di Vargas
Copertina di Wojtek Edizioni + Susan Orlok
Quando ho letto la sinossi di Tutto finisce con me (Gabriele Esposito, Wojtek 2022) ho subito pensato a un encore di Dissipatio H.G. (Guido Morselli, Adelphi 1985). Gli elementi c’erano tutti: un individuo nevrotico già in rottura col proprio mondo, che si trova improvvisamente solo.
Gabriele Esposito, come egli stesso ammette nei ringraziamenti del volume, ha formato la propria coscienza autoriale anche sulle riviste (tra cui questa) ed è proprio su queste pagine che avevo costruito due etti di aspettative nei confronti del libro.
Il protagonista della novella è un anonimo narratore inaffidabile in prima persona, blandamente sociopatico, pregno di una cultura manageriale che potrebbe provenire da riviste scientifiche come egli stesso sostiene, o da alcuni selezionati profili social che insegnano a essere un vero maschio alfa. Un incrocio tra il Patrick Bateman di American Psycho e il penoso depotenziamento di Ugo Fantozzi.
Sullo sfondo di un’occasione di avanzamento professionale, si trova a momenti alterni della vicenda in una versione disabitata del proprio mondo. Durante queste pause la vita degli altri va avanti senza di lui e qualsiasi idiozia compia ricade su qualche ignaro astante una volta che tutto torna al suo posto. Una pretesa abbastanza semplice, disattesa dal testo secondo le necessità. In origine i cambi avvengono coi cicli del sonno, producendo una piacevole simmetria tra i capitoli, per poi verificarsi quasi a comando, per privarci di scene che avrebbero potuto essere interessanti, tipo il colloquio di promozione con la terribile nuova arrivata delle risorse umane di cui non sapremo mai niente, perché a chi importa? Al protagonista no di sicuro.
Il primo peccato di questo libro è la prosa. Tutto finisce con me è ironico e piacevole. La scrittura è cucita con cura sul protagonista, la cui interiorità viene ridotta ad un continuo riferimento a riviste scientifiche su cui il poveretto orienta ogni propria decisione, routine ginniche e descrizioni ambientali incardinate su una profonda consapevolezza olfattiva. Non abbiamo quasi mai idea di che aspetto abbiano gli spazi del libro ma conosciamo per certo il loro odore. Il peccato risiede nel fatto che una voce del genere è stata messa a disposizione di una narrazione così debole.
Il tema cardine della novella è la scelta di fronte alla quale viene posto il protagonista: restare nel proprio mondo corporate tossico e competitivo o scegliere una solitudine più autentica per la natura di un essere umano. Peccato che ogni elemento operi per depotenziare questa dicotomia.
La vita del protagonista è scialba e superficiale, ma solo perché lui stesso è scialbo e superficiale. Non ha hobbies, connessioni umane vere e proprie o obiettivi che non siano riportabili su un organigramma aziendale. Potrebbe cambiare vita in qualsiasi momento e non lo fa. Senza considerare che l’organizzazione del testo come monologo inaffidabile lascia trasparire il dubbio che non sia il mondo a essere orribile: non sono gli altri a essere l’inferno, ma la narrativa interiore del Nostro. Gli stessi elementi traumatici che affronta ne escono afflosciati: la morte di una madre presentata come già malata e con poco da vivere; il divorzio da una donna descritta meramente in termini di tagli di macelleria.
E dall’altra parte? La possibilità dell’eremitaggio in letteratura non è esattamente nuova: ci pone di fronte al dilemma di abbandonare gli agi della vita comunitaria, le vite di coloro che ci amano, imparare a bastare a sé stessi. Qui Esposito decide di rendere tutto il più semplice possibile: il mondo continua a esistere a pieno regime, ogni angolo è manutenuto da forze invisibili e il nostro posto nelle vite degli altri viene preso da un doppio molto più competente di noi. Persino l’eremitaggio si fa del tutto simbolico. Il protagonista è solo unicamente quando gli pare, mentre passeggia nudo per strada o urina in tutti i luoghi che non poteva permettersi prima, mentre quando gli va un po’ di compagnia non manca di manifestarsi qualche individuo che immancabilmente lo apprezza: tutti oggettificati nel giro di poche righe. L’unica cosa che pare collegare i due mondi sembra essere Tinder, non sia mai il nostro protagonista rimanesse senza sacchi di carne da trattare con condiscendenza prima della penetrazione. Senza contare che senza questo elemento fantastico si sarebbero potuti affrontare praticamente gli stessi temi.
Perché quindi, io lettore, dovrei essere coinvolto nella vicenda di un uomo diviso tra una situazione che a conti fatti gli dovrebbe andare molto peggio e una facile scappatoia da qualunque problema?
Un’ulteriore critica possibile per questo libro è l’anno in cui è stato scritto. Sulla nostra epoca se ne possono dire d’ogni, ma non che non abbia aperto possibilità infinite su come vedere e valutare le nostre esperienze e quelle degli altri. I social network si sono rivelati (sorpresa) nulla più che uno strumento, la cui pericolosità varia in base a come vengono utilizzati, gorghi soffocanti di edonismo autoerotico o mezzo per creare comunità; il disagio intrinseco del nostro modo di vivere nel tardo capitalismo apre a floridi dialoghi per immaginare mondi nuovi o stili di vita alternativi; l’ultimo decennio soprattutto ci ha messo di fronte alla ricchezza narrativa che risiede nell’interazione tra identità ricche, complesse e autocoscienti, il crollo di quell’atomismo scemo da cui però pare si faccia una gran fatica dall’affrancarsi.
Nelle novità del 2022 invece ci tocca ancora il soliloquio di qualcuno che sta benissimo nella propria gabbia (nemmeno chiusa) e in virtù di ciò gli viene anche offerto un biscotto.
Non rimane che chiedersi come sarebbe stato più efficace scrivere questa storia, perché una volta rimosso il dispensabile elemento fantastico e purgate le 150 pagine scarse di inutilità, ripetizioni e del trito discorso social cosa resta?
Un dignitoso racconto di psicosi aziendale anni ’80.
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