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Quel che esce dalla ferita - divagazioni attorno a ‘Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale’ di Simone Sauza
By Malgrado le Mosche Posted in Altra letteratura, Cacao Meravigliao, Inve(n)t(t)ive on 07/08/2023 One Comment 30 min read
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di Stefano Trucco
Copertina di nottetempo edizioni

La cosa più sorprendente della violenza, secondo me, è quanto poca ce ne sia veramente in giro, almeno nel mondo reale. Se mi limitassi alla mia esperienza personale dovrei dire davvero pochissima, e questo, sempre secondo me, vale per la larga maggioranza delle persone e non solo nell’Occidente ricco.

Non ho mai assistito di persona a un omicidio, per esempio, né ho mai conosciuto una persona assassinata (un suicida sì). Gli unici cadaveri che ho visto erano in ospedale o in camera mortuaria. In sessant’anni di vita qualche rissa l’ho vista, specie da giovane, ma insomma, poche e pochissimo spettacolari, molto diverse da quelle viste al cinema o in televisione. La sensazione di essere minacciato, quella sì che l’ho provata, sia pure senza conseguenze finora, ma anche lì non troppo spesso e, mi imbarazza un po’ dirlo, di solito in situazioni simili a quelle dell’ormai mitico viaggio in treno di Alain Elkann a Foggia.

Può darsi che sia vissuto finora in una solida bolla individuale che mi protegge dalla realtà, realtà intesa come quella elaborata costruzione mentale e mediatica che domina le nostre vite, con i suoi denti insanguinati e i suoi brandelli di carne sotto le unghie – la stessa bolla che protegge la maggior parte dei miei lettori, credo. Ma se vogliamo dare retta ai numeri non c’è confronto fra la violenza nella vita reale, specie quella fisica, e quella della comunicazione, sia quando si presenta come informazione che quando pretende di essere arte, high-, middle- o lowbrow che sia. Nazioni con poche decine di omicidi l’anno (talvolta, come l’Islanda, uno o due al massimo) producono frotte di romanzi e serie tivù – per non parlare dei documentari e podcast true-crime – in cui qualcuno viene assassinato e la polizia, guidata da un commissario fascinoso ma invariabilmente disincantato, scopre chi è stato, generalmente qualcuno che conosceva la vittima e pure con premeditazione e ovviamente si aprono abissi di corruzione pubblica e/o perversione privata. Come è ovvio, una persona assassinata è una notizia, mentre miliardi di persone che si fanno tranquillamente i fatti loro e la sera tornano a casa dai loro familiari sane e salve solo per uscirne al mattino altrettanto vive e vegete non lo sono. Due nazioni in guerra sono una notizia, due nazioni non in guerra non lo sono. Viviamo in quella che è stata definita la ‘sindrome del mondo cattivo’, un mondo in cui le notizie positive vengono, se non censurate, drasticamente appannate ed è SEMPRE stato così almeno da quando ho cominciato a seguire le notizie, solo oggi un po’ peggio.

Il punto è che la violenza è difficile: non è una cosa in cui siamo davvero bravi se non lo facciamo per lavoro. I soldati devono essere addestrati e inquadrati e sorvegliati ogni momento perché si decidano come minimo a sparare in direzione del nemico, cosa che nei secoli s’è rivelata più difficile del previsto (non per niente la grande maggioranza dei morti in battaglia viene DOPO la vittoria sul campo, quando l’avversario ha rinunciato a combattere). I combattimenti fra atleti professionisti di fronte a un pubblico che li incita non assomigliano in nulla a quelli che possono verificarsi in un bar, una discoteca o una piazza: non per niente un incontro di pugilato o di Mixed Martial Arts (o una giostra cavalleresca in secoli passati) è uno spettacolo, un intrattenimento messo in scena come a teatro. La violenza spontanea è sempre mediocre e anche un po’ ridicola. Senza un pubblico che incita e applaude le risse terminano quasi subito e di fronte a un pubblico freddo e disinteressato anche i protagonisti perdono entusiasmo. La gente si pesta sul serio solo se osservata e pagata.

Perché la violenza accade in uno specifico momento invece di un altro? La maggior parte delle volte non accade proprio. Le condizioni strutturali dell’antagonismo sociale sono molto più comuni dell’aperto conflitto, e il conflitto è molto più comune della violenza fisica. La violenza minacciata di solito non accade; quando accade sia la durata che l’intensità e il danno variano considerevolmente’, giusto per citare uno che della violenza s’è occupato a lungo, Randall Collins.

