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Ida a pezzi
By Malgrado le Mosche Posted in Racconti on 13/11/2023 0 Comments 13 min read
Pdfb #3, anno V Previous Il filo delle eredità Next

di Benedetta Carrara
Copertina di Rocco Carnevale

Ora, sarò pure un pezzo di merda. E non ho problemi ad ammetterlo. E sì, sono anche uno stronzo, e tutto quello che volete. Insomma, insultatemi quanto vi pare, ma una cosa non me la potete dire. Io non sono un assassino. Quindi tappatevi quel buco di bocca e ascoltatemi, okay?
Lo dico senza vergogna o senso di colpa. Da piccoli, Algida la prendevamo sempre in giro. Sua madre poteva pure aspettarselo, col nome che le aveva dato. Poi lei si metteva a frignare e si copriva la faccia con le mani e non le levava da lì per nulla al mondo, manco per vedere dove metteva i piedi. Finiva a gambe in aria un giorno sì e l’altro pure. E noi ridevamo, perché chi non avrebbe riso?
Pezzi di merda? Forse. Ma tutti i bambini lo sono. Sono carini, vero. Ma è palese che una coscienza non ce l’hanno. Quella arriva dopo, se arriva. Poi pezzi di merda sì, ma non senza cuore. A volte ci sentivamo in colpa, e andavamo da lei per scusarci: avevamo esagerato, non era stato carino o giusto, e non l’avremmo fatto più… Fino alla settimana dopo. Poi ricominciava tutto da capo.
Per le scuse facevamo a turni. Prendevamo un pugno di fili d’erba, e chi beccava quello più corto andava da lei col solito discorso – non stavamo a prepararne uno nuovo ogni volta che frignava. Io di solito avevo culo, ma una volta mi è capitato il filo più corto. Un po’ di lamentele, un po’ di trattative andate male e poi dritto a casa di Algida. Ecco forse non proprio dritto: ho fatto il giro largo, sono arrivato dal retro. Ed ero pronto con la preghiera imparata a memoria come le preghiere – in modo approssimativo e senza alcuna convinzione – poi ho visto la madre di Algida con un naso piccolo e arrossato stretto in una mano, e una bistecca congelata nell’altra. Algida aveva ancora le mani in faccia, e ancora frignava. Fa la buona, che altrimenti non si attacca più, le ha detto la madre. E lei ha tolto le mani, e sulla sua faccia il naso non c’era più.
Io sono scappato. L’ho raccontato a mio padre. Se devi dire bugie, almeno dille bene, mi ha detto. Poi più nulla.

Uno si aspetta che qualcuno ci avrebbe detto qualcosa, ma non importava praticamente a nessuno di quello che dicevamo o non dicevamo ad Algida. La sua famiglia era strana, ma strana forte. I grandi non facevano scherzi a sua madre, ma non è che la trattassero meglio. Semplicemente stavano zitti e le lanciavano occhiatacce. Quando lei non c’era, dicevano che tutte le donne della loro famiglia erano delle poco di buono e delle stupide, che aprivano le gambe e non riuscivano mai a tenersi strette un uomo. Infatti non ce n’erano mica, di uomini, in quella casa. Tutte donne, tutte sole, tutte con delle figlie dai nomi strani. E tutte, ma dico tutte, rigide come se avessero un palo di scopa su per – be’, sapete dove. Fredde, distanti, inavvicinabili. Non avevano in corpo una lacrima manco per loro: ogni volta che una di loro moriva passavano i giorni della veglia davanti alla bara ben sigillata, e con una faccia che allegra non era, ma che nemmeno dava segni di aver pianto. L’unica che piangeva era Algida. Ma quando succedeva, scappava subito a casa, e non la si vedeva per delle ore.

Io l’ho pure raccontata agli altri, la storia del naso e della bistecca. Ero sicuro di aver trovato la risposta alla stranezza di quella famiglia: erano dei supereroi che vivevano nel nostro paesino per sfuggire ai politici e agli scienziati. Spiegazione che non fa una piega, per un bocia di nove anni. Quando inizi ad averne dodici, però, inizia a fare acqua da tutte le parti. Me l’ero inventato, non c’erano dubbi. E anche se ero sicuro di quello che avevo visto, ho smesso di parlarne o di pensarci, perché mica volevo passare per pazzo, io.
Poi Algida e sua madre si sono trasferite in città. Sfottere qualcuno che non vive più nella casa accanto alla tua, e che va pure in una scuola diversa, diventa difficile. Lei se n’è andata, e chi l’ha vista più?

