YGRAMUL #5 – Ultima fioritura

di Maurizio Totaro
copertina di Susan Orlok


Pensavo davvero che la scomparsa di Antonio Colavita potesse tirarmi un po’ su. Sarà brutto dirlo, specie per un uomo nella mia posizione, ma il nostro è un lavoro che si nutre delle disgrazie altrui. Quante cose ci diciamo solo per farcene una ragione.

Niko Colavita si era presentato in caserma per denunciare la scomparsa del padre una mattina di metà marzo. Le ragazze avevano lasciato il paese da anni, e da quando Paola era morta avevo cominciato a soffrire sempre più la mancanza di luce e calore dei mesi invernali. Nuvole basse si stendevano spesse come un sudario sull’abitato, su questa sutura di pietra e cemento cucita da una mano inesperta sul dorso della montagna. Il vento sputacchiava goccioline dʼacqua contro la finestra del mio ufficio. Al di là, un mare di cotone bagnato. La primavera sembrava ancora lontana.

Un’ultima occasione per fare la differenza, mi dicevo, forse solo per non scorgere l’ombra del mio stesso futuro dietro la sparizione di quell’uomo solitario. Erano cinque giorni che non rispondeva al cellulare, e così la notte precedente il figlio aveva deciso di mettersi in auto e percorrere i seicento chilometri che separavano Parma dal Gargano. Aveva gli occhi gonfi e i muscoli della mandibola che si contraevano sotto pelle.

«Poteva chiamarci e risparmiarsi la sfacchinata». Era l’invidia a parlare, non ero sicuro che le ragazze avrebbero fatto lo stesso per me. Cominciavo con il piede sbagliato.

«L’ho fatto, un paio di giorni fa, ma mi avete detto di stare tranquillo». Una risposta diplomatica sfumata di fastidio. Dalla scrivania di fronte l’appuntato si limitò a fare spallucce.

«Certo, non è una novità che mio padre non risponda per giorni. Ma da ieri il cellulare risulta irraggiungibile. Ho rintracciato un suo amico e mi ha detto di non vederlo da un po’».

«Che vuol dire un po’?»

«Una settimana, più o meno».

«E chi è questo amico?»

«Giovanni Baldassarre, uno dei compari del bar». Segnai il nome, anche se lo conoscevo già. «Prima di venire qui sono passato da casa. La macchina non era in garage. E ho avuto l’impressione che la casa fosse disabitata da più di una settimana».

«E cosa le ha dato questa impressione?»

«Il balcone».

«Il balcone?»

«Le piante sono tutte morte, saranno passati mesi dall’ultima volta che sono state annaffiate». Segnai anche questo e lo invitai a farmi strada.

Come la caserma, l’appartamento dei Colavita si affacciava sul versante sud del paese, il Golfo di Manfredonia ottocento metri più in basso. Il complesso residenziale – una serie di casermoni collegati da rampe scalcinate – risaliva all’inizio degli anni ottanta, quando il paese aveva attraversato un periodo di espansione urbanistica senza precedenti. Il petrolchimico in riva al mare aveva dispensato lavoro e tumori anche quassù. Il centro storico, con i suoi rioni di casette bianche arroccate sulla montagna, aveva cominciato a spopolarsi, fino a diventare un soggetto perfetto per le cartoline. La costruzione di una circonvallazione aveva sventrato le vecchie mura, così come il grumo di grotte in cui viveva ancora la parte più indigente della popolazione, trasferita in massa in un nuovo, ciclopico complesso di case popolari sul versante nord, a strapiombo sulla valle che separa il paese dalla Foresta Umbra.

Ero arrivato qui in quegli anni, fresco di promozione a brigadiere dell’Arma. Non era una destinazione gettonata, non offriva prospettive di carriera, eppure su di me il luogo aveva esercitato da subito un fascino selvaggio. Sceso dal treno a Foggia, il promontorio si era innalzato arido e massiccio come la sierra di un vecchio western. Sui tornanti che si inerpicavano verso il paese, le comitive di figli dei fiori fuori tempo, diretti alle spiagge di falesie, avevano confermato la sensazione di trovarmi al cospetto di una delle ultime frontiere del nostro paese. Un anno dopo avevo incontrato Paola in un campeggio vicino Mattinata, dove lavorava. Un altro anno ed eravamo sposati, poco prima che le risultasse impossibile nascondere la pancia.

Parcheggiai tra i piloni di calcestruzzo delle autorimesse. Di fianco ai citofoni una sfilza di cartelli vendesi. Oltre a quello dei Colavita, nel condominio restava solo un altro appartamento abitato, all’ultimo piano. Dal balcone un lenzuolo bianco sventolava in segno di resa. Ci vivevano un vecchio allettato e la badante moldava. La donna descrisse Colavita in due parole: riservato e cortese. Mai uno screzio. Buongiorno e buonasera.

La casa dei Colavita era buia, dalle fessure della tapparella filtravano deboli i raggi grigi del giorno. L’aria pungeva di detergente per pavimenti alla lavanda. Niko accese la luce.

«Ho messo un po’ a posto stamattina, la casa era abbastanza un casino», disse. I discreti e gli ordinati sono i nemici peggiori delle indagini.

