di Vargas
Copertina di Dario Faggella per Aguaplano + Susan Orlok
18 Settembre 2021, Firenze Rivista: mi alzo da un muretto e mi si straccia la gamba sinistra dei jeans. Tra questo e il cappotto dell’esercito preso per due euro al mercato, sembro contemporaneamente il reduce di qualche fallimentare missione NATO e uno sprovveduto entrato alla prima edizione di Woodstock per mai più tornare. Molti degli astanti mi osservano indagatori, non per paura o sospetto, ma valutando se chiedermi a quanto metto una canna.
Orbito il banchetto di Aguaplano, cercando di convincermi che sì, ce li ho i soldi per prendermi un altro libro, a che mi servono due pasti al giorno? Alla peggio do due mozzichi a Spiedo e la giornata la svolto.
È in queste condizioni che Davide Pairone, squagliato sulla sua seggiolina tra la pace e la rassegnazione, mentre gli allungo Blackened che ancora sta là che aspetta di essere aperto, controbatte donandomi una copia di Agnello Leone Maiale Scimmia, di Dario Faggella (di qui in poi ALMS).
“Vedi, che ti piace”, ha aggiunto. Io all’epoca nemmeno le scrivevo tutte queste recensioni.
Ora ho capito, Davide. Ora ho capito.
Gira molto nel nostro campo la convinzione che la letteratura non debba avere alcuna utilità, che debba essere apolitica. Che le storie non debbano insegnare nulla e che l’unica cosa davvero centrale sia l’esperienza estetica. Questa è a sua volta una scelta politica che in media nasconde blande posizioni reazionarie o il desiderio di raccontare shock value d’accatto per fingere pose controculturali.
Poi però arriva ALMS che davvero non serve a nulla, che ancor meno vuole insegnarti qualcosa e finisce comunque a essere un’esperienza profondamente politicizzata. Insomma, non si scappa.
Il libro viene presentato da Aguaplano come “un’autobiografia iperbolica” ma è piuttosto una confessione dell’autore che ci espone la sua inadeguatezza come un dato di fatto, mantenendo tutto il tempo il contatto visivo e senza chiedere perdono o pietà. Essere il Faggella fittizio del libro è solo una questione di cui prendere atto, non si può essere tutti eroi epici o tragici, qualcuno prima o poi deve pur finire ubriaco su una panchina a bere Tavernello.
A differenza del più consueto filone di storie sugli ultimi della società, il libro racconta di un “ultimo di ritorno”, qualcuno nato coi mezzi materiali per condurre un’esistenza produttiva all’interno del capitalismo, che finisce per scivolare tra le sue crepe, in uno stato di malinconica abiezione trasfigurata in punto d’orgoglio.
La scrittura ha una grana senza tempo, con un lessico bizzarramente desueto. Se non vi fossero saltuari riferimenti ad elementi di modernità (un’automobile, il gabbiotto di un’antenna televisiva) potremmo cadere nell’errore di star seguendo le disavventure di un qualche picaro d’altri tempi. Ogni tanto si appella persino al lettore, chiedendogli pazienza o comprensione e creando un chiaro cortocircuito ironico che ritma la lettura.
Faggella si scusa, ma non lo fa davvero, perché in fondo non ce n’è bisogno.
“Mi capita spesso di leggere invettive contro gli imbecilli, accompagnate al disprezzo che inesorabile cala su di essi, e mai un pensiero indulgente al dramma dei cretini consapevoli di esserlo. Dico ciò perché faccio parte di quest’ultima categoria […] Ma tant’è. Accetto il mio fato con la sicumera religiosa di un eroe greco”.
Parlare di ALMS in generale è abbastanza complicato, perché non c’è davvero molto da dire. Gli episodi raccontati sono sconnessi e inconsequenziali, giornalieri fino all’esasperazione. Siamo lontani dalla straziante precisione dell’autofiction, che cerca di rimettere a posto il razionale di una vita che in linea di massima non vanta unità narrativa. Faggella racconta i fatti propri con la confidenzialità di una chiacchiera a tarda notte al bar con qualcuno che non conosciamo, ma che dopo la terza birra potrebbe essere nostro fratello. Il valore del racconto sta nella disconnessione del testo, nel quotidiano, nelle bizzarrie di un punto di vista che ha qualche minuto di svantaggio sulla realtà e ha abbandonato qualsiasi pretesa di coerenza, tanto che nella ricostruzione della propria vita a un certo punto l’autore decide di saltare a piè pari la vecchiaia e arrivare direttamente alla morte, che gli interessa di più.
Per lo stesso motivo è anche difficile offrire una valutazione convenzionale.
Giunto alla fine di queste 190 pagine sono consapevole che non avrei mai scelto spontaneamente un libro del genere, ma non c’è stato un momento in cui non abbia provato empatia, o divertimento. Ho persino riso, nel sincero allarme dei presenti, finché non mi sono accorto di aver fatto qualcosa per il puro gusto di farla.
Invece di perdere tempo, me lo sono preso, scivolando in quelle stesse crepe dove nessuno si aspetta nulla da noi.
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