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Pelleossa
By Malgrado le Mosche Posted in Cacao Meravigliao, Miscellanea on 07/12/2023 0 Comments 12 min read
Scatola d'uova Previous Rossa Next

di Veronica Galletta
Copertina di Patrizio Marini per Minimum Fax

Pubblichiamo un estratto da Pelleossa, ultimo romanzo di Veronica Galletta, uscito per Minimum Fax.
Di seguito la sinossi del romanzo.

Sicilia, 1943. Paolino Rasura ha sette anni. Per sfuggire alle prepotenze di un gruppo di ragazzini, accetta di fare una prova di coraggio: entrare nel Giardino di Filippu, un uomo che vive isolato su una collina e passa il tempo a scolpire teste. Il Giardino è un posto incantato, dove migliaia di teste di pietra convivono fra gli ulivi, testimoni del tempo e delle stagioni. Paolino e Filippu così si conosceranno, e il vecchio diventerà per il bambino amico e consigliere negli anni complessi che vanno dallo sbarco degli americani fino alle prime lotte per le terre. Intorno a loro si muove il paese di Santafarra, un’intera comunità fatta di antichi segreti, rivalità, spinte al cambiamento e riti sempre uguali. Nei quattro anni che lo trasformano da bambino a ragazzo, Paolino, sempre in bilico fra viltà e desiderio di riscatto, conoscerà il tradimento, la morte, l’amore.
Con una lingua che mescola italiano e dialetto a creare un nuovo impasto, plastico e mimetico alla trama, Veronica Galletta ci racconta un periodo della storia siciliana che è meno lontano di quanto appaia, con riferimenti alla tradizione letteraria isolana, nel solco dell’ambiguità fra reale e fantastico che ha già caratterizzato i suoi romanzi precedenti.

Ringraziamo l’autrice e la casa editrice per la disponibilità.