Diedi un’occhiata veloce alla camera da notte. Il letto rifatto, la graniglia del pavimento che brillava sotto un vecchio lampadario in ottone. Secondo Niko il padre non la utilizzava da anni, preferendo la branda in soggiorno. Padre e figlio erano tornati a vivere qui trent’anni prima, nel 1993, quando Niko aveva quattro anni. Non ricordava nulla di Stoccarda, dove era nato, e dove il padre aveva lavorato come operaio nell’industria automobilistica e conosciuto la madre. Non la vedeva né sentiva da anni. Ebbi l’impressione che la ritenesse in qualche modo responsabile della distanza che si era venuta a creare tra sé e suo padre. Nascondere i propri sensi di colpa in luoghi inaccessibili era una tecnica che conoscevo bene. Appena diplomato si era trasferito a Parma, dove era diventato infermiere. Con il passare degli anni tornava in paese sempre più di rado.

«Qui ci sono rimasti solo i fantasmi», commentò facendomi strada in soggiorno. Era la stessa cosa che dicevano le mie ragazze.

La branda era addossata al muro destro della stanza, di fianco alla porta smerigliata della cucina. Nel mezzo, un tavolo rotondo in legno con una tovaglia ricamata.

«Si sieda, le preparo un caffè».

Sulla parete, una serie di quadri disposti in cerchio sembravano raffigurare episodi di vita locale di un passato imprecisato. Mi alzai per osservarli meglio. Nel primo, un gruppo di persone  raccoglievano fiori su un terrazzamento, sotto un cielo terso e pesante come una cupola. Sullo sfondo, la cinta delle vecchie mura. La scena doveva risalire a prima che venisse costruita la circonvallazione. In alto alla sua destra, un altro quadretto con delle sagome ritratte di spalle. Fianco a fianco, osservavano un panorama che solo loro riuscivano a vedere. Si tenevano per mano, dai palmi stretti un liquido verdastro colava a formare delle piccole pozzanghere sul terreno brullo. Un altro ancora sembrava rappresentare una festività, con gente che danzava attorno a un fiore imponente, i petali che si confondevano con i colori infuocati di un’alba o un tramonto. L’ultimo era astratto, lame di pastelli che si sovrapponevano e incuneavano nell’impasto di un panorama informe. Notai nei quadri un forte contrasto tra il paesaggio – rigoglioso, multicolore e ben definito – e le figure appena abbozzate che lo popolavano, i contorni sfuggenti e i volti perlopiù privi di lineamenti, quando i soggetti non erano raffigurati di spalle. La disposizione mi ricordò le stazioni della Via Crucis, come se nella sequenza di immagini fosse iscritta una storia sacra e terribile. Avvertii un senso di vertigine mentre gli occhi seguivano il cerchio.

Niko tornò con il caffè: «Venga, le mostro il balcone». Attraversammo il cucinino, le piastrelle verde smeraldo patinate di grasso.

Le piante erano marcite per mancanza d’acqua o per eccesso di pioggia. Una massa indistinta di steli neri e foglie putrescenti era tutto ciò che restava di quello che un tempo doveva essere stato una sorta di giardino botanico in miniatura. Prima di questo olocausto floreale le nodose costruzioni ormai secche dovevano aver ricoperto i muri, attorcigliandosi ai sostegni in fil di ferro piantati ad arco nella terra, pendendo dai pergolati ricoperti di infiorescenze. Nei vasi in coccio la muffa ricopriva il terriccio. Dai sottovasi esondavano acqua e insetti morti.

Ringraziai Niko per il caffè e gli consigliai di riposare. Mi sarei fatto vivo io. Sarei passato dal bar per fare quattro chiacchiere con l’amico del padre, Baldassarre. Pensai di rassicurarlo facendogli notare che la negligenza verso le piante non provava granché rispetto alle tempistiche della scomparsa. Non mi sembrò convinto, e non lo ero neanche io.

Le nuvole erano salite di quota, avviluppando tutto in una coltre impenetrabile. Accesi gli antinebbia e misi in moto. Ricurvo sul parabrezza, mi feci guidare dalla memoria e dalla segnaletica orizzontale. C’era traffico, i fanali gialli donavano alla coltre una consistenza spugnosa, un ectoplasma di luce e vapore che si insinuava tra le crepe e i buchi sulle facciate degli edifici.

Il bar era un alone confuso al capolinea degli autobus. Uno di quei bar dove gli amari nazionali vanno per la maggiore. Lavoratori a giornata, disoccupati e sottoccupati, illusi e delusi. Quando le ragazze erano state adolescenti, il marciapiede davanti all’ingresso pullulava di uomini in riga per godersi lo spettacolo. I giovani competevano per un ghigno che comprovasse la loro virilità agli occhi degli altri, petto in fuori e gambe larghe. Intimoriva anche noi. Ci veniva suggerita cautela durante i controlli.

Quanto erano invecchiati presto e male quei giovani. Alla radio Vasco Rossi si illudeva che bastasse riavvolgere un nastro per risolvere tutto. Salutai il proprietario e mi diressi verso il retro.