Metti poi che la violenza spesso non funziona come la si immagina: c’è una lunga tradizione di pensiero politico – quella dominante, in effetti – che identifica il potere con la forza, sia nel dominio legale per cui lo Stato ne detiene il legittimo monopolio, che in quello brutalmente materiale dei cosiddetti ‘realisti’ in cui il potere nasce sempre dalla punta della spada o dalla canna del fucile. Anche un governo democratico, si dice, in fondo si regge sulla minaccia della violenza, specie se non ci piace. Però può darsi che avesse ragione David Hume a metà del Settecento quando, un attimo prima dell’era delle rivoluzioni atlantiche, rifletteva sulla facilità con cui i pochi governano i molti: ‘dato che la forza è sempre dalla parte dei governati mentre i governanti non hanno altro a sostenerli che l’opinione, ed è solo sull’opinione che si fondano i governi e questo vale per quelli più dispotici e militari quanto per quelli più liberi e popolari’ (ok, qui ci sarebbe da scrivere un libro molto, molto lungo – mi limito a rimandarvi al breve saggio ‘Sulla violenza’ che Hanna Arendt scrisse nel 1970, che fra le altre cose sviluppa il pensiero di Hume e definisce con precisione la differenza fra Potere, Potenza, Autorità e Violenza).

Se i nostri nonni e bisnonni hanno attraversato due guerre mondiali, i nostri genitori non ne hanno attraversata nessuna, pur pensandoci molto: praticamente l’intero pensiero occidentale è dominato da quanto accadde fra il 1914 e il 1945, soprattutto fra il 1939 e il 1945, anche se il mondo è cambiato profondamente e l’attuale guerra in corso in Ucraina è responsabilità di uomini rimasti mentalmente al 1945, a una guerra mondiale diventata ormai la nostra Iliade (pensate a quante volte voi stessi, parlando di politica, specie estera, fate ricorso a esempi tratti dalla Seconda Guerra Mondiale e dintorni).

In tutto l’Occidente negli scorsi decenni (almeno fino a pochi anni fa: adesso la discesa pare essersi fermata anche se non si può ancora dire che vi sia stata un’inversione di tendenza vera e propria – quasi certamente negli Stati Uniti, ma i dati per l’Europa sono incerti) gli omicidi sono calati costantemente anno dopo anno. Nel 1990 in Italia ci furono 1794 omicidi; nel 2022 sono stati 309, e questo in un periodo di forti disagi economici e di stress post-pandemico, cioè uno stato di cose che, ci hanno assicurato tutti i competenti, ha reso il mondo molto più pericoloso. Merito della polizia? Non lo so, ma so che essere assassinati in Italia, uno dei paesi più sicuri del mondo, era ed è ancora statisticamente molto meno probabile del morire in un incidente di lavoro, d’auto o domestico. O suicidi.

Poi, chiaramente, la violenza esiste, le guerre e le rivoluzioni scoppiano, gli omicidi capitano, rari ma assolutamente reali, drammatici per chi vi è coinvolto e intrattenimento per chi vi assiste attraverso i media.
Tuttavia, chi tenta di dimostrare che la violenza non è il centro dell’esperienza umana o, addirittura, che gli umani non sono, come dire, radicalmente malvagi, deve spendere una considerevole energia intellettuale per spiegare come la violenza, a volte così estrema e Umgreifende, sia possibile mentre chi ci ritiene insanabilmente violenti non si sente in dovere di spiegare com’è possibile che la larga maggioranza dell’umanità sia morta e muoia di morte naturale, un tempo nel suo letto e oggi in quello di un ospedale.

Parlando di narrativa, già che ci troviamo su una rivista letteraria, fate il paragone quantitativo fra le scene di morte e quelle di nascita nei romanzi (e se il paragone vi pare assurdo e la mia autorità nel porlo un po’ dubbia vi ricordo che ne parla già E.M. Forster nel suo ‘Aspetti del romanzo’ nel 1927, uno dei migliori saggi sulla natura del romanzo mai scritti). Uno dei motivi per cui, nella narrativa di genere, i romanzi rosa sono considerati tanto meno importanti di quelli di fantasy, fantascienza, horror, giallo, noir etc, è che nei romanzi rosi la gente muore molto meno e rarissimamente di morte violenta, un po’ lo stesso meccanismo ideologico dei movimenti maschilisti per cui le donne sono inferiori in quanto uccidono meno dei maschi.

