Copertina e testo di Deborah D’Addetta
Mi accende di curiosità, questo monte di mezzo, questo imbuto di fuoco pigro. Lo guardo da sud e germoglia in fioriture gialle, il profilo fumoso, languido, come fianco di donnadormiente. A ovest s’impenna, prepotente, bagnando quasi le sue pendici in mare. Appare più vivace, dispettoso, tuttazzurro, sormontato da due seni appuntiti che fanno solletico al cielo. A nord compare una cresta rocciosa, una catena di verdeggianti delta che si ramificano verso il basso. A est si manifesta quasi innocuo, giusto un guizzo di lato, un dente scheggiato.
Lo chiamano Vesuvio. Dicono sia un dio. Dicono abbia distrutto una civiltà intera.
Lo definirono in molti modi: Leopardi “il formidabile monte sterminatore”; Goethe “spettacolo meraviglioso”; Percy Shelley “la più impressionante esibizione delle energie della natura”; Curzio Malaparte “lo spettrale Cesare dalla testa di cane”; Emily Dickinson “il solenne, torrido, simbolo […] un sibilare di coralli”; Ermanno Rea “una morbida ascella femminile”.
Ovunque tu vada, ovunque tu volga lo sguardo, lui è lì in forma di camaleonte, cambia pelle con una certa domestica frequenza. Ho sentito dire che dà riparo ai Giganti, cacciati dall’Olimpo, e che Plutone vi abbia istallato le sue fornaci.
Vesuvio. Vesuuuuuuuvio. Com’è scivoloso, questo nome: pronunciato ad alta voce sembra sbrodolare fuori dalla bocca – come vino, come la tua stessa saliva – sfuggire alla morsa dei denti, alle mucose della lingua, e farsi aria, attaccarsi a tutto ciò che incontra.
Dicono che nel suo cuore ci sia l’inferno, o forse un paradiso e mezzo.
Un giorno decisi di scalarlo, imitando Goethe nel 1787. Partii da Ercolano, proprio come il filosofo tedesco, a metà del mio inerpicamento mi accolse un coro da tragediagreca: quattro sagome altissime e incappucciate, così mute che riuscivo a sentire quel sibilare di coralli sotto la superficie della pietra vulcanica, un sobbollire, un moltiplicarsi di insetti raccolti in colonie che mi pungevano le piante dei piedi. Volevo tornare indietro. Il cielo era di un biancoslavato, le quattro punte affilate dei cappucci, contro quel candore, parevano lame. Volevo tornare indietro.
D’improvviso qualcosa mi urtò la spalla: un uomo distinto, con una bombetta in testa e un bastone da passeggio, mi superò camminando arzillamente.
“Forza, forza” esortò, “seguitemi. Non teniamo tempo da perdere”.
Le figure scure erano scomparse. La sua vocina fanciullesca, il passo vivace, i capelli dolcemente arricciati, l’abbigliamento così anacronistico, tutto in quel signore mi convinse a dargli retta. Perché? mi domandai. Perché no? mi risposi.
“La strada l’ho fatta costruire io!” esclamò, precedendomi di qualche passo, “la strada percorribile per raggiungere in agilità il cono del vulcano. Voi lo sapete che prima si doveva salire qua a dorso di mulo? Che barbarie. Ma venite, ci sono i notabili che aspettano”.
Avanzai mettendo i piedi dove li metteva lui, attenta a non inciampare nelle crepe, nei sassi, nelle colate delle cascate laviche ormai indurite dal tempo. Sembravano fiumi di liquiriziacongelata.
“Scusate” azzardai, “chi siete? Chi erano quelle quattro figure?”.
L’uomo si voltò di sbieco senza arrestare il cammino.
“Lasciate stare. Cornacchie del malaugurio che cercano di spaventare le genti. Ma per fortuna avete incontrato me. Non temete. Però affrettiamoci sinnò i notabili si spazientiscono. E poi io ho solo il compito di portarvi addentro”.
Dentro? Dentro dove?
“Lo sapete che i pompeiani non conoscevano la vera natura del Vesuvio?” aggiunse, “pensavano fosse un montarozzo qualsiasi. Povere genti. Non sapevano. Non sapevano”.
Mi sorprese non tanto l’ignoranza del popolo antico, quanto la somiglianza tra me e loro: conoscevo, io, la sua vera natura? Ogni tanto qualcuno mi chiedeva come ci si sentisse a vivere ai suoi piedi, svegliarsi e trovarlo lì, immutabile, eppure vivo, solo dormiente. Non sapevo dare una risposta. Sarebbe stato come tentare di spiegare il sonno, il dormiveglia, lo stupore, la vita. Ci nascevi, o lo sceglievi, e ti adattavi.