Le slot machines tintinnavano tristi motivetti elettronici, gli avventori sugli sgabelli, ripiegati nei loro bozzoli diafani di fumo e indifferenza. In fondo, sopra i tavoli da gioco, gemeva un aspiratore, dagli angoli il muschio saliva umido sulle pareti. Le carte schioppavano sui tavoli. Baldassarre fumava, reclinato all’indietro, gli occhi due fessure per non accecarsi con la sigaretta mentre guardava le carte. Ricordargli il divieto non sarebbe stata la cosa migliore se volevo delle informazioni. Presi una sedia da uno dei tanti tavoli vuoti e mi sedetti.

Avevano lavorato insieme al petrolchimico. Ogni tanto a fine turno venivano qui per rilassarsi. Poi c’era stata la cassa integrazione e il bar era diventato il loro ufficio di collocamento. Sghignazzarono. Baldassarre posò le carte e la sigaretta, senza spegnerla. Mi guardò per la prima volta da quando ero entrato.

«Che le devo dire, Colavita si è… ingentilito, poverino», disse sornione, e gli uomini al tavolo sghignazzarono di nuovo.

«Secondo me se n’è andato un poco di testa» rimarcò uno con i capelli a spazzola incuneati nel mezzo nell’inutile tentativo di tenere fronte e nuca separati. Un altro fece un gesto eloquente ruotando un dito tozzo:

«L’ho visto passeggiare da solo sulla circonvallazione, pure di notte e a prima mattina».

«Quando è stata l’ultima volta che l’avete visto?»

«Una settimana, dieci giorni fa?» Baldassarre si guardò intorno in cerca di approvazione. Gli altri annuirono «Non viene più tanto qua. Sta sempre a buttare soldi dai fiorai». La bocca increspata in una smorfia.

I Caspio erano oggetto di facili battute. Imparentati alla lontana con uno dei clan del paese,  gestivano l’ultimo negozio di fiori rimasto, a due passi dal cimitero. Per vent’anni, una diatriba legata a pascoli e bestiame era degenerata in una faida sanguinosa, lasciando morti ammazzati nelle strade e decine di casi di lupara bianca in crepacci e burroni, o nei pozzi artesiani delle masserie. I fiorai erano sempre risultati estranei agli eventi. Leggenda voleva che concimassero i loro vivai con i resti delle persone scomparse. Nei fatti non erano che dei sempliciotti. Da qualche anno i sopravvissuti alla faida avevano pensato bene di lasciare la montagna per mercati più redditizi. Loro erano rimasti. Il declino del paese era andato di pari passo con quello della criminalità.

«Non sono come gli altri della famiglia, questi sono peggio. Quelli almeno c’avevano le palle. Si facevano rispettare. A modo loro erano dei signori. Questi fessi fessi si fanno i soldi e pensano pure di essere meglio degli altri. Tipo il figlio, Marcello, che fa tanto lo scienziato». 

Le parole di Baldassarre suonavano familiari. Senza più morti per le strade il crimine aveva assunto i contorni della leggenda. Qualsiasi cosa pur di intrattenersi tra le macerie del presente.

Neanche il tracollo psicologico di Colavita mi convinceva. Per questi uomini la normalità era starsene al bar a bere e giocare a tressette. Bastava poco per essere considerati degli squilibrati.

«Aveva debiti con i Caspio?» la pista dei soldi mi sembrava più concreta.

«Può essere, marascià», Baldassarre doveva credere che con l’avanzare dell’età fossi avanzato anche di grado. Glielo lasciai credere.

Sfilò una sigaretta dal pacchetto, lasciandola pendere incerta tra le labbra. Annuii. Sorrise, la accese e riprese in mano le carte. La conversazione era finita.

Erano stati i Caspio a preparare le ghirlande per il funerale di Paola, anche se non ricordavo di averci avuto a che fare di persona. A occuparsi di tutto erano state le ragazze. Avevo attraversato la malattia e il lutto come un affronto personale. Non me lo avevano mai perdonato. Osservai il cielo fuori dal bar e il cielo ritornò il mio sguardo. Rientrai in auto. Restava ancora mezz’ora prima che le attività commerciali iniziassero a chiudere. Imboccai la circonvallazione e costeggiai il centro storico. Filari di case premevano uno sull’altro come arcate di denti dallo smalto rovinato, gli apparecchi dei ponteggi e degli assi di rafforzamento invisibili dietro la cataratta atmosferica. In alto, il campanile della chiesa fluttuava come un monolite alieno di un vecchio film in bianco e nero.


Uscii dalla circonvallazione, scendendo verso quanto di più simile a una zona industriale fosse emerso negli anni. Lamiere, recinti di ferraglia ed elettrodomestici, officine e autorimesse per camion e scavatori, marmisti e pompe funebri. L’economia della morte accomunava persone e cose. I filari di cipressi del cimitero cominciavano poche decine di metri più avanti alla piazzola occupata dai fiorai.

Dubito che mi avesse visto avvicinare, o uscire dalla macchina, quando lo chiamai. Di spalle, aveva appena chiuso a chiave la porta del negozio. Quando lo chiamai di nuovo, più forte e più vicino, invece di voltarsi iniziò a correre verso gli alberi. Da qualche parte dei cani abbaiavano. Bastarono pochi metri di corsa a farmi ricordare quanto non fossi più un ragazzino. Piegato con le mani sulle ginocchia, l’aria fredda e bagnata mi perforava il petto a ogni respiro. Smettere di fumare dopo la malattia di Paola non era servito a granché. Attorno, i filari di cipressi si erano trasformati in un labirinto evanescente. I passi dell’uomo si avvicendavano veloci e sempre più lontani. Rimasi a prender fiato ancora per qualche minuto, prima di informare la pattuglia in servizio. Mi raccomandai di non dare spettacolo se avessero incrociato Caspio padre o figlio.

