di Luca Skuyatulek
Copertina di Roberta Delitala
“Libero Trementini (1955, Vergato), pittore. Esponente minore del cosiddetto ritorno alla pittura.” Così ne parla, con il tono stringato e indifferente con cui tratta centinaia di altri artisti locali, il Catalogo ragionato degli artisti bolognesi del Novecento. Il Catalogo è un po’ vecchio, e infatti non vi è riportato che Libero è venuto a mancare nell’inverno del 2020, per una polmonite. Se io lo so, è perché Libero era il mio vicino di casa.
Ci vedevamo, oltre che quando portavo a spasso il cane o uscivo a buttare la spazzatura, anche al bar. Lui prendeva sempre un caffelatte e una girella, nonostante il dottore gli avesse proibito caffeina, latticini e dolci. Un paio di anni fa, quando smisi di trovarlo al bar, pensai che avesse finalmente cominciato a seguire i consigli del dottore.
Invece, quando glielo chiesi una volta che stavo portando a passeggio Mosé, mi disse che aveva semplicemente cambiato bar.
«E dove vai ora?» gli avevo chiesto, anche se sapevo già la risposta, perché c’era solo un altro posto dove fare colazione nelle vicinanze.
«Al bar del centro sociale».
Il centro sociale non era, come potrebbe suonare, il centro anziani; era la villa dei Pasini, occupata dagli anarchici. Lì, almeno, aveva detto, la colazione era a offerta libera. Era una questione di soldi, quindi. E lui, a soldi, era messo male.
Quello che infatti il Catalogo ragionato non menzionava, è che verso la fine degli anni novanta Libero aveva accettato un posto al Liceo Artistico di Bologna, soprattutto perché, a quanto pare, non riusciva più a vendere nemmeno un quadro. I primi dieci anni erano scivolati via abbastanza piacevolmente, ma poi la noia, il demansionamento (era un artista innamorato della matericità della pittura, ma, siccome c’era un nuovo corso da aprire, l’avevano messo a insegnare grafica al computer) e anche, a suo dire, la crescente mancanza di passione delle nuove generazioni di studenti, l’avevano condotto vicino all’esaurimento nervoso. «Mi hanno tolto persino il gusto di dipingere» era solito ripetermi, e io non capivo se si riferisse ai ragazzi o a chi lo aveva assegnato al corso di grafica. Nel 2016, quasi senza contributi, avendo da parte quello che può aver messo da parte un insegnante del liceo artistico, aveva mollato tutto. Da allora avrebbe vissuto facendo l’elemosina se non ci fossi stato io a comprargli vecchi quadri invenduti. Vecchie croste, per lo più. Non mi sarei mai aspettato che si rimettesse a dipingere, a più di sessant’anni.
E adesso l’ultima stranezza: la colazione dagli anarchici. Dopo esserlo venuto a sapere, ogni volta, prima di scendere per portare a spasso il cane o buttare la spazzatura mi assicuravo dallo spioncino che la via fosse libera, per paura di incrociarlo.
Noi, le Quokke Isterike, eravamo un collettivo anarchico, piculo ma carataristico, come diceva Maja, che aveva imparato l’italiano a colpi di trash su youtube (anche per colpa mia), ed era la prima volta che occupavamo. Eravamo solo in quattro: Lady Godiva, la graffittara transgender, Kavinda, il melovandalo elettronico, Maja la tesoriera polacca ed io, il cissettete di turno.
Uno dei motivi per cui avevamo occupato era perché così Lady Godiva, diciott’anni appena compiuti, non avrebbe più dovuto stare con i suoi genitori. Anche Kavinda era entusiasta. Sospetto che lui non vedesse l’ora di avere un posto dove avrebbe potuto esibirsi live, dato che nessuno a Bologna voleva saperne di “kavindawless”, il suo progetto di musica elettronica. Maja, dopo aver protestato nel duemilasedici a Varsavia, era molto carica. Scherzando ma non troppo, diceva di sentirsi “una Garibalda, l’eroina dei due mondi”. Io, invece, me la facevo sotto. Sapevo solo disegnare animali e mostri (“ero un pirla”, per dirla con gli Uochi Toki) e avrei preferito che il nostro collettivo continuasse con il progetto di fare una fanzine, di cui avevo già pensato persino il titolo, “Quantunque le Quokke”. Occupare mi metteva un po’ di ansia.
