di Filippo Avigo
Copertina di Maria Rosaria Longo
Sono un essere ibrido, mezzo pensionato e mezzo capriolo. O daino, camoscio, non so neppure io, qualcosa di simile a un centauro in là con gli anni e avvezzo ai boschi. E devo recuperare i soldi prima che quei bastardi me li fottano, ma li ho nascosti così bene, qui nel mio appartamento di montagna, che neppure ricordo dove sono. Cercarli non è facile, queste dannate zampe da ungulato fanno un gran casino e io mica posso stare qui a scalpicciare finché arrivano gli stronzi. Figli e nipoti intendo, che ormai mi sono alle calcagna e non vedono l’ora di arraffare i miei pochi risparmi, accumulati spezzandomi la schiena per una vita intera.
Cerco anche in bagno e persino in ripostiglio, ma non c’è proprio verso di trovarli. Presto i farabutti saranno qui, mi pare di non avere più speranze. Però, penso, se non li trovo io non è che per loro sarà una passeggiata. Quindi, provo a consolarmi, è meglio lasciar perdere e scappare. Potrò sempre tornare tra qualche settimana, con le acque più calme e, si spera, il parentame meno assatanato.
Esco sul pianerottolo e mi avventuro goffamente sulle scale, scivolo con gli zoccoli su ogni gradino, ansimo fino all’atrio e trovo, accidenti, il portone chiuso. Con le zampe non riesco ad aprirlo, mi tocca proseguire fino all’interrato, fiancheggiare poi le cantine e i garage che trasudano l’umidità del bosco. Arrivo alla rampa e risalgo in cortile senza quasi respirare. Rimetto il naso – non il muso, mi è rimasta la faccia da pensionato – all’aria aperta e trovo ad attendermi una pioggia leggera e un bizzarro quintetto di fiati in miniatura. Faccio fatica a sentirli e pure a vederli, sotto l’acqua le loro sagome s’intuiscono appena. Per cogliere qualche nota – e capire chi sono – mi avvicino con selvatica cautela.
Non me l’aspettavo, i miei debosciati nipoti sono schierati al gran completo, stravaccati di sghimbescio su scomode sedie da campeggio; tutti impegnati a massacrare chissà quale sonatina, per colpa di quella balorda idea che si sono messi in testa i miei figli. E cioè che la musica fa bene. Ma che aiutassero in casa, piuttosto, o lavorassero almeno durante le vacanze… Macché. Solo studio, gioco e musica, finché sono piccoli. Così hanno sempre detto i loro genitori. Già. Studio, gioco, musica… e soprattutto cazzeggio, aggiungevo io. Tanto, quando saranno grandi, potranno divertirsi a dilapidare i risparmi del nonno.
Alle sanguisughe quello che penso e dico non è mai interessato, e pure della pioggia non gliene frega niente; continuano a suonare zuppe d’acqua, assorte e senza vergogna, non s’interrompono neppure per dire ciao nonno. Sarà che non è forse la situazione ideale per succhiarmi sangue e denaro, ma davvero i piccoletti non danno la sensazione di essere minacciosi. Solo che io mica mi fido troppo; mi avvicino quindi molto adagio, con l’ansia timorosa tipica degli erbivori.
Sono ormai a pochi passi quando smettono di suonare. Prima che io riesca a reagire si alzano di scatto, mentre gli strumenti si trasformano in cerbottane. Tutti e cinque ci soffiano dentro con rabbia, un nugolo di frecce mi si conficca negli occhi e sulla fronte. Mi accascio a terra con il capo straziato di ferite, gli infami mi circondano ridendo sguaiati.
Dall’incubo mi sveglia un dolore lancinante, accompagnato da un suono che sembra una risata. Una lama di luce filtra tra gli scuri, colpisce il principio di cataratta che mi offusca gli occhi, mescola male e paura come se davvero avessi qualche freccia piantata nella testa. Il suono acuto si ripete più volte, ci metto un po’ a capire che è il citofono.
Chi me l’ha fatto fare di venire quassù, mi chiedo, volevo solo passare qualche tempo senza rompicoglioni intorno, ma se arrivano anche qui è davvero inutile. Eppure il paese è ormai deserto, le case sono tutte in vendita da almeno vent’anni e io sono l’unico cretino che ne ha comprata una. L’ho pure pagata troppo, però non m’importava, pur di vivere qualche tempo all’ombra di questa montagna, godermi il fresco e il silenzio del borgo abbandonato senza la scocciatura di parenti e conoscenti. Mi accontentavo di vagare senza meta tra i faggi e gli abeti, piluccando frutti di bosco in compagnia di animali selvatici quasi quanto me.
Vorrei non rispondere, far finta che in casa non ci sia nessuno, ma non ce la faccio, fare il maleducato proprio non mi va.
«Chi è?» chiedo, con tono nemmeno troppo burbero, nonostante il mal di testa e la rottura di coglioni.
«Buon compleanno, nonno!» chiocciano i nipoti, mentre un rigurgito maligno mi sale dallo stomaco.
«Ciao papà, saliamo solo un attimo per farti gli auguri!» rincarano la dose i miei figli, a cui fanno eco le vocette delle nuore.
«Che piacere, salite!» replico con le mascelle serrate, evitando di aprire il portone e cercando in qualche modo di prendere tempo.
«Non ricordavo che il mio compleanno fosse oggi» aggiungo, con voce rauca e un po’ spezzata. Il terrore mi paralizza, se questi debosciati mi entrano in casa sono fottuto, come minimo mi lasciano in mutande. Provo a farmi coraggio e tento l’unica via di fuga: esco sul pianerottolo senza fare rumore, poi mi muovo adagio sugli scalini, scendo in garage e risalgo con cautela la rampa. Mi fermo un attimo, guardandomi intorno impaurito; per fortuna non vedo nessuno, devono essere tutti ancora all’ingresso, ad aspettare che gli apra il portone per farli salire.
Attraverso il prato sul retro del condominio con falcate accorte, fiutando il pericolo nell’aria. Ancora pochi metri e raggiungo il limitare del bosco. Supero con un balzo un arbusto di biancospino, poi mi allontano agile e silenzioso tra gli alberi, affondando gli zoccoli nella terra umida che sale verso la montagna.
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