Ma se la violenza è difficile per la stragrande maggioranza degli esseri umani, ci sono persone per le quali lo è meno e fra queste i serial killer, molto di moda fino a pochissimi anni fa. Perché, curiosamente, anche questi fenomeni sono soggetti alla Moda (che non per niente Leopardi considerava sorella della Morte) e i serial killer sono passati di moda e oggi, negli Usa almeno, vanno forte quelli che fanno strage nelle scuole o in altri luoghi pubblici, tipo i concerti, possibilmente lasciando qualche delirio autogiustificativo sui social.

Criminali come Bundy, Berkowitz, Kemper o Gacy sono diventati delle icone, al punto di generare prodotti di consumo come poster e t-shirt. In Italia, la risonanza del fenomeno dei serial killer arrivò un decennio più tardi rispetto agli USA, negli anni ’90, con i diciassette omicidi di Donato Bilancia, con l’orrore generato da Luigi Chiatti nel microcosmo della campagna umbra, con la perversità del già citato Gianfranco Stevanin, per fare solo alcuni nomi (la vicenda precedente del Mostro di Firenze va considerata a parte)”.

Non posso negare di essere rimasto un pochino deluso dal fatto che l’unica citazione di Donato Bilancia nel bel libro di Simone Sauza sull’uccidere seriale, ‘Tutto era cenere’, avvenga così en passant a pagina 167 ma questo conferma un fatto abbastanza noto: Donato Bilancia non ha colpito l’immaginazione degli italiani (per non parlare degli stranieri) come altri serial killer che hanno ucciso molto meno. A parte il caso un po’ particolare del Mostro di Firenze, con ogni probabilità un soggetto collettivo, il serial killer esemplare per l’opinione pubblica italiana sembra essere Angelo Izzo, quello del Circeo, che non ha ucciso più di tre persone.

Ma se Bilancia non ha davvero colpito l’immaginazione degli italiani, tanto che la sua morte in carcere per Covid nel 2020 venne a malapena registrata, quella dei genovesi e liguri sì, specie di quelli vivi e presenti nella primavera del 1997: noi ce lo ricordiamo benissimo.

Poco a poco, nei primi mesi di quell’anno, i genovesi s’erano resi conto che c’era un serial killer a piede libero e se la sua area d’azione andava dalla Riviera di Ponente a Novi Ligure, chiaramente il centro d’attività era Genova. Preoccupante, sì, ma niente panico: le sue vittime si dividevano fra prostitute straniere (su cui il genovese medio non era disposto a spendere molta commozione) e metronotte (che facevano già un po’ più d’impressione ma insomma, erano armati, che si difendessero, e comunque la stragrande maggioranza della popolazione non era composta di metronotte).

Questo blando e un po’ compiaciuto interesse – come fa notare Sauza alla fine degli anni Novanta la popolarità dei serial killer come fenomeno mediatico era al culmine – cessò di colpo quando fra il 12 e il 18 aprile il killer uccise due donne nei gabinetti di due treni e venne definito quindi il ‘killer dei treni’ e tutto lasciava pensare che da adesso ci si doveva preoccupare sul serio.

E ci si preoccupò sul serio, ora che le vittime erano persone ‘normali’. Ricordo discussioni sull’opportunità o meno di prendere il treno (comunque solo in compagnia e senza usare i servizi) e un allarme crescente di fronte alla possibilità che il killer non si limitasse ai treni. Si cominciò a criticare la polizia: apparve sul Secolo XIX un articolo di un noto criminologo televisivo secondo cui in Italia mancava la ‘cultura del serial killer’ e quindi non l’avremmo mai preso se non avessimo fatto intervenire i profiler dell’FBI.
Due giorni dopo l’articolo il killer venne catturato dalla polizia mediante una classica combinazione di tradizionali tecniche investigative e botte di culo clamorose. Si trattava di Donato Bilancia, un piccolo criminale e giocatore d’azzardo, che da giovane aveva fatto parte del giro di Piazza Martinez insieme a Beppe Grillo, Antonio Ricci e Orlando Portento. Bilancia ammise subito tutto e si autoaccusò di alcuni omicidi che erano stati attribuiti alla criminalità organizzata e persino uno che era stato rubricato come infarto. Venne pubblicata la foto e fu a quel punto che le cose ‘got really weird’.