Avevamo occupato una villetta disabitata alla periferia di Bologna, dal cui terrazzino si vedeva il fiume Reno e la basilica di San Luca. La gente del luogo, avrei poi scoperto, la chiamava la casa delle bambole, perché quarant’anni prima dentro si potevano trovare delle bambole decapitate. Non so se è vero, noi non abbiamo mai trovato niente del genere, ma solo qualche vecchio numero di Grazia, di Alan Ford e Lupo Alberto.
La casa, a due piani, aveva un giardino davanti e uno sul retro. Dentro aveva un camino che, dopo esserci affumicate un paio di volte senza grandi risultati, eravamo riuscite a mettere in funzione. Avevamo messo delle brande e, nel giardino davanti alla casa, delle sdraio e dei tavolini. Avevamo persino messo su un baretto vegano a offerta libera.
Quando Libero cominciò a venire da noi, nessuno sapeva chi fosse. Veniva, come anche altre persone della zona, per la colazione. Il giorno che mi vide mentre disegnavo, seduto vicino a lui al baretto, mi chiese cosa stavo facendo. Glielo dissi.
«Un fumetto? Di che tipo?»
«È un fumetto sul G8 di Genova».
«Oh».
Disse solo “oh”, ma non sembrava essere molto colpito. Guardò il suo caffelatte che si raffreddava e poi tornò a guardare me e mi chiese:
«Ma non sei un po’ troppo giovane per esserci stato?»
Aveva ragione. In più – protetto dalla mia ignoranza non lo sapevo – c’erano tonnellate di fumetti sul G8. Ammisi la mia età e gli chiesi se lui ci fosse stato.
«No», mi rispose, «in quegli anni ero così preso dal mio lavoro che non avevo la forza di fare nient’altro».
«Ah, e che lavoro facevi?»
«Insegnavo al Liceo Artistico».
«Ah».
Non sapevo veramente come reagire. I miei lavoravano nella ristorazione e non avevo mai pensato che lavorare all’artistico potesse essere così spossante.
Allora mi disse, senza problemi, che si era licenziato da poco ed era proprio per quello che non poteva più permettersi di fare colazione al bar normale.
«Ma perché ti sei licenziato?»
«Volevo tornare a dipingere».
«E non potevi…»
«No. Non riuscivo più a dipingere. Ormai da anni».
«E adesso va meglio?»
«Non lo so. Ancora niente. Sono come stitico. C’è anche da dire che devo decidermi a comprare le tele. Forse se salto un paio di pasti potrò permettermele» e ridacchiò tossicchiando, come se quella situazione avesse qualcosa di comico.
Cercando il suo nome su internet, venne fuori una pagina di wikipedia e questo, ai miei occhi, gli dette l’autorità di un pittore vero (erano i miei primi giorni da anarchico, e non avevo ancora sconfitto, in me stesso, la necessità di affidarmi a un’autorità).
Certo, la pagina durava una riga: “Libero Trementini (1956, Grizzana Morandi), pittore, esponente minore della Transavanguardia” e riportava la dicitura “Questa pagina è solo un abbozzo”, ma comunque c’era, e aveva pure le note, o meglio, una singola nota rimandante a un’intervista del 1980 in cui Libero diceva di essere nato in tal posto e in tal anno.
Qualche giorno dopo parlai con le altre Quokke Isterike e decidemmo di mettere insieme un po’ di soldi per comprargli del materiale. Comprammo sei tele, di dimensioni diverse, e gli acrilici (solo mesi dopo la sua morte, vedendo gli altri suoi quadri in una retrospettiva, capii che forse avrebbe preferito usare l’olio – ma che ne sapevo io di pittura) e una mattina gliele portai io mentre si era appena seduto con il caffelatte. Seduta di fronte a lui, sorseggiando un tè, c’era una signora sui sessant’anni dai capelli rossi, che mi sembrò subito bellissima nel suo cappotto color cammello pallido.