Arrivammo sul cratere. Davanti a me si apriva una cavità immensa, solo apparentemente morta e deserta, ma lungo le pareti scoscese del cono notavo minuscole frane, e un rumore di viscera, cavernosa, millenaria, ammaliante, la sentivo strisciare sotto la pelle, dietro la nuca, rizzarmi i peli delle braccia. L’uomo era accanto a me, mi guardò, sorrise.
“Sono il Cavalier Antonio Matrone, scostumato io a non presentarmi poc’anzi” disse, afferrandomi per un baciamano, “bene, preparatevi a saltare”.
Non ebbi il tempo di registrare l’ultima parola che mi diede una spinta. Caddi nel cono del Vesuvio, nell’imbuto di fuoco pigro, nel monte di mezzo, nel cui mezzo ora vorticavo io.
Mi svegliai lungo le sponde di un fiume dall’acqua di piombo. Non avevo niente di rotto, ma un sottile rivolo di sangue mi colava da una narice. Stavo per pulirmi con la manica quando mi venne offerto un fazzoletto candido. Alzai lo sguardo: un altro uomo, ugualmente distinto e abbigliato in modo ancora più bizzarro, sorrideva dall’alto. Lui lo riconobbi subito: era Goethe.
“Mi rincresce molto il trattamento villano del Cavalier Matrone. Abbiate pazienza, è stirpe del Vesevo”.
Portava una giacchetta dai risvolti di raso e una camicia di un bianco abbagliante, spillata da una sciarpa dello stesso colore. Aveva gli occhi piccoli, le guance rubizze e capelli grigi come un paio di ventagli ai lati delle tempie. Era alto, ben piazzato. Mi fidai anche di lui. Mentre mi aiutava a tirarmi su, notai che faceva un caldoinfernale.
“Dove sono?” chiesi.
“In una località felice” rispose, cominciando – pure lui – a camminare, “all’interno del volcano”.
“Perché?”.
“Perché abbisogna che conosciate i notabili, e i notabili da questo loco non si muovono”.
“Che notabili?”.
“Venite e vedrete” replicò, “ah, solo una raccomandazione: prestate un poco di accortezza a Messer Rosa. Come posso dire? È un poco fumantino”.
Finalmente ebbi l’idea di guardarmi intorno: una grotta in penombra, tra scintillii incrostati di stalattiti e stalagmiti d’avorio. Dal fondo, di fronte a me, proveniva una luce morbida e rassicurante e un refolo d’aria più fresca. Istintivamente mossi un passo in quella direzione, poi mi bloccai perché insieme al vento giunse un rumore di piatti, di posate sbattute contro la ceramica, di risate, di pernacchie, e una musica. Aguzzai l’udito. Ferdinando Russo? Mi sfiorai la testa per verificare che non avessi preso qualche botta nella caduta.
“Dunque?” mi esortò Goethe, “venite o no?”.
Passata la soglia mi ritrovai su un terrazzo dipinto di sole, affollato da un gruppo di persone allegrissime che si intrattenevano intorno a una lunga tavolata imbandita con ogni bendidio. Era proiettata verso il vuoto, verso il golfo, ma qualcosa non tornava: il Vesuvio non c’era. Mi provocò un violento sfasamento, quell’assenza, quasi un atto di ribellione dei miei organi interni che protestavano per ciò che ritenevano monco, innaturale, un panoramastorpio. Poi capii che ci ero esattamente dentro, e forse quella davanti ai miei occhi era solo un’olografia, un sogno in un sogno.
Mi domandai come sarebbe stata la città senza di Lui. Più bella non di certo. Più cauta? Meno coraggiosa? Meno fatalista?
“Se nessun napoletano vuol andarsene dalla sua città, se i poeti locali celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole1” disse Goethe.
Vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze. Ma non era proprio perché esisteva che restavano? Forse se non ci fosse stato se ne sarebbero andati tutti. Anche io avrei voluto uscire dal sogno perché non lo vedevo, non lo sentivo, quel vuoto, laddove mi aspettavo di trovarlo, urlava “torna!”. Era l’assenza che turbava, non l’abbondanza. A me sarebbero andati bene anche quattro Vesuvii, uno per ogni punto cardinale, ognuno con il proprio nome e aspetto: Vesuvio, Vesuvietto, Vesuvione, Vesuvino. Ci avrei abbinato anche un aggettivo: vesuviale – non vesuviano, che esisteva già – con questo suffisso che ricordava qualcosa di accademico, dignitoso, nobile.