Il volto di Bilancia era quello di un uomo di mezz’età, al tempo stesso anonimo e riconoscibile, molto riconoscibile. Tanto che mezza Genova si convinse di averlo conosciuto personalmente. Persino io: all’epoca lavoravo all’Anagrafe e con i colleghi andavamo a prendere il caffè in un bar vicino che, a quanto pare, era uno dei centri del totonero locale ed era frequentato abitualmente da Bilancia. Insomma, potevo benissimo averlo visto, sia pure senza farci caso. Ancora oggi, fra persone dell’età giusta, non se ne può parlare senza che qualcuno affermi di averlo visto e a volte pure conosciuto, perché frequentava i portici di Sottoripa o la piscina della Sciorba o la Coop di San Benigno, per non parlare del Casinò di Sanremo, di cui era cliente abituale. Del resto perché no? Un piccolo criminale con i suoi piccoli traffici e crimini che girava tutta la città e si era fatto vedere un po’ ovunque.

E poi era così genovese, malgrado la discendenza calabrese – cioè, cosa può esserci di più genovese di un serial killer che interrogato dichiara fra le altre cose che la ‘vita, in fondo, non vale un cazzo’. Insomma, un serial killer con lo scazzo, che più genovese di così non poteva essere, un serial killer che si autodefiniva, alla giornalista televisiva Ilaria Cavo che, su sua richiesta, lo intervistò più volte in carcere e lo raccontò nel libro ‘Diciassette omicidi per caso’, come ‘soltanto un uomo che ha avuto grossi problemi e basta’.

Visto col senno di poi la mancata mitizzazione di Bilancia – che poté contare solo su una mediocre e dimenticata fiction Mediaset dove era interpretato (con un nome diverso, per altro) dall’ottimo Carlo Cecchi, ma dove il protagonista, Giulio Scarpati, era uno stereotipato poliziotto preso di peso dall’immaginario americano (e noi genovesi a registrare, come sempre, tutte le impossibilità geografiche delle riprese e l’assenza di accenti locali credibili) – dipende, oltre che dalla desolante mancanza di glamour della Genova pre-G8, da un certo sottotono comico – nero, ma comico – di alcuni eventi chiave della vicenda.

Come lo presero? La svolta determinante fu quando un uomo si presentò in Questura perché continuava a ricevere multe per un’auto che aveva già venduto, ma di cui non non aveva ancora formalizzato il passaggio di proprietà perché non era stato ancora pagato. L’auto, una Mercedes nera, era già stata collegata agli omicidi. Le multe derivavano dall’abitudine di Bilancia di cercare di scroccare l’autostrada accodandosi alla macchina davanti saltando il pedaggio, comportamento abbastanza insensato per un uomo attivamente ricercato, e sì, d’accordo, c’è questo stereotipo molto ovvio sui genovesi, tanto ovvio che non è nemmeno il caso di esplicitarlo, no?

Le forze dell’ordine avevano a disposizione un identikit (ma, appunto, stiamo parlando di un volto abbastanza anonimo), ottenuto grazie a un assassinio mancato, una scena decisamente tragica ma, a suo modo, bizzarra. Bilancia porta in macchina fino a un parcheggio di campagna vicino a Novi Ligure una prostituta transessuale sudamericana, Lorena, e cerca di ucciderla. Lorena però si difende con tutte le sue forze e benché ferita, a un certo punto riesce a chiamare aiuto col suo cellulare. Arrivano due metronotte e Bilancia li uccide per poi tentare di nuovo di uccidere Lorena, ma la pistola si inceppa e lei riesce a fuggire.

Metti poi il fatto che il modus operandi di Bilancia era inusuale, se diamo retta a profiler e studiosi. Intanto, aveva orrore del sangue, e già la cosa non pare promettente. Poi il fatto che i primi due omicidi (uno dei quali era stato classificato come morte naturale) furono una vendetta: si trattava dei due gestori di una bisca clandestina che secondo il killer lo avevano truffato. Magari non era vero ma, insomma, ne era convinto, questo era comunque un movente. Su tutti gli omicidi successivi, a parte quelli per rapina (ma fino ad allora non aveva ucciso nessuno), Bilancia non sa dare una spiegazione, accennando vagamente a un ‘programma’ che a un certo punto era scattato e lui non poteva farci niente.

