di Amanda Rosso
copertina di Daria Pesce
Le amiche sono le amanti più crudeli. New York luccica come una stella del cinema e puzza come una vecchia barbona alcolizzata, il corpo impregnato di tutte le notti e tutti gli odori, l’asfalto impresso sulle palme dei piedi, i marciapiedi marchiati sulla pelle. La strada, con i tombini fumanti e i ratti grossi come cani che sgattaiolano dietro i venditori ambulanti di hot-dog, restituisce un riflesso della città decadente e vezzosa più accurato delle vetrine dei negozi a Natale, agghindate come debuttanti vergini ma prezzolate come prostitute stanche.
Alle cinque e trentasette di sera di un 24 dicembre di nevischio infido e stilettate di vento sul viso, il tuo corpo viziato dal placido ritmo dei sobborghi si fa materia malleabile. Disabituato alla folla, si scontra con la spalla di un impiegato di banca con il fiato alcolico, sfiora il fianco di una donna minuta con un cavolo cinese stretto al petto, si infrange sul gomito aguzzo di uno strillone, rimbalza contro il ginocchio di un macellaio con il grembiule costellato di impronte di sangue che scarica i suoi quarti di bue.
Le amanti sono le amiche più crudeli. Nonostante il cappotto di montone, ti muovi come nuda, senza la decappottabile color crema abbandonata alla stazione del Greyhound di Washington Bridge. Hai lasciato la capote abbassata, una spolverata di neve sui sedili, ricordi appiccicosi di carezze fugaci, scorribande notturne, sigarette, e una scimmia di pezza spelacchiata e senza un occhio, unica testimone oculare di una primavera lussuriosa e defunta, intrisa dell’odore pungente della vernice, il riflesso abbacinante del lucido per mobili antichi e l’inclinazione asimmetrica delle spalle lentigginose di Carmen.
Come nuda ti immergi nell’aria stantia della metropolitana, l’odore umido dei cappotti e la carta di giornale, ombrelli affilati che pungolano caviglie schizzate di fango. Frastornata da quel marasma di desideri, affanni, sguardi, tristezze, ire e distrazioni, riemergi, risucchiata dal ventre mai sazio della Herald Square, il profilo maestoso e un po’ decadente del grande magazzino in orario di chiusura, spompato come un pugile all’undicesimo round. Il guardiano diurno, arroccato nel suo bugigattolo di ferraglia, risponde con un’alzata di spalle alla tua domanda.
«Spiacente…signorina» non ti sfugge il sospettoso punto di domanda alla fine della frase. Ti squadra con l’espressione meditabonda di un uomo Chro-Magnon, registrando con occhi piccoli e arrossati l’assenza della fede nuziale all’anulare sinistro. «Bertha Novak non si è presentata oggi.» Osserva il tuo cappotto di montone e i mocassini di daino impellicciati, i ricci rigidi sotto la sciarpa grigia di lana pettinata, e si domanda cosa voglia una donna come te, con quella bocca carnosa e il naso diritto, la pelle liscia di chi non ha mai patito il vaiolo e le ossa forti di chi non ha mai soggiornato in un polmone d’acciaio, da una donna come Bertha Novak.
Come nuda, ti lasci sorreggere dall’ultimo conato di folla che si riversa nell’Independent fino a Lexington Avenue, la rosticceria di fronte ancora aperta, l’insegna baluginante nel gelo umido di una serata di vento e nevischio ma senza luna, un capannello di donne tese attorno alla cassa. Rassegnata, ti prepari alla gincana di palpeggiamenti della frutta, attenta selezione dei tagli di carne, aneddoti sbocconcellati, la cacofonia di accenti, pretese, negoziazioni e convenevoli.
Le amiche sono le tiranne più inflessibili. I mocassini fradici sciaguattano in una pozzanghera oleosa di fronte all’ingresso del palazzo della signora Novak, muri striati di muffa nera e un vago odore dolciastro di veleno per topi. Carmen la chiama signora, anche se un signor Novak non si è mai visto. Il nome sul campanello è quasi cancellato del tutto dall’umidità e l’incuria, ma riconosci l’appartamento del terzo piano dalla zaffata di bruciato che filtra da sotto la porta.
Poche ore fa, incastonate attorno al tavolo da pranzo, Olive, il mento aguzzo e gli zigomi alti addolciti da un caschetto ondulato, ha liquidato le tue domande con un gesto vago della mano destra. «Se la signora Novak non è da Macy’s, vuol dire che è troppo infiacchita dalle ernie per alzarsi dal letto.» La sinistra accarezzava distrattamente il dorso della mano di Carmen, intenta a picchettare una sigaretta sul ripiano della cucina, con studiati movimenti circolari, alla ricerca di un centro di gravità. «Solo dieci minuti», ha promesso, «il tempo di un saluto». Ti ha guardata come se l’evidenza del tuo dovere morale fosse quasi banale. Non può separarsi da Carmen nell’anniversario dell’incidente, quindi tocca a te occupartene, trascinarti nell’intestino sferragliante di New York per portare una busta della spesa traboccante di latte d’alluminio e frutta a una vecchia mezza orba che vive nel ghetto, pardon, la zona meno pittoresca della città.