Poi un giorno l’ho beccata. Non era cambiata per nulla, sempre piccola, magra, di quelle che se soffi le fai cadere. Era sul treno. Sul sedile accanto al suo c’era uno zaino più grande di lei. Sulle ginocchia aveva un libro enorme, una specie di scatola da scarpe. Lo leggeva con attenzione, gli occhiali le cadevano lungo il naso, e i capelli continuavano ad andarle davanti agli occhi. Ho appallottolato un foglio del mio quaderno di matematica e gliel’ho lanciato. Senza scomporsi, lei si è girata, mi ha guardato e ha ripreso a leggere. Allora ho strappato un altro foglio, l’ho appallottolato e l’ho lanciato di nuovo. Che cosa vuoi?, mi ha chiesto lei, senza scollarsi dalle pagine. Non mi riconosci, Algida? A sentire il suo nome, si è irrigidita ancora di più. Ha chiuso il libro, l’ha rimesso nello zaino. Solo Ida, ora.
Sul momento mi sono sentito un po’ in colpa: forse l’abbiamo sfottuta così tanto che ha voluto cambiarsi il nome per quello, o che ne so. Però Ida come nome le stava bene. Un nome da vecchia, sia chiaro. Ma quando sei bella, un nome da vecchia non è poi così brutto.
Ora mi potresti dire cosa vuoi?
Cazzo, simpatica come sua madre. O sua zia. O sua nonna.
Se non ti dispiace, vorrei riprendere a leggere. Potresti non lanciarmi altra carta? Mi distrae.

Non so cosa le ho risposto, quel giorno. Forse non ho manco detto una parola. Non che sarebbe cambiato granché, penso sia scesa alla fermata successiva.
La sera l’ho detto agli altri, che l’ho incontrata in treno. Loro mi hanno chiesto se fosse figa. Di legno, ho risposto. Tutte così, in quella famiglia. Abbiamo concordato tutti, e siamo tornati a guardare la partita di calcio. Durante l’intervallo, mio cugino mi ha preso da parte. È figa o no?
Che ti importa?
Forse te la vuoi fare.
Come no, non vedo l’ora che mi frigni addosso.
Una pacca sulla spalla, una risata. Tanto non ci riusciresti.
A fare cosa?
A fartela.
Certo che ce la farei.
Venti euro? E mi dà la mano. La stringo. Però hai solo un mese di tempo.
In un mese la mollo pure.

Ecco, io ve l’avevo detto. Un po’ stronzo lo sono. E se non ho mentito finora, potete fidarvi di me.
Un mese non è poi tanto tempo. Me ne sono reso conto quando ho preso il treno per una cinque giorni, sempre allo stesso orario, e non l’ho vista. Io salivo sul treno, me lo facevo tutto a piedi, vagone per vagone, avanti e indietro, che manco il controllore si vedeva così tanto in giro. Ma Algida, Ida o quel che vuoi, non c’era. Stavo quasi per lasciar perdere, sperando che mio cugino si fosse dimenticato della scommessa. Poi il sesto giorno, o forse il settimo, che ne so, sono salito sul treno e l’ho vista. Ho aperto lo zaino, preso il quaderno di metematica – Lanciami ancora un foglio e ti rompo le dita.
Era per scherzare.
È uno scherzo vecchio. E noioso.
Mi sono seduto nel posto davanti al suo. Dai, è da un po’ che non te ne faccio di scherzi.
E gradirei che continuasse così, grazie. Prende un libro dallo zaino, e si mette a leggere.
Ho una proposta.
No, grazie.
Le strappo di mano il libro, me lo stringo al petto. Esci con me.
E se dicessi di no?
Non ti ridò il libro.
Mi serve per studiare.
Le sorrido, sventolandole il libro davanti agli occhi.
Un caffè. Non di più.
Non chiedo altro.
Le ho ridato il libro e lei si è rimessa a leggere. È stata zitta tutto il tempo, poi quando il treno si è fermato ha preso lo zaino, si è alzata. Che fai, non scendi?, mi ha chiesto. E io subito le sono andato dietro, come un cagnolino.
Ci siamo fermati al bar della stazione, abbiamo ordinato due caffè e ci siamo seduti a uno dei tavolini – sporco, eh, ma almeno era il meno sporco. Lei continuava a starsene sulle sue, e a ogni domanda che le facevo rispondeva con un monosillabo. Poi le ho chiesto perché diamine avesse deciso di cambiare nome. Non ho cambiato nome, solo come mi presento.
E perché?
Voglia di cambiare, credo.
Sei sempre così fredda?
Sei sempre così invadente?
Solo quando ho un mese di tempo per vincere una scommessa, ho pensato. E fossi stato onesto glielo avrei detto. Forse avremmo potuto stringere un accordo, smezzarci i venti euro e risparmiarci un po’ di tempo. Invece ho risposto qualcosa tipo: solo quando qualcuna mi interessa.
Una frase scontata, orribile, uscita da un romanzo di quelli per ragazzine – che non ho mai letto, e ci tengo a sottolinearlo. Deve aver funzionato, però. Le sue guance bianche bianche sono diventate rosse, e ha sgranato gli occhi. Si è messa una mano davanti alla bocca, le dita appoggiate alla punta del naso. Scusami, si è fatto tardi, devo tornare a casa. Ed è corsa via, lasciandomi solo al tavolino. Non aveva nemmeno bevuto il suo caffè.
Lì, da solo al bar della stazione e con due tazzine di caffè, ho capito che forse avrei potuto vincere quei venti euro. E venti euro quando sei al liceo non sono pochi. Sono almeno tre pizze.