Specie dopo l’assassinio per rapina di due anziani orefici a casa loro (con la domestica dai riflessi pronti nascosta in terrazzo) Bilancia s’era convinto di quanto fosse facile uccidere: ‘il preciso intento non so da dove veniva. So che avevo una fascia di fuoco sulla fronte, dietro la nuca. Quando mi succedeva questo episodio prendevo una decisione: prima è stato il metronotte, poco dopo una prostituta, poi ce n’è stata un’altra, e così via’. Cose che capitano. ‘Intendo dire che qualcosa nella mia testa dev’essere andata nel verso sbagliato. Devono dirmi che cosa. Ho bisogno di saperlo perché ancora non riesco a dormire la notte, se penso a quello che ho fatto’. Insomma, giusto un uomo con dei grossi problemi e basta. Poteva capitare a tutti, anche se poi di regola non capita quasi a nessuno.

Un tentativo di capire cosa capita a quelle rarissime persone cui capita è proprio quello che fa Simone Sauza nel suo libro, un libro nato, come tanti di questi anni, nella fenomenale pentola a pressione psichica che è stato il primo lockdown del marzo 2020.

Dormo troppo poco; quando dormo il sonno è disturbato. Ormai la maggior parte del tempo lo passo nella vastità spettrale della rete, tra gli articoli più bizzarri e le teorie più strane”.

Sauza è un giovane intellettuale romano tatuato e dall’aria un po’ coatta, a giudicare dal suo profilo Instagram, in questo simile a diversi giovani intellettuali romani, usciti fuori dal lockdown come funghi dopo la pioggia e tutti caratterizzati, oltre che dai tatuaggi, dal mischiare con la teoria ampi stralci di autobiografia (e qui sono l’ultimo a poter parlare…) e dall’aver letto Deleuze e altri intellettuali francesi di quel tipo. Ok, questo lo derubrichiamo a dispeptico rant generazionale perché, malgrado questo, il libro è intelligente e vale ampiamente la lettura.

Innanzitutto, una cosa decisamente positiva: si fanno pochissimi riferimenti alla romanticizzazione mediatica dei serial killer o all’idea che gli sceneggiatori di Hollywood ci possano spiegare davvero qualcosa sulla psicologia dell’uccidere seriale. Hannibal Lecter viene appena citato mentre non c’è traccia di Dexter, una popolare serie tivù in cui c’è un serial killer che uccide solo altri serial killer e visto che è durata 8 stagioni questo vuol dire un bel mucchio di serial killer, molti di più di quanto possano esisterne in natura. L’unica analisi approfondita di un film che Sauza si concede è su ‘Henry, pioggia di sangue’, un film del 1986 che tratta il tema in modo relativamente realistico e perciò piuttosto sgradevole, ricordato oggi solo per aver dato l’occasione a un leggendario sfogo di Nanni Moretti in ‘Caro Diario’. Sauza tenta di arrivare al centro del mistero non attraverso la sua narrazione mediatica ma attraverso l’analisi dei loro motivi o della mancanza degli stessi, attraverso i documenti o, quando ci sono, le testimonianze dei serial killer stessi.

Così, invece che di Hannibal Lecter, Sauza ci racconta di diversi serial killer reali, alcuni molto noti – e fra questi pare particolarmente preso dai due ‘omicidi delle brughiere’, Ian Brady e Myra Hindley (su cui torneremo) – e altri invece del tutto sconosciuti: in particolare ho potuto scoprire Carl Panzram (‘raramente ho visto uno sguardo così carico di odio totale e profondo’), un vagabondo americano che fra gli anni Dieci e Venti potrebbe aver ucciso letteralmente decine, forse un centinaio, di persone, e Szilveszter Matuska, un ingegnere ungherese che all’inizio degli anni Trenta fece deragliare dei treni fra Budapest e Vienna: condannato all’ergastolo, scomparve dalla prigione ungherese all’arrivo dell’Armata Rossa nel 1945 e non se ne seppe più nulla, anche se ai tempi della guerra di Corea vennero messe in giro storie secondo cui stava aiutando i comunisti nella sua qualità di esperto di esplosivi.

Benché relativamente breve, il libro tocca una bella quantità di temi e esempi, ma l’enfasi è su cosa possa spingere una persona, un Donato Bilancia o un Jeffrey Dahmer qualsiasi, a diventare un serial killer, ed è chiaro che certi fattori non contano o contano relativamente. Se una correlazione ambientale fra povertà e violenza è persino banale da riconoscere a livello macrosociologico, lo è molto meno, anzi per nulla, a livello micro, specie se la violenza non è utilitaristica o esplosiva ma individuale e di lungo periodo (poi la correlazione fra ambiente e uccisione seriale torna, qui esemplificata dal caso inglese dello Yorkshire Ripper negli anni Ottanta, nella reazione delle forze dell’ordine, dei media e della società in genere).

