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Il filo delle eredità
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 07/11/2023 0 Comments 9 min read
Ida a pezzi Previous Le parti sull’amore le taglierei tutte Next

di Danilo Paris
Copertina di Rocco Carnevale

Mi risvegliavo di nuovo lì. Mi dimenticavo sempre tutto, come ogni volta. Ma non è tanto che mi dimenticassi, perché ogni volta le tracce che trovavo erano diverse e allora o qualcuno passava qui mentre dormivo e il mio sonno era lungo o, forse, quella spianata senza differenze percepibili, aveva invece segni ovunque, sparsi sotto il primo strato di polvere, e quindi non dormivo, ero sonnambula e la notte camminavo per chilometri tra spiagge, deserti e pianure carsiche, ma poi leggevo Nagpur, Asunciòn e in mezzo rio negro, rio macurù e rio qualcosa, con il nome bruciato. La macchia biancastra del Rana Edari mi si offriva nella sua illimitatezza, accecandomi. Il deserto, incompiuto, era il compendio in rovina dei saperi dell’uomo: le carte delle sue città, dei nomi, dei fiumi e delle montagne, tutte, una sull’altra, semicancellate, a volte illeggibili, lacerate, lacunose, stavano appoggiate sulla piana e con i miei piedi ci passavo su.

Sentivo il modo in cui la mia pelle era stata setacciata in precedenza, e mi ci passai la mano su, come per controllare se avessi ancora tutti i pezzi. Sentivo di essere stata di fronte ad un caos che mi aveva sbranato, togliendomi tutto ciò che fosse mio, persino il mio nome, che infatti non ricordavo più. Presi a toccarmi le guance e poi le labbra, mi passai un dito sulle sopracciglia, per vedere se erano ancora sopra i miei occhi e poi le braccia, che mi ero bruciata, ne ero certa, non so come, si erano “rimarginate”, se è corretto dire così.

Mi toccai, infine, tra le gambe, e scoprii che ero piena di sangue, come se mi avessero piantato un coltello più volte lì in mezzo, mi piegai in due, colpita da un dolore che neanche il ricordo o il sogno della mia pelle che veniva tolta via poteva paragonarcisi. Avevo… le mestruazioni. Ne avevo letto qualcosa nel Jari Rashaya, ma non riuscivo in alcun modo a connettere i miei pensieri, stavo impazzendo, riuscivo solo a odiare tutto quello che ero e che ero stata, a odiare tutte quelle cose finte che mi ero messa in testa, per scappare dal mio corpo e dalla mia origine. Scorrevo tutti i nomi che avevo inventato e digrignavo i denti pensando a quanto l’idealismo di un mondo che non sarebbe mai esistito mi avesse saccheggiato, staccandomi dalla mia carne. Mi passai le dita tra le cosce e sentii che il sangue non smetteva di scorrere, mi infilai le dita più a fondo e gli occhi mi rotearono per la nausea, il sangue aveva un sapore metallico, il che mi fece arrabbiare di nuovo, perché ripensai alla struttura metallurgica del deserto, alla testa di metallo che scorreva sotto la sabbia, unificando la pianura in una teoria idraulica e fluida delle cose.

E per la prima volta ebbi paura, una paura che pensai mi avrebbe ucciso, senza che nessuno potesse saperlo. Sarei morta dissanguata in quel deserto! Animali mai visti sarebbero poi emersi dalla terra e mi avrebbero divorato. Mi guardai le dita che brillavano di sangue e pensando ai Mhyr, il popolo che era fuggito alle nascite consegnandosi al piano dei possibili, mi venne voglia di spezzarmele, di staccarmele a morsi o di tagliarmele con i fili che cucivano tra loro le regioni descritte nelle mappe. Poi pensai che non volevo essere più sola, che mi mancavano Ana e Etienne, i miei fratelli minori. Era solo grazie a loro che riuscivo a sopportare quell’esistenza fittizia di topografie immaginarie e battaglie avvenute nel passato, perché mi faceva ridere come mi imitavano quelle cose, con le spadine di legno e i mantellini colorati.

«Vieni, Sisì! Svegliati», diceva il bambino. Aprii gli occhi e vidi Etienne che stava su di me, sul letto, con i planetari appesi al soffitto e i giocattoli dei modelli atomici di Rutherford e di Bohr.