«Non pensavo mi sarei mai abituato al latte finto» le stava dicendo, «invece questo d’avena è buonissimo».
«Oh, cos’hai lì, Olmo?» chiese a me. «Olmo, vieni qua, ti presento una mia amica. Lavorava con me al Liceo. Stella, questo è Olmo. Non è uno stracciamaroni come i nostri ex-studenti».
«Ma dai, Libero, non esagerare…»
Poi vide che avevo in mano qualcosa. Mi guardò negli occhi da sotto le sue sopracciglia spesse e ancora nerissime.
«Ti ho portato delle tele. A nome di tuttu».
«Soccia, che roba…» disse, sfilandomene una dalle mani. «Che roba, non dovevate. E quanto vi devo?»
«Niente, non ci devi niente».
«Ma come…»
La sua collega lo interruppe toccandogli l’avambraccio con la mano: «’Scolta, Libero, ora ti tocca ricominciare a dipingere. Non hai più scuse».
«Eh, sembra di no. Ma allora un po’ stracciamaroni lo sei anche tu, caro Olmo».
E così ricominciò a dipingere. Veniva alla mattina, prendeva il suo caffelatte e si metteva in giardino a dipingere fino a mezzogiorno. A pranzo prendeva un altro caffelatte e una brioche vegana, chiacchierava un po’ con noi e ricominciava a dipingere fino alle quattro, quando ci salutava tuttu e tornava a casa. Non volle mai prendere le tele a casa con sé; in qualche modo, l’istinto gli diceva che quelle tele non erano veramente sue. Anche quando cominciò a usarle, ogni tanto ci chiedeva: «Ma siete sicuri che non volete farci qualcosa voi?» oppure diceva «Va beh, se poi non vi piace ci dipingete sopra». Da quest’ultima frase si capiva che, anche una volta finiti i quadri, non avrebbe voluto portarseli a casa, né che finissero in un museo.
Cinque di quelle tele erano ritratti. Dipinse, uno dopo l’altro, i volti di noi Quokke Isterike. C’ero anch’io, con un viso molto più interessante di quello che vedo ogni giorno nello specchio. Gli dicevo che non doveva farlo, che non eravamo dei mecenati e non pretendevamo nessun ritratto.
«Ma sai, Olmo, è più facile per me così. Cioè, capisci, sbloccarmi. Ho un punto di partenza, e ho anche un buon motivo per farvi, così non devo sprecare troppo tempo ed energie mentali sulla scelta del soggetto».
«E il buon motivo quale sarebbe?»
«Che siete tanto carinu», disse sghignazzando, e poi tossendo, e maledicendo la madonna, dio e la tosse.
Era ottobre, e Libero stava finendo l’ultimo dei nostri ritratti. Maja mi disse che in Polonia avevano ripreso a protestare. Il Tribunale Costituzionale aveva reso l’aborto praticamente impossibile e, nonostante il governo usasse la pandemia per rendere illegale l’organizzare le manifestazioni, la gente lo faceva lo stesso. Ci sembrò giusto, a noi Quokke Isterike, mandare una delegazione a Varsavia.
«Tutti non possiamo andare» dissi io.
«Certo che no», disse Kavinda, «questo posto qua deve rimanere aperto».
«Allora, penso che, oltre a me, ovviamente» disse Maja, «dovrebbe andare una persona che tanto non è molto brava a fare nulla di pratico. Di cui non si senta qui la mancanza».
«Stai pensando a me?»
«Certo, che sta pensando a te, Olmo», intervenne Lady Godiva. «Pensaci: sai accendere il camino? No. Sai fare i cappuccini? Non mi sembra. Sai giocare a carte?»