Anche l’analisi psicologica individuale per identificare traumi specifici che possano aver scatenato l’uccisione seriale finisce per non dare i risultati sperati. Un po’ perché, banalmente, a stimoli simili non corrispondono praticamente mai reazioni simili e l’abuso sessuale che porta un uomo a uccidere malati terminali o prostitute di colore, ne porta un altro verso il mercato delle obbligazioni o il canto corale folkloristico. Viene citato uno scrittore inglese, Gary J. Shipley, secondo cui ‘i serial killer aspettano di vedere cosa fanno per vedere cosa sono’. In un certo senso, secondo Sauza, ‘l’omicida seriale è privo di mondo’.

Metti poi che i serial killer in prigione hanno molto tempo per leggere, specie per leggere quel che si dice di loro: “molti assassini diventati mediaticamente noti finiscono per scrivere libri. Sono testi che spesso contengono rivelazioni profonde sulla propria esperienza; ma (…) sono anche testi tramite cui queste persone cercano di creare uno storytelling attorno alla propria figura”. In particolare ‘gli stessi serial killer sono portati (…) ad appiattire retroattivamente il significato delle proprie pulsioni e dei propri desideri sulla figura genitoriale, e sulla madre in particolare’. Cosa che contribuisce un po’ a spiegare perché Donato Bilancia non sia stato particolarmente mitizzato: la storia del micropene e dei genitori che lo umiliano bambino davanti ai parenti tirandogli giù i pantaloni è al tempo stesso disturbante e comica, come pure il fatto che abbia bagnato il letto di notte fino alla maturità e anche questo fosse motivo di scandalo e umiliazione per i genitori, che in compenso sono vissuti abbastanza a lungo per soffrire la fama che il figlio ha loro imposto: una delle scene che più rimangono impresse del libro della Cavo è proprio quella della visita dei genitori, tristemente non all’altezza della situazione (ma chi lo sarebbe?).

Breve digressione letteraria, dato che, come ricordavo prima, siamo in un contesto letterario e io, nominalmente, sarei uno scrittore. Quale sarebbe il modo giusto per trattare narrativamente le storie di serial killer, specie di quelli italiani, che non possono ricorrere, se si vuol fare sul serio e non tirare fuori l’ennesimo patetico Silenzio degli Innocenti de noantri (e mi verrebbe da fare nomi ma no), al consolidato immaginario nordamericano che trasporta immediatamente gli eventi al livello mitico, fosse pure un mitico-qualunque? Quale sarebbe il modo giusto di trattare la storia di Donato Bilancia, con il suo tono domestico e basso-realistico, per non dire comico, perché alla fine comico non lo è per niente? Un esempio a portata di mano mi pare quello fornito da Alessandro Ceccherini nel romanzo ‘Il mostro’, anch’esso uscito per Nottetempo nel 2022. Ceccherini ricostruisce in forma romanzo la storia del Mostro di Firenze, un evento che non può essere completamente assimilato all’uccidere seriale classico, dato che si trattò di un fenomeno collettivo e pure con una parte in ombra legata ai servizi segreti, ma che comunque si può considerare affine.
Pietro Pacciani, il volto ufficiale del Mostro e che sicuramente ha ucciso, benché presumibilmente non da solo, è una figura di tale rozzezza dal punto di vista narrativo da far sembrare Bilancia un esempio di fascino old school, e non molto migliori sono i suoi ‘compagni di merenda’. La sovrapposizione fra la miseria sostanziale dell’uccidere seriale e la mitizzazione spettacolare non fu mai così chiara come nei dubbi immediatamente espressi sull’effettiva colpevolezza di Pacciani perché non poteva somigliare di meno a Hannibal Lecter.
Ceccherini abbraccia completamente lo squallore della vicenda e dei suoi personaggi e ne trae quindi un romanzo impressionante e pure appassionante ma profondamente sgradevole, perché il paradosso è questo: se vuoi rendere giustizia a un tema come questo non puoi contare su un glamour cinematografico bugiardo, ma devi accontentarti dei frutti un po’ aspri della verità (a pensarci, Ceccherini sarebbe perfetto per rendere gli aspetti sia comici che drammatici di una storia come quella di Bilancia. Bisognerebbe suggerirglielo).