Il giorno dopo si presentarono entrambi volontariamente in caserma. Caspio padre, Domenico detto Mimmo, incensurato, di anni sessantadue. Sfoggiava una tuta acetata e capelli troppo neri per la sua età, senza però la spavalderia che associavo a quello stile; le spalle incassate contorcevano i riflessi fluo della tuta. Teneva il figlio per il braccio.

«Lo deve scusare, brigadiè, il ragazzo è un po’ pauroso. Sa, con tutte le cose che dicono di noi, la famiglia e tutto quanto, si è preso paura ed è scappato. Tutto qua».

Il giovane restava in silenzio, come abituato a una prassi. Marcello Caspio, anche lui incensurato, di anni trentadue, aveva la faccia stanca di chi non ha dormito e gli occhi bagnati di chi ha dormito troppo. Un accenno di sorriso sulle labbra tagliate con l’accetta.

«E ieri sera dove eravate?»

«Da degli amici in campagna» fu sempre il padre a parlare. «Può controllare, una cena». Diede una pacca sulla spalla del figlio. «Sta imparando, il ragazzo. E deve imparare per forza, perché tra qualche anno la baracca passa a lui. Io e mia moglie ci siamo stancati di fare questa vita». 

Non pensavo che fare i fiorai fosse così faticoso, e se tra i due c’era qualcuno che sembrava stanco quello era Marcello. Che aveva abbassato la testa. Sembrava stesse ridacchiando. Il padre non se ne accorse, o fu molto abile a far finta di niente. Gli chiesi se potevo fare due chiacchiere con il figlio. Senza attendere risposta lo pregai di accomodarsi fuori per qualche minuto. Invitai Marcello a sedersi.

«Conosce Antonio Colavita?»

«Sì, lo conosco».

«E come lo conosce?»

«È un nostro buon cliente».

«Viene spesso?»

«Abbastanza».

«Quando l’ultima volta?»

«Più o meno una decina di giorni fa».

«E poi?»

«E poi cosa?»

«E poi non lo ha più visto?»

«Oh, sì che l’ho visto».

«Quando?»

«Un paio di giorni fa».

«In che occasione?»

«Siamo andati a fare una passeggiata».

«Una passeggiata?»

«Sì, ci andavamo spesso».

«Allora non è solo un cliente, siete amici».

«Antonio è un grande appassionato del nostro territorio, come me. E stava imparando a conoscerlo davvero».

«E dove siete andati?»

«Sotto la circonvallazione, dal lato delle vecchie mura. Nei terrazzamenti».

«Non mi sembra granché come destinazione escursionistica».

«Oh, ma non è mica una destinazione, è la partenza».

«E cosa ci siete andati a fare?»

«Abbiamo raccolto delle orchidee prima che arrivasse la nebbia».

«Le orchidee?»

«Sì, Antonio ne è un grande appassionato. Sono il fiore all’occhiello del vivaio che tiene in balcone».

«Lo sa che è scomparso?»

«Chi, Antonio? Non credo proprio».

«Come?»

«Chi ama davvero la propria terra non la lascerà mai. Le nostre radici vanno molto più in profondità di quanto lei possa immaginare».

«E allora dove potrebbe essere?»

«Ovunque».

«Si rende conto che al momento lei risulta essere l’ultimo ad averlo visto?»

«Non credo proprio. Basta solo saper guardare…»

«Non la seguo».

«… e ascoltare».

«Ascoltare cosa?»

«Il richiamo».

«Temo di non riuscirla più a seguire. Il richiamo di cosa?»

«Della terra. Del paesaggio a cui apparteniamo. Antonio l’aveva sentito dalla Germania. Lei non è di qui, o sbaglio?»

«Questo cosa c’entra?»

«Glie l’ho appena detto».

«Senta, torniamo a noi. Dopo la passeggiata?»

«È tornato a casa. Non piacerebbe anche a lei tornare a casa?»

Lasciai aleggiare la domanda. Ero disorientato. Come da manuale, avevo incalzato l’interrogato con una serie di domande serrate per valutare il tempo di reazione. Marcello aveva risposto in maniera diretta e naturale, senza l’esitazione della colpa o le rigidità del teatrino. Quando aveva cominciato a vaneggiare di terra e appartenenza avevo avvertito uno scambio di ruoli, e mi ero irrigidito. Ero convinto che non avesse mentito, non c’erano elementi per trattenerlo. E allo stesso tempo avevo come la sensazione di trovarmi davanti a uno di quei poster che andavano per la maggiore qualche anno fa, con il ritratto di una star composto da un mosaico di piccoli tasselli indipendenti che potevi distinguere solo da vicino. Una questione di prospettiva. Da dietro alla scrivania potevo averne solo una. Dalla finestra alle mie spalle, la luce bianca gli trapassava la pelle sottile come carta velina. Seduto di fronte a me, riuscivo a distinguere i rovi di capillari che gli arrossavano le guance. Gli occhi, mai fissi, i movimenti che seguivano un loro ordine indecifrabile.