Ho continuato a prendere il treno tutti i giorni per la successiva settimana, e solo dopo una settimana l’ho incontrata di nuovo. Facile, prende il treno una volta a settimana, mi sono detto, posso risparmiarmi tutti gli altri giorni. Comunque, quando l’ho rivista le ho chiesto di nuovo di prendere un caffè. Lei ha iniziato a dire che doveva tornare a casa, e che sua madre la aspettava, e altre cose del genere. Allora ti accompagno a casa, ho detto. E lei ha accettato. Sono anche stato bravo, le ho portato lo zaino – e cazzo quanto era pesante quello zaino. C’è dentro il dizionario di latino, mi ha spiegato. E non sono mai stato così felice di non essermi iscritto a un liceo.
Mentre camminavano, le ho fatto qualche domanda. Le solite domande: cosa studi, cosa vuoi fare dopo, e che libri ti piacciono, ti piace la musica, ti piace andare al cinema. Poi siamo arrivati a casa sua, ed era palese che non vedeva l’ora che io me ne andassi. Allora le ho detto che ci saremmo visti la settimana dopo, le ho fatto l’occhiolino e mentre le passavo lo zaino le ho dato un bacio sulla guancia. Ancora la mano sulla bocca, le dita sulla punta del naso. Sono tornato in stazione, ho preso il treno e sono andato da mio cugino. Prepara i venti euro, gli ho detto.
Mi sentivo molto sicuro. E anche un po’ in colpa. Ida sembrava molto dolce, molto carina. Il genere di ragazza che davvero ci tiene. E mi piaceva, non voglio dire di no. Ma era pur sempre Algida, quella che frignava sempre. Non mi sarei mai messo con una come lei.

La settimana dopo ho preso il treno, e l’ho vista di nuovo. Quando l’ho salutata, ha sorriso. Un sorriso strano, come se non lo sapesse fare. Che dai, devi solo tirare un po’ la bocca, come fai a fare una faccia così strana? Abbiamo parlato per tutto il viaggio, siamo scesi e abbiamo continuato a parlare. Siamo arrivati sotto casa sua, e lei aveva addirittura cominciato a ridere alle mie battute. L’ho accompagnata su per le scale, portandole lo zaino, e siamo arrivati davanti alla porta di casa sua. Grazie, ha detto timidamente. E io ho fatto quello che chiunque avrebbe fatto davanti a quegli occhi sgranati e quelle guance un po’ rosse. Mi sono chinato, le ho dato un bacio. Lei ha sussultato, si è portata la mano alla bocca. Io l’ho presa al polso, ma con delicatezza, giusto per spostare la mano, e le ho dato un altro bacio. Era tutto molto… molto bagnato. Pensavo fosse saliva. Poi mi sono accorto che veniva anche dall’alto, come se stesse perdendo qualcosa dal naso, ma non sapeva di nulla. Mi sono allontanato un attimo, le ho accarezzato la guancia col dorso della mano. E in quell’istante ho notato che anche lì era tutta bagnata, e fredda. Qualcosa mi è caduto sul piede. Abbasso gli occhi e vedo il suo naso. Lei è ancora immobile, tranquilla, felice. Ma si sta sciogliendo. Addosso a me, sul pavimento del corridoio, sul tappetino di casa sua. Si sta squagliando come un ghiacciolo al sole. In pochi secondi si staccano anche le orecchie e le dita e le braccia e si forma una pozzanghera per terra e-
Io sono scappato. Avevo ancora il suo zaino sulle spalle, ma me ne sono accorto solo quando sono salito sul treno. Mica potevo tornare indietro e portarglielo, quindi l’ho lasciato lì, su un sedile a caso. Qualcuno l’avrà rubato, credo. Era uno zaino carino.

A mio cugino non l’ho detta questa storia. Anzi ho detto che lei mi ha dato il ben servito e che manco mi ha lasciato accompagnarla a casa. Qualche giorno dopo però è uscita la notizia che Algida e sua madre erano scomparse, e che l’unica cosa che si è trovata è stata una pozza d’acqua enorme sul loro pianerottolo – roba che tutti avevano pensato a un tubo rotto. E prima che qualcuno passi dalla parola “scomparse” a “uccise” io ci tengo a dire che non ho fatto un cazzo, davvero. Non sono un assassino. Poi credete quello che volete, eh. Tanto già quando ho detto che a quella cadeva il naso quando piangeva nessuno mi ha creduto. Se ora dicessi che si è sciolta perché le ho dato un paio di baci, mi ficcherebbero in ospedale e mi imbottirebbero di farmaci. E va bene tutto, ma per venti euro non ne vale la pena.


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