«…»
«Esatto. L’unica cosa che sai fare, oltre agli utilissimi disegnetti, è parlare inglese. Insomma, sei perfetto per essere spedito in Polonia. Poi siamo sicuri che essendo un po’ un fifone, non correrai grossi rischi e in un paio di settimane sarai di nuovo qui, perfettamente integro nella tua simpatica inutilità».
«Va beh, grazie».
«Ecco il vincitore assoluto per la categoria pippe», soggiunse Maja porgendomi un microfono invisibile «Come ci si sente dopo la vittoria?»
E così andai con Maja. Per due settimane, complici anche simpatiche discussioni con i poliziotti che non avrei dovuto avere (“non dirgli nulla!”, mi avevano avvertito, ma come si fa!), conversazioni brillanti con Maja in versione ipercitazionistica (“La municipale fa le multe, dai, ma con la polizia in tenuta antisommossa c’hai paura”) e visite al museo nazionale e alla Zachęta nei giorni gratis, mi dimenticai abbastanza delle altre Quokke e della villetta occupata con Libero che dipingeva in giardino.
Tornate dalla Polonia, io e Maja vedemmo ubito, avvicinandoci alla casa occupata, che tutti i muri del quartiere erano coperti dalla scritta Godiva. Cazzo, pensai, con banale fallocentricità. Ovviamente quel pomeriggio ebbi con la nostra amica un confronto pacato e costruttivo:
«Godì, potevi almeno fare dei bei disegnini, così i borghesi della zona apprezzavano. Solo scritte?»
«Ma stai zitto, fumettaro. Ero in vena di tag, lo sai che se non faccio almeno dieci tag al giorno mi sento male. Te non puoi capire».
«Come ti senti male?»
«Ma sì, mi sento di non aver vissuto. Ma te non puoi capire».
«Ma cristo, Godì, siamo qui da un mese, tu hai taggato tutti i muri nell’ultima settimana – a chi credi che daranno la colpa?»
«Per me a Libero, è lui l’artista locale. E ha superato la stitichezza».
In effetti, i ritratti di Libero erano finiti ed erano lì, nel salotto del caminetto, appoggiati contro due pareti. Uscii nel giardino sul retro, coperto di foglie gialle, rosse e marroni e lo trovai lì, davanti al cavalletto, che fissava il colle di San Luca. Mancava forse mezz’ora al tramonto. Guardava il paesaggio e guardava la tela, ancora bianca.
Era una tela rettangolare molto larga, che sembrava fatta per contenere un paesaggio, o magari un nudo di una persona sdraiata.
«Come è andata in Polonia?»
«Bene. Non lo so, ho preso una multa».
«Ahah, ma bravo. Allora non sei così timidino come sembri».
Arrossii, ma lui non mi vide. Continuava a guardare il paesaggio e la tela, la tela e il paesaggio.
«Come va qua?»
«Beh, i ritratti li ho finiti. Non sono granché, ma non importa. Potete sempre dipingerci sopra, o usarli per il camino».
«Ma cosa dici? Sono bellissimi». Preso dalla discussione con Lady Godiva, non li avevo veramente guardati bene.
«E fai qualcos’altro?»
«Sai, ho notato una cosa che mi fa impazzire» disse, questa volta girandosi, guardandomi per la prima volta dopo due settimane.
«E l’ho notata stando qui a sera inoltrata; cosa che non avrei mai potuto fare se dovessi svegliarmi alle sette per andare a scuola».
«Che cosa?»
«Che il cielo al buio è comunque più chiaro del colle. È come quella frase: “Neri già sono i boschi, ma il cielo ancora azzurro”. Il colle è un terra di siena mischiato a del blu, a del verde scuro. Il cielo è un blu con momenti sorprendentemente chiari. Lo voglio fare».