«Etienne!», dissi. «Dove siete stati?! Ho avuto tanta paura che vi avessi perso!». «Oh, Sisì, stavi solo sognando forte come fai sempre!». E allora io scoppiai in lacrime e subito scoppiò in lacrime anche Etienne più forte di me, mi si attaccò alle spalle e mi abbracciò, piangendo forte e subito dopo arrivò anche Ana, ci guardò un po’ stupiti e poi corse verso di me e venne a stringerci e pianse, anche lei, come dire, sulla fiducia. «Scendiamo, Sisì, mamma ha preparato la colazione!», disse Etienne. «Mamma?», chiesi, stravolta. «Come, c’è la mamma?» «Certo, Sisìììì! Ma che hai per la testa?!», diceva Etienne. «Ahh! Mamma, mamma! Sisì sta perdendo sangue! Perde sangue dalla pancia, povera Sisì, che hai!?». Mi sentii improvvisamente pesante, il sangue continuava a colare, come nel sogno nel deserto e sotto i piedi sentivo di nuovo la sabbia che mi graffiava i piedi. «Vieni, Sisì, andiamo dalla mamma!». E io li seguii, scendemmo la prima rampa di scale, ma la seconda, dopo il muro, scendeva a capofitto per chilometri, non riuscivo a scorgerne la fine. «Vieni, Sisì, se non ci muoviamo non arriviamo mai!» «Hai proprio, ragione, piccolo Enne, queste scale non si faranno da sole». La mia casa era come la ricordavo, prima che mi addormentassi. Appesi ai muri che costeggiavano le scale c’erano una serie di quadri post-cubisti, essenzialmente scatole, cassetti, cose che contenevano altre cose, in cromatismi di granato e topazio. C’era polvere ovunque e il suono che ricordavo dei passi dietro la nuca mi seguiva, mentre scendevamo. «Forza, Sisì, ci sono i cereali e il succo di frutta al mango!» Io li tenevo tutti e due per mano, mentre il sangue continuava a venire a fiotti, mi guardai dietro e vidi una lunga striscia scarlatta che segnava il mio passaggio fino alla porta che avevamo lasciato aperta, che emanava un bagliore inverosimile, in contrasto con il buio intenso della scalinata. «Sisì, questa è la scalinata di Saisabà! O’ren ren se la fece tutta, quando la biblioteca di Jiu En, ficcata dentro la montagna, andò a fuoco. Da lì arrivò a Suram Devath e poi, passando sotto il mare, fino alle isole Toba!», diceva Ana, molto sicura. «Siii! Così, così!», rispondeva Etienne saltellando male, e camminando a fatica, a piccoli passi pesanti, e facendosi la pancia grossa come quel personaggio che andava descrivendo. «WAA. CHE FAMEEEE! MA CERTO, CO-ME HO FAT-TO A DI-MENTICARLO!! Che scemo! Questo è perché non ho mangiato pizze per tutto il tragitto. AHHHHHH!» e si misero a ridere, tutti e due. Ma a me non faceva più ridere, perché non sapevo di cosa ridessero. Non ridevo, perché invece avevo paura di loro. Li guardai, i loro occhi vispi e i sorrisi stampati. Li guardai, nel buio, i loro occhi erano più grandi del normale, tanto che le pupille avevano squarciato e sfigurato parte della fronte e degli zigomi, mentre il sorriso si era mangiato la gola, in una fuoriuscita di sangue e denti. Le pareti intorno erano molto più alte di quanto credessi e dove c’erano quadri c’erano solchi oscuri, così come c’erano solchi e cubi rinserrati in corrispondenza delle forme interne al quadro. C’erano buchi, gorgogliavano. Ffff, la clessidra continuava a perdere sabbia. «Sisì! Abbiamo fame! Abbiamo fame, Sisì!» «Sisisisi! Abbiamo fame, perché non c’è nessuno e più non c’è nessuno più abbiamo fame! Sisì, sbrigati, vogliamo ancora più nessuno!»

E allora sentii il vuoto che era in loro esplodermi nel ventre, schiacciarmi dentro e spingere, come se dovessi…abortire. Cominciai a correre, graffiandomi le piante dei piedi contro la breccia carsica che franava nell’ombra, e caddi, sfregiandomi i gomiti. Caddi per tutta la scarpata, con le spine che mi premevano le tempie, come se la roccia fosse stata il mio golgota. Ero alla fine della scalinata, davanti la porta cucita contro il muro di pietra della mia casa. «Forza Sisì, alzati! Devi andare oltre la porta e aprire a nessuno!» «Devo…?»

Era dietro di me. La voce. Era…dentro di me. Me lo guardai venir fuori, strappandomi via l’ultima parte dell’intestino. Era nato in me, credendo che sola, nel deserto, potessi far venire altro, che non fosse pietra, sabbia o radice seccata. Perché avevo lasciato andare i miei fratelli, seguendo la finzione delle cose che non sono ancora…Perché avevo lasciato il giardino ed avevo scelto il deserto? Io avevo dato vita ad Houta, il Mai doukar.

«Dammi…niente», lo sentii sussurrare, deforme e rossastro. «A-pri.» E la porta cominciava a scucirsi…i due territori a smarginarsi. Mi alzai, quasi senza vita, imbrattata di sangue ovunque. “«Brava, Sisì!» e mi erano vicini, mi si aggrapparono, salendo su di me, e mi morsicarono il collo, fino a farmi sanguinare. Mi avvicinai alla porta e stirai il tessuto delle cuciture, via dalle mie vene, veniva giù il tendaggio, aprendosi ai bordi, me lo tiravo dalle braccia e dalle vene sul collo di Enne e An. La porta era una fessura e dovetti infilzarla per entrare, senza più alcuna forza. Houta mi stava ancora attaccato e me lo trascinai, senza curarmene. Sentii che oltrepassando la fessura, che era viscida e viva, il cordone si staccava, lasciando la cosa lì dentro. E mi sentii peggio, perché mi avevano tolto qualcosa da dentro, mi avevano ingannato, mi avevano costretto a generare qualcosa che non volevo, ma che era mio, che mi era legato e che adesso volevo con me nuovamente. E affondai le mani in profondità, dentro quelle viscere, in cui non vedevo nulla, trovai ancora una volta il filo verminoso, con tutto il pietrisco e la placenta ancora appiccicati e lo tirai, annaspando. TIRAI.

E con l’ultimo fiato in corpo trassi fuori dalla sabbia Enne e Ana, privi di sensi, inermi e innocenti. E piansi, come avevo imparato, abbracciandomeli, mentre tossivano via la sabbia che avevano ingerito lì dentro. Erano fuori. Eravamo nel Rana Edari, il deserto senza limiti ed eravamo gli unici, i primi nati, i primi nati tra i Mhyr, gli scampati alle nascite.


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