Io mi sentivo vesuviale: imperturbabile fuori, ribollente dentro.
“Guglielmì! E basta cu ’sti chiacchiere! Porta ’ccà ’a signurina!” urlò un uomo, alzandosi da tavola e sollevando un bicchiere di vino rosso.
Goethe sorrise, poi si abbassò per sussurrarmi all’orecchio: “Come vi dicevo poc’anzi, attenzione a Messer Rosa”.
Sembrava un moschettiere, abbigliato come un moschettiere e coi baffi di un moschettiere. Basso ma dall’aria satiresca, selvaggia, quasi boschiva. Salvator Rosa. Mi afferrò per un braccio e mi fece sedere tra lui e una donna avvenente, di una bellezzandalusa, il capo velato da una rete d’argento e lo sguardo sfacciatomalizioso. Profumava di sonno, come quelle stanze chiuse troppo a lungo di notte, piene del respiro di chi ci dorme e non si sveglia mai.
La confusione era terribile eppure piacevole: contai quindici persone, spaiate per abiti, acconciature, calzature, modi di fare e di parlare. Tutte però sembravano conoscersi da molto tempo, si avvertiva una complicità solida, e giusto qualche scaramuccia qua e là. Salvator Rosa mi piazzò tra le mani un calice di vino, poi mi schioccò un bacio sulla guancia. La donna accanto a me sorrise, poi sussurrò: “Io sono la principessa Maria D’Avalos”.
Quella notizia accese la lampadina: i notabili. Corressi il tiro: i notabili vesuviali. Raffaele Viviani – Papiluccio, com’era chiamato in famiglia – e Salvatore di Giacomo erano in un angolo del tavolo, quasi nascosti da un imponente cesto di ciliegie e tre o quattro caraffe di vino, il primo intento a declamare leggendo da un foglio scarabocchiato con rabbia, il secondo conversando amabilmente con un cardellinogiallo che se ne stava appollaiato sul suo dito.
Non sapevo come, ma riuscivo a sentire quello che gli stava dicendo.
“Vulite ’o vasillo?” chiedeva all’uccellino, “eh? Peppiniello? Vulite ’o vasillo?2”.
E gli posò un leggerissimo bacio sull’ala sinistra.
Viviani intanto urlava: “Ah! chilli piezz’ ’e carogna! Vanno dicenno ca io so’ spirato, pecche nun m’hanno pututo spillà danare! ’E capito? Mo se sparge ’a voce ca io so’ muorto e nun me paga nisciuno cchiù. Io nun tengo niente! Sto buono! Sto buono! Jatevenne! Jatevenne!3”.
Ero presa dall’ascolto quando Messer Rosa mi ficcò un gomito nel fianco.
“Quanti chiacchiere fanno ’sti grandi prufessori. A me m’interessa solo l’arte, e ’o vvino. E le femmine, è chiaro. Ve pozzo fa ’nu ritratto? ’O sapite, quando stavo a Roma, in compagnia di pittorucci olandesi e fiamminghi, ci chiamavano così: ‘falsari e guitti e facchini, monelli, tagliaborse…stuol d’imbriachi e gente ghiotta, tignosi, tabaccari e barbierie’. E nun ve pare a vvoi che è la stessa cosa qua? Sulo che noi, in più, siamo pure vesuviali”.
E mi fece un occhiolino, accompagnato da un altro bacio sulla guancia. Mi spazientii.
“Si può sapere che ci faccio qui?”.
Goethe nel frattempo aveva raggiunto l’altro lato del tavolo e si era accomodato vicino a una donna minuta sulla cinquantina, vestita come un’operaia, con la testa coperta da un cappello alla pescatora. Maddalena Cerasuolo. In fila, come anelli di una catena, al suo fianco c’erano Filomena Marturano, Luisa Sanfelice, Maria Puteolana, Fra’ Diavolo, Masaniello e Giambattista Basile. Davanti a quest’ultimo, posato sul tavolo, languiva un libro voluminoso, sul dorso vellutato il titolo “Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille”.
“Voi state qua perché dovete andare a dire a quelli là di sopra che ’ccà nun ce sta l’infierno, ma ’nu paraviso e miezzo” rispose Rosa.