Così, quella sera, si mise a dipingere il notturno. Per me vederlo lavorare era sorprendente. Ero sempre stato titubante nei miei fumetti. Non mi azzardavo a far nulla su cui non avessi il completo controllo. Non facevo splash page, non mi avventuravo in prospettive rischiose. La luce, per semplificare le ombre, nei miei fumetti veniva sempre e ironicamente da destra. Non usavo la china liquida, ma i rapidograph o i pennarellini, poi scansionavo tutto e usavo il secchiello di Photoshop per fare le campiture nere più grandi. Libero, invece, sembrava non avere limiti, né timori. Per esempio, un altro pomeriggio, prese una foglia secca dal giardino e la incollò alla tela, nello spazio dove stava dipingendo il colle. Poi cominciò a colpirla con la parte dura del pennello, senza nessuna riverenza o paura di rovinare quello che aveva appena fatto. Cominciò a frantumarla, a pressarla, a renderla irriconoscibile e parte della mistura di pigmento, terra e colla che cominciava ad essere il suo quadro. Passando vicino al quadro in seguito, si poteva notare che c’era qualcosa di materico, qualcosa che non era fino in fondo acrilico, ma non era chiaro a un primo sguardo cosa fosse. Bisognava avvicinarsi molto, per vedere intrappolata nel colore la foglia, le sue venature, il picciolo straziato.
Intanto, il suo quadro, per l’oscurità dei toni scelti da Libero e per la mia ignoranza grazie al quale le due, tre tele che avevo visto nella vita mi sembravano tutte più simili che diverse, mi ricordava un dipinto che avevo visto al Museo Nazionale di Varsavia. Glielo dissi:
«Sai, c’è questo quadro, molto buio, con tre cigni che dormono. E il primo cigno, quello in primo piano, sembra un vero cigno, un cigno con tutti i crismi. Il secondo è un po’ più sfumato ma sembra ancora un animale. Il terzo, invece, sembra una nuvola di vapore».
Mi chiese se avevo una foto, ma poi, quando gliela mostrai, deluso dalla qualità dell’immagine, mi chiese solo di continuare a parlargliene, mentre beveva un caffè, mentre camminavamo per il giardino facendoci largo tra i mucchi di foglie, mentre dipingeva.
«Interessante» diceva, quando a me, magari, era sembrato di aver detto un’ovvietà. «Quindi, mi stai dicendo…» aggiungeva, esprimendo un concetto che non mi era nemmeno passato per la testa «…che questo quadro, secondo te, è al tempo stesso sia realistico, con il primo cigno, che astratto, con il terzo cigno/nuvoladivapore».
Il quadro era quasi finito, quando vide per terra, in giardino, una bomboletta arancione che aveva lasciato Lady Godiva. La guardò un po’, la scosse, e poi, imitando il gesto che aveva visto fare da Godiva nelle settimane in cui io e Maja eravamo stati in Polonia, sprayò sopra il suo quadro, all’altezza della cupola di San Luca.
«Oddio, e perché?» gli chiesi io, che non capivo niente di queste cose.
«Boh, non lo so», mi disse lui, con un’espressione sul volto che sembrava perplessa del suo stesso gesto. «Però guarda, ora San Luca va a fuoco. Com’è che dite voi? Le chiese, lo sappiamo, si chiudono col fuoco, ma con i preti dentro se no è troppo poco?» e si mise a ridere tossicchiando.
«Sai…», disse dopo un po’ interrompendo il silenzio in cui stavamo tutti e due guardando il suo dipinto e il segno lasciato dallo spray, una striscia arancione nel cielo blu, «…in un vecchio bootleg dei Doors, a un certo punto, durante When the music’s over, Jim Morrison, che dovrebbe dire “We want the world and we want it now”, e tutto il pubblico se lo aspetta, lui caccia un rutto. Un rutto».
Continuavo a guardarlo, senza capire.
«Non lo so, fa un po’ ridere. Ma ho anche sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa del genere, a livello visivo. Ora, con questo non voglio offendere chi fa i graffiti, si capisce. Godiva, si firma Godiva la tua amica no? Godiva la bomboletta la sa usare, ovvio. Io no. In mano a me, escono solo dei rutti. E questo quadro, non lo so, prima mi sembrava un po’ troppo carino. Andava sporcato, ma non con la foglia o la terra che comunque ci sta… andava maltrattato, stonato… non so se mi capisci».