Cap. 7

Di come anche le pietre si fannu pensanti, se uno sapi ascoltare

«Salgo a prendere la mazzetta», disse Paolino.
Erano passati pochi iorna dall’incontro con Zu Ntoni, del quale non aveva parrato con nessuno, e doveva trovare il coraggio, anche se al ricordo dell’autra vota, le cose strangie che ci parse di intendere, gli veniva il vomitone. Basta Paolino Ncantesimo, lo diceva pure Zu Ntoni che era pericoloso specchiàrisi nella paura. Accussì na matina andò dritto in Piazza e trovò Cateno e gli altri.
«Salgo a prendere la mazzetta», subito ci disse, e senza aspettare cenno si voltò e si incamminò verso il Monte Cronio.
Arrivato sutta al Giardino spinse il cancello e su per i gradini, a testa bassa. Di cosa si doveva scantare? Non s’arricurdava nenti. Forse era stata la botta in testa, forse qualche majarìa che c’aveva fatto il Pazzo. Dopo un poco si fermò. Non c’era nunca frastuono. Né il rumore della mazzetta, né l’abbaiari dei ca- ni. Forse il Pazzo dormiva, o magari s’era ammucciato dietro a un muretto e ora nisceva satando come un caprone. Nenti, solo un fruscio, come di cicali. Ma era presto per i cicali. Salì ancora qualche gradino. Doveva solo trovare una mazzetta, pigghiàrila e scapparasìnni. Mazzettamazzettamazzetta s’arripeteva Paolino, mentre ciucertole niscevano dai muretti che scorsonia- vano magari loro, verdi brillanti come serpenti, e il fruscìo aumentava, fri-fri-fri-fri, ci-ci-ci-ci, sempre più forte. Riprese a sali- re, fino a che arrivò a uno spiazzo, con pietre torno torno. S’avvicinò. Teste di petra. Ma allora era ovèro! Era questo che face- va Filippo il Pazzo tutto il giorno! Testi, e ancora Testi. Il Pazzo doveva essere un uomo forte assai, per scolpire accussì tante…
«A cu apparteni?», disse una voce cavernosa.
Paolino sentì il cuore tum!, fino all’occhi, sangue gelato e tremolizzo dintra all’ossa. Prese un respiro. Scantàrisi, scappa- rasìnni, significava finire come a Nunzio Lucicùli, sempre con una luce attaccata darreri. Si guardò dintorno. Era un cerchio di Testi di petra in mezzo alla scalinata che proseguiva verso l’alto, fino a un grosso mandorlo dove dietro s’intravedeva una casa.
«Ti fici una domanda: chi sei?»
La voce si era fatta minacciosa. Paolino scrutò verso l’alto, a cercare di intravvedere il Pazzo. Chi altro poteva essere a parrari?
«Ragazzino, arrispondi!»
«Basta ittare uci. U carusu si scanta».
Paolino satò per aria… Due voci, due persone.
«Ha ragione l’indiano. Non urli». Una terza voce, diversa ancora.
«Apposto semu: intervenne l’autorità!»
«Le arricordo che mi deve portare rispetto. Sugnu il Re di tutti ccà».
Un re? Ma il Pazzo non aveva detto che era Imperatore?
«Nun t’a cunfùnniri. Ccà sei na Testa come all’autri».
«Comè, cià finite di sciarriàrivi? U carusu si scanta accussì». Le voci parevano arrivare da ogni banna. Paolino si votò a destra e a manca, e senza vedere nuddu, per sicurezza si lasciò scivolare a terra e chiuse l’occhi. Silenzio. Li aprì. Supra di lui, i rami dell’alivi si ntrecciavano con le fronde dei carrubbi. Ora s’arricordava! Era caduto propria ddocu, l’autra vota.
«Che le dissi? Anche l’indiano mi duna ragione».
«Sugnu nativo americano».
«Ragazzo, lo devi scusare: non è pratico di parole con i cristiani. S’anteressa solo di piante: è un re giardiniere!»
«Non s’arrischi a parràrimi accussì, Comandante! Sugnu ancora il Re dell’Italia!»
«Lassàmu stari, ca ci fai più figura! Attìa, ragazzino! Come ti chiami?»
«Bambino, non ci dare peso. Magari io avevo un picciriddu comattìa sai, prima che…» La voce cominciò a singhiozzare.
«Bò, bò, Toro Assittato, non faccia accussì. U sacciu che fa male. Io la capisco».
«Ma non t’affrunti! Con chiddu ca facisti, malanova!»
«Le dissi già na vota che m’addari del lei! Sugnu il sovrano, il Re d’Italia, m’aspetto ubbidienza».
«E qui ti sbagghi! Obbedisco u dissi na vota sula, a tuo padre!»
«Bisonte, no Toro. Sugnu Bisonte».
«Bisonte Assittato, come preferisci. Tu sì che u sai, cosa signi- fica combattere, no Re Pipi fatto a mano, ca non cunta e non passa».
«Non m’anteressa se l’òmini sunnu alti o bassi».
«Teni raggiùni, dice cose fuori posto».
«Lo Re decide dell’òmini come noi. Funziona accussì».
Paolino strizzava l’occhi, immobile, speranzoso che i tre cristiani si scocciassero di litigare e se ne andassero, che lui doveva prendere la mazzetta di Filippu, e irasinni magari iddu.
«Èrumu cittadini, no uomini qualunque».
«A dirla giusta, èrutu sudditi».
«Senti cosa nana, non fare u spertu cummìa! Con i miei mille cristiani ficimo l’Italia!»
«Magari il mio popolo fici battaglie oneste, e poi finì alla riserva. È il cerchio della vita».
«Ma ntùppiti a ucca, che finisti a furriare per l’America con il circo. Tu! Che facisti scappare Custer u cacarùsu! Che mala fine!»
«Addumannàmu ai viddani di Bronte, cosa credono delle camicie rosse…»
«Ma quale Bronte e Bronte! Tu non si Re a nuddu, dopo che ci vendesti al Duce! Per questo Filippu ti misi ccà, magari se sei ancora vivo!»
«Sua Eccellenza del Giardino mi fici la Testa per consultarisi cummìa, alla bisogna».
«Finitaccìlla i vanniàri. U picciriddu chiangi».
Aveva cominciato a chiangiri, senza accorgersi. A sentire che uno dell’omini se n’era accorto, Paolino si sedette e s’asciugò le lacrime con una mano. Si guardò dattorno: se n’erano andati, ma non capiva unni. E se erano saliti verso la casa di Filippu? Era meglio scapparasìnni. Cateno ci poteva dire Ncantesimo quanto ci pareva, lui ora s’arricampava alla Casa Verde. Si susì in piedi, facendo per scinniri.