Oppure, un altro modo possibile verte sulla speculazione filosofica, come fa Sauza. Una speculazione che, per vie più oblique porta alla radicale svalutazione del desiderio, sia pure passando per Deleuze e Guattari invece che per il mio amato Renè Girard. Secondo i due il desiderio va inteso “non come benzina che spinge l’inconscio individuale, ma come tendenza generale di tutta la materia a organizzarsi in connessioni complesse; quindi impersonale, centrifugo rispetto all’ego. È in tal senso che parlano di ‘macchine desideranti’: in questo modello la forza attiva non è l’inconscio, che agisce verso il mondo, ma la materia stessa, la quale crea le connessioni che costituiscono l’inconscio”.

Perciò, nella descrizione di Sauza, “al fondo di ognuno vi è una piccola fessura; la faglia tramite cui un fuori, cioè qualcosa che rompe le coordinate di senso dell’umano, è già da sempre entrato, e che può sempre emergere sovvertendo il soggetto, allo stesso modo di una possessione”. In altri termini “bisogna chiedersi se la possessione possa essere intesa come l’emergere di questa alterità, di questo fondo non-soggettivo al cuore della soggettività che sostiene l’esperienza umana”.

Questo fondo non-soggettivo finisce per essere qualcosa che cola fuori dalle fessure, cioè qualcosa di primordiale, letteralmente pre-umano, e contemporaneamente qualcosa di disgustoso come la muffa che una perdita d’acqua disegna su una parete.

L’esperienza dell’atto di uccidere seriale fa intuire concretamente la fragilità su cui si regge il nostro orizzonte di senso, l’opacità delle nozioni che il pensiero ha eretto come un meccanismo di difesa, come una sorta di barriera della specie, per rafforzare un senso di dominio e padronanza sul reale: l’io, l’identità, il sé, l’interiorità. La realtà, di cui la stessa vita fa parte, è un processo instabile, automatico, un movimento di traumi più originari di qualsiasi scena dell’infanzia. La soggettività è una ferita aperta che non si rimargina. E da questa ferita, come una crosta, l’io è ciò che momentaneamente si forma; almeno finché il sangue non ricomincia a fuoriuscire” e devo dire che almeno narrativamente questo mi pare un percorso praticabile e probabilmente anche fruttifero.

L’idea, se capisco bene, è che l’ego ipertrofico del serial killer sia in realtà talmente slegato dalla comunità umana da dover ‘cercare disperatamente la stabilità di una cittadella interiore che faccia da argine al proprio smarrimento’. La sua ‘ipersoggetività disfunzionale’ teme di scomparire nella massa ‘e per questo mette in atto processi di mimesi rispetto alla narrazione che il complesso mediatico fa di lui’ – non sarà che, come è stato detto tante volte e in tanti contesti diversi in passato, la Vita imita l’Arte?

Premesso che non mi oriento benissimo nei meandri della filosofia post-strutturalista francese e ho quindi la tendenza a ridurre discorsi molto complessi alle mie categorie filosofiche o para-filosofiche preferite; premesso che ritengo che il nostro orizzonte di senso umano sia nel complesso meno fragile di quanto lo vede Sauza (‘la realtà, di cui la stessa vita fa parte, è un processo instabile, automatico, un movimento di traumi più originari di qualsiasi scena dell’infanzia’ – che si deve camminare su un ponte steso sull’abisso lo posso capire, solo ci vedo un ponte relativamente solido, non una passerella provvisoria, anche se ovviamente anche i ponti più solidi possono fare la fine del ponte Morandi); premesso che ‘Tutto era cenere’ tocca molti altri temi interessanti, fra cui una rivalutazione delle pratiche BSDM quasi come forma di terapia in quanto ‘l’universo BDSM, per esempio, può essere visto anche come una macchina che ripete in forma ludica diverse forme di oppressione’ e perciò potrebbe depotenziarle (una linea di pensiero interessante ma a questo punto ci vorrebbero altri 10000 caratteri e non mi pare il caso); premesso tutto questo, il libro di Simone Sauza è decisamente interessante e mi conferma che, lontano dalle luci della ribalta televisiva, ci sono un bel po’ di nuove voci interessanti nel campo del pensiero speculativo italiano e pazienza se vengono un po’ troppo spesso da Roma.