«Per Antonio i fiori della nostra terra erano un modo per connettersi con la storia locale», disse Marcello prima di uscire dall’ufficio.

«Chiuda la porta, per favore. Grazie». Pensai ai quadri nel soggiorno dei Colavita.

L’interrogatorio mi aveva fatto venire un gran mal di testa. La nebbia sembrava essermi entrata nel cervello. Mi presi il resto della giornata libero, e una bottiglia di vino prima di rientrare.

Cercai nella libreria un grosso volume illustrato sulla flora e fauna del Gargano, una di quelle pubblicazioni destinate a impolverarsi nelle vetrine della Pro Loco. Paola era stata un’avida lettrice. Da quando non c’era più avevo cominciato a prendere i suoi libri, anche solo per sfogliarli. L’odore di carta ingiallita mi confortava, me la faceva sentire vicina. Riempii un calice e mi accomodai in poltrona a leggere.

Sul promontorio fiorivano centinaia di specie di orchidee, alcune delle quali crescevano solo qui, come l’Ophrys garganica e l’Ophrys promontorii. Ogni anno se ne scoprivano e censivano di nuove. Con lo stile promozionale di questo tipo di pubblicazioni, il testo sottolineava come fossero “un’eccellenza del nostro territorio”, autentica culla di biodiversità. Come crescessero spontanee e fiorissero tra marzo e luglio. Come i visitatori potevano seguire diversi percorsi naturalistici per osservarle. E come fosse importante non estirparle, in quanto non fiorivano al di fuori del loro habitat naturale dove vivono gli insetti impollinatori. Il testo passava poi alle leggende, e alla figura mitica di Orchis. In una versione Orchis era un giovane di straordinaria bellezza, figlio di un satiro e di una ninfa, condannato a morte per aver cercato di sedurre una sacerdotessa di Dioniso durante una celebrazione in onore del dio. Le orchidee nacquero dai resti del giovane dilaniato dalle belve feroci, i testicoli trasformati nei ritozuberi ovali caratteristici del fiore. In un’altra versione Orchis sviluppava i seni durante la pubertà, assumendo connotati sempre più femminili. Emarginato sia dai ragazzi che dalle ragazze, si gettò da una rupe in preda alla disperazione. Dalle gocce del suo sangue gli dei fecero crescere una bellissima pianta. Sangue, bellezza, natura.

Mi tornò alla mente il termine con cui Baldassarre aveva descritto il cambiamento osservato in Colavita: ingentilito. E se fosse stato un eufemismo? Era possibile che la relazione tra Antonio Colavita e Marcello Caspio fosse più di una semplice amicizia? Che nelle loro passeggiate cercassero un luogo dove appartarsi per un po’ di intimità, lontani dalle malelingue del paese? Che fossero emarginati perché considerati diversi? Sulle foto del libro, le venature delle orchidee si intersecavano come la mappa stradale di un paese sconosciuto. Magari il padre non era tornato direttamente a casa. Magari lui e Marcello avevano bevuto, e dopo essersi separati Antonio era tornato sui terrazzamenti ed era caduto. Forse, come Orchis, si era buttato da una rupe. Avrei detto a Niko che avremmo perlustrato i terrazzamenti, anche se l’assenza dell’auto faceva pensare ad un allontanamento successivo e volontario. Mi sembrava l’ipotesi più sensata. Nessun incidente era stato segnalato in zona negli ultimi giorni. Poteva essere a fare un’escursione in un luogo dove non c’era campo. Probabilmente si sarebbe fatto vivo tra qualche giorno.

Niko non sembrò molto soddisfatto della spiegazione quando lo incontrai il giorno successivo. Era in partenza, non poteva più assentarsi da lavoro. Prima di lasciarlo andare, gli chiesi se conosceva Marcello Caspio, e se sapesse dell’amicizia che lo legava al padre.

«Sapevo che si frequentavano, sì. Per via della passione comune per la botanica, per le escursioni. Anche se sinceramente non saprei dirle altro, non sono argomenti che mi interessano. Marcello? Sarà un paio di anni più piccolo di me, ma non l’ho mai frequentato quando vivevo qui».

«Un’ultima cosa. I quadri, quelli a casa vostra».

«Li ha fatti papà quando ero piccolo. Stavamo ancora a Stoccarda. Sono una delle poche cose che si è portato dietro dalla Germania».

«Non sapevo che dipingesse».

«Quando siamo tornati qui ha smesso. Anche io faccio difficoltà a pensare che li abbia dipinti lui. È come se li avesse fatti una persona che non ho mai conosciuto. Non saprei come altro dirlo».

Gli lasciai il mio cellulare privato. Mi sarei fatto sentire io dopo la perlustrazione dei terrazzamenti. Lo pregai di fare lo stesso se il padre si fosse fatto vivo. La mia espressione infelice lo fece sorridere. Il vento stava finalmente spazzando via la nebbia, ricacciandola in alto, trasformata in nuvole che galoppavano veloci verso l’entroterra.