Maria D’Avalos tossicchiò, attirando la mia attenzione, e mentre si infilava in bocca uno spicchio di susina aggiunse: “Mi chiamarono bagascia, perché m’innamorai de lo duca D’Andria, e lui di me. Lo sapete, ero molto bella a quel tempo. Il mio terzo marito ci assassinò, per gelosia, e appese i nostri corpi ignudi sulla scalinata de lo Palazzo di Sangro. Io e lo Duca di Carafa siamo ancora là, a cantare di notte, per tutti l’innamorati infelici e sfortunati. Andate a dire a quelli di sopra che è peccato ammazzare lo vero amore, che non è solo un paradiso ma ben due, uno per ciascuno, per chi ama e per chi viene amato”.
Distolsi lo sguardo, soffermandomi sul panorama. Il Vesuvio continuava a mancare, in tutti i sensi. Un paradiso per chi ama e uno per chi viene amato. Io amavo il Vesuvio, ma lui amava me? Amava quelli di sopra? Non c’era che da chiederglielo, visto che ero in una condizione straordinaria e irripetibile, ovvero nelle sue viscere.
“Hei, tu! Monte di mezzo!” urlai, sorprendendo i miei vicini, “mi ami o no?”.
Da parte del vuoto, silenzio. Continuava a risuonare in sottofondo la musica di Ferdinando Russo quando davanti al sole passò una nuvola e l’aria si fece gelida, per un attimo solo. Alle spalle di Goethe ricomparvero le quattro figure incappucciate. D’istinto feci per indietreggiare, ma Messer Rosa afferrò il mio polso e guardò come a dire “non è niente”. Quel suo tocco mi acquietò, allora notai che i cappucci a punta erano tre. L’ultimo era tondo, calato sul viso di un uomodibronzo, con i bordi mangiucchiati da fiammelle ancora accese. Esili spire di fumo si sollevavano dal suo corpo. Riconobbi in lui Giordano Bruno. Non aprì bocca, ma la sua voce echeggiò ugualmente.
“Allora io, rivoltomi da quella parte con i miei limpidi occhi, contemplando quella figura informe e percorrendo con lo sguardo il suo aspetto, nient’altro che un ammasso nerastro di terra, dissi: quello con il dorso prominente, quello con la schiena curva e dentellata, che raggiunge e fende il cielo? […] Ma tu, sorridendo: eppure è mio fratello e mi ama, e vuole bene anche a te. Osservalo bene, dunque, e non disprezzare le sue blandizie. So che non farà niente che ti sia molesto, e se non vorrai rimanerci ritornerai”.
Anche Giordano Bruno era vesuviale.
Quel pensiero disinnescò le spire del sogno, il mio corpo si fece bolla, i piedi si staccarono da terra e io mi ritrovai in aria, galleggiando, per nulla spaventata come fosse la cosa più naturale al mondo. Il bicchiere di vino mi scappò di mano, Messer Rosa lo afferrò con un gesto felino e lo ingollò tutto d’un fiato. Poi alzò il braccio in segno di vittoria.
“E non solo i pittori eran poeti, ma filosofi grandi, e fûr demonii nel cercar di natura i gran segreti” mi urlò dal basso.
Maria D’Avalos tirò fuori un fine fazzoletto dal corpetto e prese ad agitarlo nell’aria.
“Ricordate i due paradisi!”.
Infine volai. Sotto di me comparve Napoli, una napoliminuscola, fatta di amori minuscoli e dolori immensi, pene color violetto che serpeggiavano infilandosi tra i palazzi e le strade e le piazze. Allargai le braccia come a volerla proteggere – tutta per me – poi però la vidi: una fiumana di gente che fuggiva disperata. Il Vesuvio continuava a negarsi. Alle loro spalle, come angeli dell’Apocalisse, stavano le figure incappucciate che erano tornate a essere quattro, avanzavano a passo marziale e ciò nonostante la folla non riusciva a seminarle.
Ciò che mi inquietò di più non fu il mio volo o la paura o la solitudine, ma quello che avevo intorno, un cielo che nonerapiùuncielo: pareti di magma solido avvolgevano il mondo e una cupola aperta in un oculus gravava sopra la mia testa. Ero ancora all’interno del vulcano, appena al di sotto del suo cratere: in qualche maniera si era espanso e ingigantito, inglobando la città, condizione che era – evidentemente – manifesta da sempre, ma nessuno se n’era accorto mai, e tutti scambiavano le sue viscere per il firmamento, il suo nucleo per il mare e il suo respiro infuocato per un vento che proveniva da chissà che terra lontana, non sapendo che era Lui stesso ad alitargli addosso, a plasmare le loro vite, a renderli spauracchi, copiacarbone di vere esistenze, nient’altro che fantasmi di vapore e cenere.
