Bim Bum Bam Ketamina

di Vargas
Copertina di il Saggiatore

Di recente per In Allarmata Radura è uscito un pezzo bello, anche se un po’ lungo di Leonardo Ducros sul processo di editing.

Mai tempismo fu più azzeccato.

Bim bum bam ketamina (BBBK) è un “romanzo” di Claudia Grande per il Saggiatore. Non contiene Bim Bum Bam, il Pupazzo Uan (stirpe dannata di Adramelech) e francamente c’è pure poca ketamina. Non potrei che sentirmi truffato se non fosse per un Furby posseduto dal Maligno che trovo un risarcimento opportuno.

Narra le disavventure lavorative di Roberto, l’uomo in affitto (ci tiene a sottolineare, in capacità prettamente non sessuale), le mansioni che ricopre in quest’economia dinamica e piena di opportunità e le sfortunate vicende di alcunə miserandə figurə che vanno a intersecarne le sorti.

Roberto è una componente fin troppo familiare nelle vite di tutti noi: laureato umanistico che si trova a tappezzare l’universo di curricula senza saper fare davvero alcunché, prima di iniziare ad arrabattarsi a fare un po’ di tutto e raccogliere pletore di competenze altrettanto inutili. Roberto non ha mai denaro; non ha dimora; vive in un limbo con un piede già fuori di casa dei genitori e uno ancora nel ventre di sua madre; ha una sorella che forse ce l’ha, forse no; è in terapia, ma nemmeno ne è così sicuro, quanto meno che quellə che siede alla poltrona di fronte a lui sia davvero un medico. Insomma, un’esistenza di mezzo vissuta male e un disperato bisogno di essere validato dal prossimo.

Tipo la questione del sorriso di Glasgow sul Joker di Heath Ledger, ma per una vita intera.

Mentre la premessa potrebbe spingere i più fragili ad allungare la mano verso il Lexotan, o al contrario sospirare afflitti per l’ennesima elegia pietista della nostra povera generazione di disperati abbandonata con le pacche nell’acqua, Grande ci salva dal baratro con una scrittura livorosa e sarcasticamente divertita. Roberto non ha alcuna compassione per sé stesso, né per quelli che ha attorno. Come certi meme crepuscolari che girano per le peggiori timeline di Facebook, a Roberto non interessa più: parafrasando le sagge parole di “Caterina Balivo” sotto lockdown, il Nostro è alquanto esasperato.

Le storie di BBBK grondano umori, menomazioni, meltdown più o meno discreti, l’infinita disperazione di un crepuscolo degli dei dove però comunque ogni mattina ci tocca andare in ufficio, se non fosse che pure un lavoro da cui farsi alienare appaia come un’oasi fuori dalla nostra portata. Ricorda in maniera abbastanza immediata Gioventù Cannibale, a cui però Grande aggiunge alcuni layer di ironia delirante. Il libro-meme di un altro, o quantomeno del sentimento che a suo tempo ha espresso.

Gli elementi sono presi quasi di peso e attualizzati. La gioventù con troppi soldi per il proprio bene ora non è più giovane e ha a malapena i soldi per le sigarette; le subrette vapide ora sono influencer vapide; Roma è diventata qualsiasi metropoli italiana dove esistere per il tempo di un lavoro; le relazioni parasociali migrano pigre verso l’adorazione di un presentatore che non riesce a sapere nemmeno di vaniglia (anche se questa particolare cosa forse è mutuata da DFW); gli uomini sono tutti mediocri, maschilisti e violenti.

La scrittura è pesata e consapevole, divertente anche quando fa venire l’acido allo stomaco, ma.

C’è un ma.

Benché Grande come autrice sia uno spasso da leggere, il problema di questo libro è… beh. Il libro.

BBBK nasce da una manciata di racconti disseminati dall’autrice tra varie riviste letterarie nel corso degli anni, presentati come raccolta e rimaneggiati per anni nel tentativo di creare una narrazione unica.

Così, nell’arco di quasi un lustro, nasce la figura di Roberto che diventerà il protagonista posticcio di alcuni dei racconti, o agirà da cornice per quelle vicende che non sarebbero potute essere vissute da un quarantenne torinese mangiato dalla gig economy.

Il Saggiatore deve aver pensato che, come romanzo, il libro avrebbe venduto di più, una cosa che a sentirla nel 2023 fa scattare le mani verso ceste colme di pomodori marci. Non tanto perché non sia vero, quanto per il fatto che questo tipo di baggianate mi sarei aspettato di sentirle un decennio fa, quando antologie e raccolte di racconti non avevano ancora fatto il loro trionfale ritorno sugli scaffali.

Grazie a questo geniale espediente, possiamo stringere tra le mani una storia frammentaria che del romanzo magari ha a malapena l’unità tematica e che assomiglia più a una normalissima raccolta di racconti accomunati grossomodo dallo stesso personaggio.

Le idee sciagurate però si portano giù a valanga il resto.

Spesso e volentieri da una raccolta di racconti ci si aspetta una certa omogeneità. Il problema è che in BBBK ce n’è troppa.

Tutte le storie che compongono il libro tendono alla ripetizione degli stessi tre elementi: un uomo mediocre ed esasperato; una donna di bell’aspetto stupida, pazza o entrambe le cose; l’apparizione di qualcuno in sovrappeso che fa da avatar della crassa oscenità del mondo. Il mediocre di solito viene esasperato dalla pazza e il grassone fa da innesco all’esplosione. La donna subisce violenza.

Le poche deviazioni della norma sono permesse unicamente dalla mancanza di uno degli elementi del paradigma, tipo in Dolly Mendoza dove la voce narrante femminile è grassa e quindi non può permettersi di essere stupida (pazza sì). Tra l’altro è l’unico punto del romanzo dove Roberto sembra fuori dal consueto personaggio. In assenza di un mediocre da esasperare, l’eroina sostituirà la violenza con l’umiliazione feticizzante, che però potrebbe essere letta come morte del sé e siamo di nuovo punto e a capo.

Senza contare che la voce del romanzo, distinta e riconoscibile, tende a replicarsi chiunque sia a parlare. Ne è un esempio l’idiosincrasia di Roberto a perdersi in minuzie tecnico-scientifiche e definizioni da dizionario che poi viene passata come un morbo agli altri personaggi.

Questo tipo di ripetitività non ha nulla di male in sé. I Dragonforce ci hanno costruito una carriera sul fare canzoni tutte uguali e se la musica pop ci ha insegnato qualcosa è che dell’originalità ci interessa molto meno di quanto vorremmo credere. Basta ci piaccia quell’unico pezzo ripetuto all’infinito.

Il problema è che Grande, come dimostrato QUI ad esempio, sa scrivere anche altro e comunque bene.

Alla luce dei dati a disposizione, quindi, troviamo da una parte un’esordiente promettente, il lavoro di circa un lustro, una casa editrice medio-grande e una manciata di racconti un po’ troppo simili tra loro. Dall’altra me armato fino ai denti col letale senno di poi che mi chiedo se non sarebbe stato meglio prendere tutta quest’ottima materia prima e semplicemente lavorare assieme a qualcosa di nuovo.

Non mi resta che aspettare un prossimo lavoro.

Del resto non tutte le ciambelle vengono col buco e mi sembra che Roberto, proprio il pasticciere, non abbia mai avuto l’occasione di farlo.


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