I venti portarono la primavera e le tempeste, e a metà aprile scoppiò il finimondo. La prefettura di Foggia aveva decretato lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni della criminalità organizzata. Affidamento di appalti, approvvigionamento di servizi, gestione dei fondi per la bonifica dell’ex petrolchimico. La notizia provocò il misto di panico e rassegnazione tipico delle apocalissi. Quanto a noi, in qualità di forze dell’ordine, fummo screditati del tutto. La barzelletta di una barzelletta. Il comando provinciale ci aveva tenuto all’oscuro, sospettando collusioni interne. Il maresciallo era stato costretto a dimettersi a causa di alcune foto che lo ritraevano a cena con affiliati dei clan in una masseria. Gli altri due vennero trasferiti. A me fu consigliato di approfittarne per andare in pensione con qualche anno d’anticipo, al termine della stagione estiva. In macchina, di ritorno dal capoluogo, le luci del paese avevano brillato ingannevoli come una costellazione morta.

In quel periodo facevo un sogno ricorrente. Ero sulla circonvallazione, i gomiti poggiati sulla ringhiera a osservare il panorama, i crepacci e dirupi che scendevano aspri e spogli verso il mare tempestato da un pulviscolo di luce. In lontananza, su un costone di roccia, sorgevano i ruderi di un paese, gialli come un castello di sabbia costruito da un dio bambino. Mi voltavo alla mia destra e, schermandomi gli occhi, osservavo due figure avvicinarsi, mano nella mano. Pensavo fossero le ragazze, e il cuore mi fremeva come un ovulo che aspetta da troppo tempo di essere impollinato. Arrivate più vicine, mi accorgevo che le figure non erano le ragazze, ma Paola. Entrambe. Condividevano una mano, così come il braccio che le univa fino alla spalla. Come gemelle siamesi. Si muovevano in maniera scomposta. Una Paola, giovane come quando l’avevo conosciuta, gli zatteroni ai piedi e una lunga gonna da gitana sotto una camicia bianca di lino, trascinava l’altra, debole e malata, ricurva, i piedi strascicati nella polvere. Mi accorgevo di avere una composizione di fiori in mano, un bouquet. Paola malata si sforzava di sorridere. Le porgevo il mazzo di fiori, e lei ne staccava i petali, imboccandoli uno ad uno alla giovane. Rimanevo a osservarle, il bouquet che si sfoltiva riducendosi a un fascio di steli spogli, mentre sotto la camicia di Paola giovane la pancia si ingrossava. Sorrideva anche lei ora, una poltiglia marrone pastello sui denti. Spalancava la bocca. La lingua un labello violaceo puntinato di bianco, le pareti della bocca i sepali di un’orchidea. Mi svegliavo di malumore, e gli strascichi del sogno ingobbivano ulteriormente le mie giornate.

Com’era prevedibile, le ricerche di Antonio Colavita vennero presto accantonate. Nei giorni successivi alla partenza di Niko avevamo setacciato i terrazzamenti intorno al paese, avvalendoci del supporto di un’unità cinofila, senza trovare nulla. Poi, con lo scoppio dello scandalo le priorità erano diventate altre. Reparti speciali della Polizia erano stati inviati per pattugliare gli ingressi dell’abitato, gli elicotteri perlustravano le zone interne alla ricerca degli stessi clan che avevamo creduto emigrati altrove. Più che altro uno spettacolo per i programmi di approfondimento in terza serata. I Caspio, la cui partecipazione alle cene in campagna era stata resa pubblica dai giornali, risultarono ancora una volta immuni alla tempesta. Cominciai a nutrire il sospetto che Antonio Colavita fosse scomparso perché testimone di qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Ma come è solito nei casi di lupara bianca, dal sospetto fiorirono soltanto sterili speculazioni.

Nonostante lo straordinario dispiegamento di forze sul territorio, fu un allevatore a ritrovare l’auto di Antonio Colavita, in fondo a un crepaccio in contrada Settocchi, al limitare della foresta. Era inizio giugno, chiazze di ginestre in fiore circondavano il paese. Sui tornanti, le auto dei turisti di passaggio iniziavano a dirigersi caute verso il mare. Carmine Treventi, di anni quarantacinque, stava pascolando il suo gregge di pecore, quando era stato richiamato dall’abbaiare del cane pastore sullo spuntone di una roccia. Sporgendosi, aveva notato la sagoma di un’auto tra le maglie della vegetazione. Una vecchia Fiat Panda 4×4, carrozzeria grigia. Vuota, nessun documento nel cruscotto, la targa rimossa, il numero di telaio illeggibile. Dovemmo usare una gru per recuperarla. La sera chiamai Niko Colavita.

«Ci saranno centinaia di Panda grigie da queste parti», cercavo di mantenermi cauto per non alimentare speranze, «però forse riesce a identificare qualche particolare».

«Stanotte sono di turno. Mi dia qualche ora per trovare un collega che mi sostituisce e domattina sono da voi». Le parole correvano per l’eccitazione. Non feci in tempo a dirgli che non c’era fretta che aveva già riattaccato. Quando al mattino seguente si presentò in ufficio venni travolto da una sensazione di déjà vu. Gli stessi occhi stanchi e la stessa mascella tesa di quando era venuto a denunciare la scomparsa del padre.