«Non se ne isse, signurino. L’amico mio Caribardo è malo fatto, l’ascusàri».
«Magari io, Bisonte Seduto, sugnu interessato al caruso. Dicci il tuo nome».
Paolino si girò. Nun si vireva anima viva.
«Semu ccà, non ti scantare. Semu i Testi. Iu sugnu a destra, profilo greco, occhi fondi, nasca diritta, barba di foco…»
«A diri ovèro la Storia non dici accussì. Non èrutu mica accussì beddu».
«N’autra vota! T’astari mutu! Carusu, tu m’arriconosci? Sugnu Caribardo».
«S-se», disse Paolino. Era ovèro, la Testa vicina alla scala era precisa a Garibaldi, sputato come nei libbra.
«Bene. Comè che ti chiami?»
«Pp-Paolino».
«U figghiu di Umberto Pollio, aiutante di campo di mio padre Umberto i, si chiamava Paolino… Forse c’era anche un ramo siciliano, oltre a quello napoletano e piemontese…»
Paolino si fece di coraggio, e si avvicinò un poco alle Teste di petra. Ce n’era una precisa al Re Vittorio Emanuele iii. I baffi, l’occhi, i capiddi… come appariva nelle monete. Diavoli e diavoloni! Stava parlando con il Re!
«Nn-no, non credo», disse.
«Piede di Corvo, accussì si chiamava mio figlio».
E chiddu allato era Toro Seduto, con la nasca grossa, le labbra all’ingiù.
«Perché te n’acchianasti al Giardino? Cerchi Filippu?»
«S-se».
«Il Signor Filippo scinnette a trovare la Signora Madre, come ogni mercoledì».
«Assèttiti, ca ora s’arricampa».
«N-no, magari torno n’autra vota».
«Ragazzo, semu di petra, ma no mammalucchi. Che ci devi fare tu con Filippu?»
«Non ti scantare. Io sempre difeso deboli».
«Il fatto è che… mi devo togliere n’ingiuria!»
«Una ingiuria? Qualcuno la minaccia, Paolino?»
«No, non è che è proprio na minaccia… è più come na presa in giro. Ognuno ave la propria. Alla famiglia di Cateno li chiamano i Lucicùli», disse Paolino. E ora sapeva magari perché. «A mio padre lo appellano Saracino, e noi tutti semu Pelleossa». E di questo invece la raggione non la conosceva.
«I Lucicùli si trovano unni l’aria è fina. Il mio popolo fece grandi battaglie per l’aria pulita».
«A dire ovèro non è per quello che si chiàmanu accussì…», rispose Paolino, ma poi cangiò discorso, non volendosi addentrare nella spiegazione che gli aveva dato Zu Ntoni. «Ammìa tutti i iorna Ncantesimo, Ncantesimo… devo liberàrimi. Se faccio una prova di coraggio la finisciono», disse tutto d’un fiato.
«E comè che t’appellano Ncantesimo?», chiese Garibaldi.
«A volte mi rimango a pensare, e se mi pàrrunu, se accade un fatto… non me n’adduno».
«Mi pare giusto. Se il grande spirito ti vulìa sveglio ti faceva tordo. All’aquila non necessita di fingersi carcarazza», disse Toro Seduto.
Paolino si girò verso la sua Testa, l’occhi a lucciconi dalla gratitudine.
«L’indiano con l’armàli mi pare un poco fissato», disse il Re.
«Bambino, senti ammìa, meglio se racconti tutto al maresciallo… ce l’avete un maresciallo ccà?»
«Ma che bella pensata, Sire, facciamo fare denunzia a sto caruso! Accussì sono i Re, vivete in un altro mondo!»
«Allora lascia correre. Sa come dice il poeta, non ti curar di loro ma guarda e…»
«Ora magari poeta: Re giardiniere e poeta!»
«Caro Caribardo, lei è ignorante come na scarpa».
«Basta sciarriàrivi», urlò Paolino, scosso nel corpo da un tremito che si trasmise dattorno, facendo frusciare i rami dell’alivi. «Ora me ne scinnu. E poi voi non esistite. Le pietre non par- lano. A stari no sto Giardino s’addiventa pazzi».
«Perdonaci Paolino. Non te ne scappari. Semu interessati attìa».
«Avi raggiuni l’eroe romantico».
«Le cose fatte di prescia non sù mai bone. T’anteressa la mia ingiuria?»
Paolino fece cenno di sì con la testa, mentre si ciusciava il naso nella maglietta.
«Ammìa mi chiamavano Lento. Perché prima di fari na cosa ci pensava bbonu. E adesso contaci. Perché sei ccà?»
«Per rubare la mazzetta ro Pazzu».
«E chi sarebbe ora questo signor Ropazzu?»
«Io non sarò stato biondo, ma lei non è proprio una lince, Sire. Del Pazzo, vuole dire. Di Filippu, insomma», disse Ga- ribaldi.
«La mazzetta al signor Filippo serve per scolpire, come la luce alle piante», disse Toro Seduto.
«È un’idea di malacarne, u sacciu, ma se pigghio la mazzetta smettono di chiamàrimi Ncantesimo».
«Sicuro sei?»
«Accussì mi dissero».
«E chi lo garantisce, Paolino?»
«Nuddu è coraggioso comammìa, che me n’acchianai finaccà, magari che sono il più nico», disse Paolino alzando il mento.
«Non serve a niente venire qui e rubare la mazzetta».
«Ha ragione Toro Seduto. Chi ti garantisce che la smettono? Magari diranno che non è di Filippo, o che te la rialò. Devi darici na passata di lignate, a tutti».
«Che animo violento!»
«Sì beddu tu, che fai fare tutto all’amico tuo, il maestrucolo di Predappio».
«Solo Paolino può sapere se è meglio cambiare strada o combattere. Il mio popolo è stato in esilio per tanti anni, e poi finì alla riserva».
«Puoi anche cambiare amici. Non ce ne sono altri?»
«A Santafarra se li pigliano tutti loro», rispose Paolino torcendosi le mani, il pensiero dritto a Giacinto.
«Allora làssali perdere. Veni ccà, e Filippu sarà tuo amico. È tanticchia originale, ma è un vero galantuomo».
«Il signor Filippu ha un cuore grande».
«Un cuore con tante cose dintra».
«Assèttiti, ti facciamo compagnia noi».


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