Annui, ma non lo capivo. Rientrai, e mi misi a passare il pennarellino sul fumetto sulle proteste polacche che stavo ultimando, la mano che mi tremava per la paura di andare fuori linea.
La mattina dopo Libero ci annunciò, mentre prendeva il suo caffelatte, che il quadro era finito. Decidemmo di fare una mostra. Kavinda ci propose di renderla “un evento multimediale”, un termine con il quale ci comunicava la sua intenzione di spaccarci i timpani con la sua musica. Ci sembrava rischioso fare rumore, dopo la storia dei graffiti. Ci sembrava rischioso, ma anche giusto.
Vennero a sgomberarci il pomeriggio dopo la mostra-concerto. Qualcuno doveva aver chiamato gli sbirri la sera prima e loro erano venuti a risolvere il problema con i loro tempi. Pioveva. Dopo i primi annunci dei poliziotti, decidemmo che non saremmo usciti fino a quando non ci avrebbero portati via di peso. Era una domenica. Libero era venuto lì per aiutarci a pulire e decise di rimanere con noi. Non so se fu il freddo pieno di spifferi di quella casa, ma quando la mattina di lunedì la polizia sfondò la porta e ci tirò fuori di peso, Libero già starnutiva e tossiva malamente.
Mentre eravamo lì, la notte, sotto assedio, nel buio screpolato unicamente dalla luce lunare che filtrava dalle finestre, dopo che la polizia ci aveva tolto la corrente, ricordo che guardai Kavinda e poi guardai Libero, poi guardai Maja e riguardai Libero, poi guardai Godiva e, per la terza volta, guardai Libero. Dissi:
«Forse dovremmo darla su».
E Maja guardò Libero, che stava vicino alla finestra a braccia conserte.
«Non guardate me», disse lui. «Io non me ne vado».
Poi, dopo essersi passato la lingua sulle labbra, come cercando la motivazione giusta: «Qui ci sono i miei quadri. Chissà cosa ci farebbero quei gorilla, se non ci fossi qua io».
Il suo tono era fermo, ma tranquillo. Mi sembrava più tranquillo di noi. Sicuramente era più tranquillo di me.
Ecco, mia moglie mi ha convinto a venire qui, a vedere il quadro, l’Incendio infinito, di Libero, in un museo del centro. Siamo dovuti venire in macchina, e ci ho messo un’ora a trovare parcheggio. Beh, che dire. Il quadro non sarebbe malaccio. Ora, io preferisco gli impressionisti, certo. Anzi, preferisco il barocco, o il manierismo, o i macchiaioli, o la scuola bolognese dei Carracci. Il suo stile è un po’ piatto, poco vibrante, troppo buio, per essere un pittore di mio gusto. Un giovane barbuto e una vecchia dai capelli rossi – sarà sua madre, ormai si fanno i figli sempre più tardi – in un cappotto color cacchina discutono del quadro vicino a noi. Lui le dice che gli ricorda, come colori, un quadro di Pankiewicz, I cigni addormentati. «A parte le fiamme», si affretta ad aggiungere, vedendo la faccia stupita della vecchia. «Anzi, no», ci ripensa. «Ma certo. Il realismo e l’astrattismo, l’informale insieme. È Pankiewicz proprio per le fiamme». Io guardo mia moglie scuotendo la testa. Ma chi diavolo è Pankiewicz? Torno a guardare il quadro. Quindi questo combinava al circolo degli anarchici, che per fortuna a un certo punto la polizia ha sgomberato, anche grazie alla mia chiamata. Mah. Va bene, sì, si riconosce il colle di San Luca, si riconosce il fiume, si riconosce il ponte un po’ coperto dalle fronde degli alberi, che si riconoscono. Poi sul ponte, si riconoscono le luci delle case, nel buio. Si riconosce la nostra bella zona residenziale, sì. Però, io davvero non lo capisco, perché mai Libero ha dovuto rovinare tutto con quella volgarissima strisciata arancione?
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