Eppure correvano. Le quattro figure proseguivano la loro marcia funebre, quel miasma violetto s’incendiò, diventò neon, lava, bolle di fuoco che si gonfiavano gonfiavanogonfiavanogonfiavano finché non mi accorsi che il Vesuvio stava per smettere di essere un imbuto pigro, stava per vomitare, sbrodolare – Vesuuuuuuuvio – anche me, insieme a tutto il resto.
“Ricordate i due paradisi!”. La voce di Maria. La vidi, piccolaformica, che mi salutava con il suo fazzoletto. Era nuda e rideva. Accanto a lei un uomo giovane, bello allo stesso modo, Salvator Rosa, che ballava come un Pulcinella sbeffeggiando la morte. No, la città non avrebbe fatto la loro fine, non sarebbe stata esposta alla mercé del tempo, nuda e violentata dai cani, chiamata falsaria e guitta e facchina, monella e tagliaborse. Dovevo impedirlo, dovevo dire alle genti di sopra di aprire gli occhi.
“Amate e siate amati!” urlai a braccia larghe, mentre una corrente d’aria rovente mi spingeva verso l’alto.
La lava si appropriò pianopiano di ogni interstizio, ogni vicolo, scioglieva carne e ossa, ingoiando la terra. Ricordai anche le parole del Cavaliere Matrone: “Poveri genti. Non sapevano. Non sapevano”. La città sotto di me era ormai un mareincandescente. Qualcuno urlò: “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”.
Mi ritrovai sputata fuori dal cratere, emergendo in un vuoto cosmico: attorno a me non c’era niente, solo un biancoslavato, lo stesso di prima. Tutto – la vita e la morte, la felicità e l’odio, l’affanno e la gioia, l’imbroglio e la devozione – era rimasto incastrato dentro il vulcano, fuso in un unico impulso, un sentimento esclusivamente vesuviale. Allora capii che quel sogno, quella rapsodia di fiamme e assenza, non era che una metafora: ci affannavamo tanto a cercare fuori da noi quando avremmo dovuto scavarci dentro le budella per cercare le risposte alle nostre domande. Non più vivere come involucri cavi, ma riempire di paradisi ogni fessura, ogni angolo, ogni benedetta e maledetta fibra di noi stessi.
Ritorno al punto di partenza che mi sembrano trascorsi vent’anni. Sono nuovamente a casa mia, poco prima della scalata. Il cielo è tornato azzurrazzurro. Mi chiedo se non sia questo, l’inganno, questa quiete. Di fronte a me, al suo posto, troneggia il Vesuvio, per nulla turbato dalla mia ansia né da quella del mondo. È davvero, questa, una località felice, come ha detto Goethe.
Come faccio a mantenere il mio proposito? Come posso onorare le parole di Maria, di Salvator Rosa, la delicatezza di Di Giacomo, la rabbia di Raffaele Viviani? Guardo il vulcano: sono a sud, germoglia ancora in fioriture gialle, il profilo fumoso, languido, come fianco di donnadormiente.
Matilde Serao scrisse: “Vedi tu quella montagna ai cui piedi si stendono i bei villaggi bagnati dal mare, sui cui fianchi verdi cresce la vigna del vino generoso; vedi quella montagna striata da lugubri fasce nere? È lei che farà morire Napoli: così dice la leggenda profetica. Arde il fuoco liquido, bolle e schiuma nei fianchi della montagna e si accumula da secoli pel giorno funesto; di fuori appena una nuvoletta di fumo bianco ed innocente rivela il profondo lavorio. Correvano le bighe e le quadrighe per le vie di Pompeja la bella. Amavano al sole i leggiadri garzoni dalle tuniche bianche e le fanciulle dai candidi pallii, si vestivano di bisso e si profumavano di nardo le seducenti etere, correvano giovani e vecchi al foro, alle terme, ai teatri, sulle porte delle case erano sospese corone di rose olezzanti: la montagna volle e Pompeja morì. Quando la montagna vorrà, Napoli sarà distrutta: e il terribile e bel vicino che noi guardiamo con ammirazione e quasi con affetto, poiché egli è tanta parte della bellezza napoletana, sarà il carnefice. E nessuno ne saprà l’ora, né il giorno”.
Forse è per questo che siamo vesuviali: imperturbabili fuori, ribollenti dentro.
Prendo un foglio bianco e una penna. Come titolo scrivo: “Tre paradisi e un inferno e mezzo”.
Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso.
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Autrici Deborah D'Addetta Goethe letteratura Racconti Raffaele Viviani Salvatore di Giacomo Vesuvio