, una famiglia che ha sempre provveduto a tutto e ora uno stipendio che mi permette ogni agio.
Nello stesso tempo non ho particolari motivi per sorridere, per vivere con leggerezza, non posso comprarmi la felicità ma posso pagarmi le sedute dallo psichiatra, come per anni ho pagato quelle dallo psicanalista nella speranza di avvicinarmi a quello stato che gli altri chiamano essere felici.
La mattina, quando apro l’armadio per scegliere i vestiti da mettermi rimango quasi tramortita, e non dal numero esuberante di capi costosi acquistati nelle migliori sartorie – alcuni perfino firmati da famosi stilisti – ma perché non desidero indossarli. Perché li ho acquistati, visto che mettermi addosso quelli o uno straccio da mercato in quel momento non fa nessuna differenza? Eppure è così, ogni mattina.
Ogni mattina, ogni giorno, al posto del desiderio di indossare vestiti raffinati, di fare vacanze esclusive, di farmi epiche scopate con il mio amante, c’è invece questa cosa, questa fame maledetta che mi fa desiderare altro.
Ma io la rinnego questa fame, non fa parte di me, non mi riconosco nella donna che prova quell’impulso e di conseguenza agisce: quella persona non sono io.
Eppure… lo faccio, ne ho le prove, sono a casa mia, nella mia stanza, nel terzo cassetto del settimanile: quarantasette paia di guanti rossi.
A dire dello specialista che mi ha in cura ci sono comportamenti egodistonici; è il mio caso, dice lui, ed è per questo che sto male, dice sempre lui, perché la cosa che faccio ha una natura disarmonica e dissonante rispetto al mio ego, come se nella musica armoniosa del mio essere risuonasse a un tratto una nota stonata e stridente.
È così che accade: dopo un momento iniziale di smarrimento questa nota accresce intollerabilmente il suo volume, per effetto di questo suono sempre più forte il polso aumenta il battito, i bronchi si dilatano, le pupille si contraggono e un fiume caldo invade le vene gli organi e i tessuti del mio corpo. Quando infine il suono raggiunge l’apice del volume mi sento come un felino pronto al salto, una tigre affamata che tiene lo sguardo fisso sulla preda e contrae i muscoli degli arti prima di lanciarsi nell’assalto mortale. Basta un istante, e il pasto rapinoso è compiuto.
Furto, si chiama così. Quello che faccio mi angoscia, ma non posso liberarmi da un fantasma che si manifesta all’improvviso, un lemure che esce dall’ombra e afferrandomi con lunghe dita nodose fa sua ogni fibra del mio corpo, ogni mia capacità di controllo, ogni mia possibile opposizione. Sono totalmente preda di questa cosa potente che mi domina, stringendomi il cuore in un pugno di ferro, manovrandomi come un povero pupo inanimato, un misero e tragico burattino privo della capacità di determinarsi, una marionetta costretta a muoversi da una volontà che non è la sua, strattonata da fili che ne comandano gli arti… una bambola di cera che di vivo, e di suo, ha solo gli occhi.
A nulla vale il tormento che a breve ne segue, quando la coscienza si lacera tra la consapevolezza di un atto sconsiderato e la convinzione che sia stata un’altra a commetterlo, una sconosciuta. Una sconosciuta… ma l’angoscia stringe la mia, di gola, toglie a me il respiro e le lacrime sono mie, mio lo sconforto che mi schiaccia quando, anche soltanto per un solo istante, in quell’altra riconosco me stessa.
In quel momento penso che la vergogna che provo si riverserà nei miei occhi e che chiunque, incontrando il loro sguardo violetto potrà leggere, come in libro aperto, ciò che ho fatto.
Nella nebbia che accompagna la prostrazione del mio animo sono arrivata a pensare che la soluzione è solo una, la cecità, diventare cieca, accecarmi con le mie stesse mani, spegnere la luce di queste due stelle. Per non vedere, e non vedendo non desiderare.
Ogni volta è così, poi lentamente la disperazione si attenua e mi sento un’altra, torno alla vita, alle cene con gli amici, alla palestra, alle braccia del mio amante. Finché ancora una volta, d’improvviso, i miei occhi tornano a risucchiarmi in un vortice incontrollabile di desiderio e di fame.
Eccoli ora, li vedo sulla mensola a specchio del reparto Abbigliamento e Accessori; guanti rossi morbidamente ripiegati su loro stessi, le dita aperte a ventaglio, come una corolla. Un faretto ne esalta il colore, sembrano una rosa, vellutata, rossa, carnosa.
Ancora un istante
il cuore è un martello
solo un istante
le pupille si dilatano
è il momento giusto
la saliva inonda la bocca
la fronte è gelata
sono pronta
un fiume caldo scorre veloce nelle vene
ho fame
la tigre si accuccia e contrae i muscoli
si slancia sulla preda…
…sono miei.
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