Lo sfasciacarrozze si trovava nella zona industriale nei pressi del cimitero. Lo usavamo per i mezzi sotto sequestro, in attesa che venissero riaffidati o demoliti. Il negozio di fiori dei Caspio si trovava qualche decina di metri più avanti. Mimmo Caspio e la moglie avevano lasciato l’attività a Marcello, che aveva fatto affiggere una nuova insegna con il nome del negozio: L’Orchidea. Il sottotitolo recitava “Dalla culla alla tomba”. La frase mi faceva venire i brividi.

Niko Colavita girò intorno al rottame, ispezionando la carrozzeria. Ridotta com’era sarebbe stato impossibile distinguere le ammaccature precedenti da quelle causate dalla caduta nel burrone.

«Vero, però i coprisedili sono gli stessi», passò con delicatezza la mano sui motivi romboidali schiacciati contro lo sterzo.

«Ma sono anche abbastanza comuni», gli feci notare.

Dissi la stessa cosa riguardo l’arbre magique caduto sul tappetino. Niko mi guardò di sbieco, poi annuì e lo sollevò.

Sotto al tappetino c’era un fiore secco, come quelli che Paola usava come segnalibri. Non avevo idea di che specie fosse, men che meno ora che i suoi colori si erano trasformati nell’anonimo marrone delle foglie secche. Di fianco al fiore una fotografia. Ritraeva suo padre in posa sul balcone verdeggiante, una mano sul fianco e l’altra poggiata a una pianta che gli arrivava all’altezza delle spalle. I sepali del fiore spessi e grinzosi come la sua mano. Il labello gonfio come un feto. Niko perse il colorito e la voce. Era la prima volta che vedeva la foto. Non aveva idea di chi l’avesse scattata.

«Penso che mi fermerò in paese per un po’» disse Niko, una volta rientrati in macchina. Guardava davanti a sé e da nessuna parte. Misi in moto. La sensazione che Marcello ci stesse osservando dall’ingresso del negozio continuò a premermi sulla nuca fino a quando non ci immettemmo sulla circonvallazione.

Nei giorni successivi al ritrovamento, Niko sparì dalla circolazione. Non rispose alle mie telefonate, né mi capitò di vederlo in giro per il paese. Avevo ricominciato a pattugliare le strade a piedi, in ossequio alle raccomandazioni del luogotenente arrivato per sostituire il maresciallo. Appena insediato, ci aveva tenuto a istruirci riguardo la necessità di riacquistare la fiducia della popolazione, adempiendo alla funzione di rassicurazione sociale che contraddistingueva il nostro operato in piccoli centri come questo. Il luogotenente parlava così. Mi presi il compito di fare da guida ai due nuovi agenti.

Avevamo risalito il paese, con l’idea di raggiungere la villa comunale con vista panoramica in cima. Durante il tragitto, il corso principale era ridotto ai suoi elementi essenziali: pietra, elettricità e vetro. Edifici ottocenteschi a due o tre piani, austeri e senza ornamenti, l’intonaco che si gonfiava sulle facciate. Qualche merceria, qualche alimentari, un tabaccaio. Nella vetrina dell’unico negozio di abbigliamento i manichini con le spalline suggerivano un’altra epoca e un’altra stagione, piena di sfarzi ormai fuori moda. Rifratta dal vetro, la luce obliqua del tardo pomeriggio ravvivava le paillettes e i tessuti sintetici. C’era poca gente in giro. Qualche anziano, qualche comitiva di ragazzini.

Arrivati in villa, notammo un assembramento di persone lungo le ringhiere del belvedere. Schiamazzi e urla si fecero più distinti man mano che ci avvicinavamo. Ci facemmo largo tra la folla.

«Andatevene, smettetela di fare foto» Niko urlava, agitando le braccia con le spalle al panorama. «Indegni, impuri, ignoranti!» Sputava contro un gruppo di turisti paralizzati, con i cellulari stretti al petto.

«Niko, che è successo? Vieni con noi». Lo presi per un braccio, trascinandolo verso una panchina. Aveva fili d’erba nei capelli e appiccicati ai vestiti, come se si fosse rotolato in un campo. Il colorito di un cadavere e gli occhi di un demonio. La bava raggrumata agli angoli della bocca.

«Questi non capiscono un cazzo, e neanche voi, neanche lei» si era rialzato dalla panchina, i due novellini lo tenevano per le spalle. «Il paesaggio non ci appartiene, siamo noi ad appartenere a lui», urlava sollevando il mento per il pubblico che ci aveva seguito. «Le nostre radici vanno molto più in profondità di quanto possiate immaginare».

Chiamammo la pattuglia e riuscimmo a farci entrare Niko dentro. In caserma si tranquillizzò, e riuscii a convincere i colleghi che non era necessario chiamare la guardia medica. Sembravano provati dalla scenata. Spiegai loro della scomparsa di Colavita. Mi sarei occupato io del giovane.

«Allora, Niko, qual è il problema?» 

«Nessun problema».

«Nessun problema?»

«Mi è venuto il fastidio».

«Fastidio di cosa?»

«Di tutta quella gente che si fa le foto col panorama. Sempre le stesse angolazioni riprodotte all’infinito. Trattano il paesaggio come una cartolina. Lo violano e lo profanano. E per cosa poi? Per mostrarlo ai loro amici in città, o sui social». Sembrava di star ascoltando Marcello.