(Pausa. Bicchiere d’acqua. Cicale. Sirena in lontananza).

Un giorno o l’altro dovrò parlare di un libro che per me è stato importante, specie per definire definitivamente, per quanto cose così possano essere definite definitivamente, la mia visione del mondo di liberal-conservatore cristiano anti-fascista: ‘Forbidden Knowledge. From Prometheus to pornography’ (1996, non tradotto) di Roger Shattuck, un francesista texano che ha scritto dei bei libri su Proust e sulle avanguardie artistiche francesi. Qui però si occupa dei limiti della conoscenza, ma non quelli naturali delle cose che non si possono sapere per principio, sulla scia di Du Bois-Reymond, ma limiti alla ricerca e all’espressione imposti dalla società e dal potere. Shattuck pensa chiaramente di sì, che dei limiti si possano e debbano mettere, con tutte le riserve e esitazione del caso, dato che non è facile difendere la pratica della censura, un’opinione molto lontano dal mainstream culturale. È un libro curioso (molto ben scritto, btw), perché si passa dalla scienza (bomba atomica, genetica etc) alla letteratura, culminando in una spietata requisitoria contro l’idea novecentesca che il Marchese de Sade sia un grande scrittore o anche solo un pensatore importante. Se lo trattiamo come letteratura mi pare impossibile non ammettere che il Divin Marchese sia sostanzialmente illeggibile. Se lo trattiamo come filosofia o, peggio ancora, lo consideriamo un maestro di vita che ci ha rivelato verità importanti o come direbbero i giornalisti italiani, ‘scomode’ sulla natura umana, cioè se lo prendiamo alla lettera come lui stesso avrebbe voluto, beh, le conseguenze potrebbero essere piuttosto pesanti ed è una vera fortuna che i suoi ammiratori siano dei perfetti ipocriti dato che poi in pratica non ammazzano né torturano nessuno.

Uno degli ammiratori di De Sade che non è possibile definire un ipocrita fu Ian Brady che, insieme a Myra Hindley, uccise 5 persone, adolescenti e bambini, fra il 1963 e il 1965, nei dintorni di Manchester, in alcuni casi registrandone le grida durante la tortura.

Brady e Hindley vennero alla fine identificati e catturati grazie alla denuncia di David Smith, un adolescente problematico, già sposato a 17 anni e con diverse denunce per violenza, che era diventato amico di Brady, il quale aveva cominciato a indottrinarlo sui piaceri e la legittimità di stupro e omicidio leggendogli, fra gli altri, proprio De Sade. Dopo aver assistito all’omicidio di Edward Evans e aver aiutato a nascondere il cadavere, Smith ebbe una crisi di coscienza e decise di denunciare i due assassini (nota bene: fino a quel momento la polizia, come si dice, ‘brancolava nel buio’). Ovviamente durante il processo la difesa di Brady e Hindley cercò di implicare in tutti i modi Smith negli omicidi, più di quanto avesse ammesso.

Alla domanda sul perché avesse, poche ore dopo l’omicidio di Evans chiamato la polizia e denunciato i suoi migliori amici, Smith rispose “Non avrei più potuto vivere con me stesso”. Questo stagionato cliché contiene una succinta descrizione di quella che un tempo si chiamava la voce della coscienza. Socrate, nell’Eutifrone e nell’Apologia, afferma di affidarsi costantemente a un ‘segnale divino’. La prolungata corruzione di Smith, di suo tutt’altro che un cittadino modello o un carattere degno di stima, finì per incontrare quel limite, umano o divino, che Brady e Hindley si erano da tempo lasciati alle spalle’.

Per lasciare a Sauza l’ultima parola, ‘il male sussiste quando l’espressione di queste pulsioni [violenza e desiderio] ha come effetto l’annullamento di concatenazioni: uccidere qualcuno, annientarlo come persona significa smettere di produrre connessioni’.


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  1. Pier Paolo Pasolini, di Sade non comprese nulla, il senso dell’opera del marchese è una barricata letteraria contro il potere e non una legittimazione dello stesso nella sua forma più assoluta e prevaricante (e anche tu lo interpreti così). Ci sarà stata un’inconfessabile ragione se per decenni e ancora decenni di Sade, vietata ogni stampa, c’era soltanto modo di imbattersi in modeste edizioni con sovraccoperte da letteratura da balletti rosa in vendita nelle edicole delle più buie stazioni ferroviarie, pensando a un pubblico di onanisti

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