«Che ti è capitato? Sono giorni che ti cerco».

«Ho avuto da fare».

«E che hai fatto?»

«Non lo vede, ho fatto una lunga passeggiata».  

«Da come sei combinato sembra che tu abbia strisciato, altro che passeggiata».

«Più vicini alla terra si è e meglio è».

«Scusa?»

«Dalla terra veniamo e alla terra torniamo. Lei dove ha le sue radici?»

«Le mie radici? Non saprei, probabilmente qui. È il posto dove ho vissuto più a lungo».

La risata che seguì raggelò i muri della stanza. Poi divenne improvvisamente serio.

«Non si preoccupi, domani riparto per Parma. La ricerca di mio padre come procede?» percepivo un’aria di sfida nel tono. «Ci sono novità?»

«Nessuna novità, purtroppo». Non c’erano mai stati indiziati e la pista più realistica restava quella dell’allontanamento volontario. Almeno ufficialmente. Il luogotenente aveva messo bene in chiaro le priorità, e la scomparsa di Colavita non era tra queste.

«Allora se non c’è altro io andrei», aveva riacquistato la compostezza a cui ero familiare. «Posso?»

«Solo se mi promette di lasciare il paese».

«Assolutamente. Faccio una doccia e parto. Domani torno finalmente a casa». Mi offrì la mano. Era sudata, la pelle bianca come carta velina, rovi violacei sotto.

Niko Colavita non tornò mai a Parma. Due giorni dopo esserci salutati, ricevetti una chiamata dalla moglie sul mio numero personale. Agitata, mi disse che non riusciva a mettersi in contattato col marito da cinque giorni. Da ieri il cellulare risultava spento. Per un attimo mi mancò l’aria. Cercai di rassicurarla. Poi uscii di corsa, entrai in macchina e mi diressi verso L’Orchidea. Da solo.

L’auto di Marcello era parcheggiata davanti all’ingresso del negozio, il portabagagli aperto. Rimasi in auto, in attesa. Questa volta non l’avrei inseguito a piedi, nel caso avesse cercato di scappare. Qualche minuto dopo fece capolino. Un grosso, oblungo sacco nero gli pendeva a peso morto sulla spalla. La forma era inequivocabile. Misi in moto. Mi vide. Chiuse il bagagliaio, entrò in macchina e partì veloce. Ci mancò poco che non ci scontrassimo quando mi passò di fianco. Feci retromarcia e lo inseguii sulla circonvallazione. Il piede a tavoletta sull’acceleratore.

Non saprei dire quante volte girammo intorno all’anello stradale. Alla controra il paese era ancora più deserto del solito. Non riuscivo a mettermi in contatto con la caserma, la ricetrasmittente uno sciame di vespe. Avevo intenzione di sorpassarlo per sbarrargli la strada, ma per quanto accelerassi non riuscivo a ridurre la distanza che ci separava. Cinque, dieci, venti giri? Le forme degli edifici che costeggiavano la circonvallazione iniziarono a perdere consistenza, come verdure in una centrifuga, le cromature del cielo che si increspavano, contorcendosi su loro stesse. Udii uno strappo violento, diffuso e senza origine, poi una moltitudine intensa di colori, una legione furiosa di raggi e riflessi predatori che squarciavano il panorama, torcendone i contorni in una carneficina di luce che franava ricomponendosi in tinte e linee impossibili. Luccicori iniettati di linfa e sangue, acqua e roccia, che smembravano la terra in granelli e pulviscolo e detriti. Un sisma senza terra aveva spalancato le faglie del cielo, rivelando interiora calcaree e spugnose, concatenamenti geologici e atmosferici che si riversavano dalla breccia in espansione, la terra e il cielo e il mare e la montagna che si fondevano, fecondandosi e divorandosi.

Ripresi i sensi tra l’olezzo di benzina e olio motore. Uscii dall’abitacolo, caddi a terra, mi rialzai. Il muretto a secco aveva impedito all’auto di cadere nei terrazzamenti sottostanti. Poche decine di metri più avanti sulla circonvallazione, l’auto di Marcello Caspio sembrava versare nelle stesse condizioni. Mi avvicinai zoppicante. Non ricordavo l’ultima volta che avevo usato una pistola. Il parabrezza era sfondato, il sedile e lo sterzo ricoperti da un liquido dolciastro che attirava gli insetti. Sotto al muretto, Marcello era riverso in una posizione innaturale tra la vegetazione del terrazzamento. Tornai all’auto e aprii il bagagliaio.

Il sacco all’interno era pieno di orchidee, centinaia di orchidee, alcune ancora con le radici. Ammucchiate com’erano, mi fecero venire in mente le immagini dei documentari sui campi di concentramento. Ne raccolsi una e inalai il lieve profumo che sprigionava. Era un esemplare magnifico: ali rugose di petali e sepali fucsia venate da un fitto reticolato ocra. Scacciai con un gesto secco l’ape che si era avvicinata al prorompente labello di lucido amaranto. Rimasi a osservarlo per qualche minuto. C’era qualcosa raggomitolato all’interno. Pulsava forte e veloce come il mio cuore.


YGRAMUL è una rubrica curata da Vargas.
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