Carmen era di nuovo distante, la terza tequila, che da sempre la rende malinconica e pensosa, luccicava nel caballito illuminato di traverso dal timido sole invernale che si affacciava su Madison Avenue. Hai sempre trovato ironica quella convivenza così precariamente americana: tracce del Barrio nei salotti di Madison Avenue, bicchierini di tequila fra i tumbler di whisky invecchiato in botti di rovere. Ingombranti le impercettibili inflessioni di Carmen, s troppo piene e r arrotate a schizzare di realtà l’inglese nasale e spocchioso di quegli autoproclamati lord e nobildonne. Olive, con la sua purezza virginale e angolosa, le sopracciglia quasi bianche e le vene azzurre in controluce a tappezzare di nobiltà il suo passaggio.
«Tze…kishke money» avrebbe proclamato Bubbe di quei lugubri tentativi di reinvenzione e radicamento. Alquanto inutile sarebbe stato farle notare le similitudini. Zotici arricchiti, li chiamava la tua nonna ebrea emigrata dalla Russia imperiale dopo i pogrom di Odessa del 1905, la collana di perle che sua madre aveva salvato chissà come stretta fra le dita artritiche dalle unghie smaltate. Leggenda narra che quello stesso, delicato e nobile girocollo si sia avventurato in luoghi più intimi che il suo stesso marito, ma questo Bubbe non lo raccontava mai.
Carmen guarderà la replica di The Nutcracker: A Holiday Classic sulla NBC e attenderà invano una telefonata di sua madre per tutta la vigilia, contratta sulla poltrona vicino al ricevitore, incupita e silenziosa, la mano minuscola dalle dita sottili ricoperta di lentiggini a ondeggiare fra la tequila e il metallo del portasigarette, gli occhi di metallo liquido nel riflesso convulso della televisione accesa e muta. Olive, che si proclama «indipendente ed emancipata dal giogo imperialista» del lurido patrimonio della sua famiglia ma vive nell’appartamento che le ha lasciato una zia ereditiera del Sud Africa, uscirà con un paio di colleghi hippy che lavorano a qualche spettacolo off-Broadway, lasciandosi corteggiare da una giovane apprendista costumista o truccatrice, per poi districarsi da quelle passioncelle adolescenziali e raffreddare i bollori della serata in un taxi diretto a casa.
«Forse quindici minuti», ha detto, «il tempo di sistemare le provviste in cucina». Un saluto sbrigativo da parte di Carmen e la solita busta con una banconota da venti dollari fresca di stampa sotto il portafrutta. Bertha Novak non accetterebbe un regalo così generoso se non fosse quasi cieca e non sapesse più distinguere il profilo di Washington da quello di Jackson sulle banconote. Ma la signora del piano di sotto, che una volta a settimana fa le pulizie, e se è dell’umore le cucina qualcosa da conservare in frigorifero, non si lascerà scalfire da alcuna fitta di orgoglio proletario. Le ha incontrate di certo, la vicina, donna angolosa e matronale, un’ebrea sefardita dal pesante accento spagnolo e un neo perfettamente concentrico sullo zigomo sinistro: Carmen, con i movimenti regali e nervosi della ballerina classica e il fare sbrigativo di una che deve sempre essere da qualche altra parte, e Olive, con i suoi accostamenti di vestiti improbabili da mercato delle pulci e il suo rostro di denti perfetti da Regina delle Nevi.
La vicina si affaccia dalla porta d’ingresso del suo appartamento, è una zaffata di cipolla sfrigolante e arrosto in forno ti fa brontolare lo stomaco.
«Non si sente bene oggi» ti informa con essenziale pragmatismo prima di consegnarti il mazzo di chiavi e richiudersi la porta alle spalle, interrompendo la fumosa seduzione che l’arrosto sta operando sulle tue papille gustative.
«Buonasera signora Novak» non ti piace il tono cantilenante che l’eco di vuoto e incuria ti restituisce nell’ingresso. L’appartamento del terzo piano, che anche in tempi più felici la signora Novak rassettava svogliata a domeniche alterne, è impregnato di fritto, fumo di sigarette, unguenti e vago odore di rigurgito fognario. Non ti togli nemmeno il cappotto per sistemare le latte di zuppa e le sardine in pile separate nel ripiano più basso sopra i fornelli. Le zuppe tutte a sinistra, le sardine a destra, in mezzo un modernissimo apriscatole, sicuramente un regalo di Carmen. La vista della signora Novak rasenta la cecità quando è buio.
A giudicare dall’olio versato sulla stufa, le cipolle sminuzzate ancora con la buccia ormai carbonizzate nella pentola, e le patate affettate a dadini irregolari, Bertha Novak ha provato a cucinare, ma non arriverà mai a servire il suo guláš.
Qualcuno si è preso la briga di sistemare un albero di Natale di alluminio accanto alla finestra, decorato malamente da una fila di angeli di carta ritagliati di tutta fretta.
L’appartamento ha un’aria caliginosa. Mal illuminata da un’unica lampadina che proietta un alone acquoso sulle superfici, la stanza ha contorni indistinti, come i relitti abbandonati sul fondo dell’oceano, dove memorie fradice di antiche glorie sono affogate assieme alla carta da parati, ormai solo un’ombra floreale sulle assi marce, i tappeti divorati dai pesci, e i vetri delle finestre, scheletri affilati incastonati nelle acque scure.
Bertha Novak – nata Božena Kovářová ma ribattezzata Roberta Kovar a due anni nemmeno compiuti, sotto lo sguardo obliquo della Signora Libertà e un pediatra stanco di Ellis Island con le unghie ingiallite dalla nicotina – è in piedi in mezzo alla stanza, un vestito di velluto rosso sgranato aperto che le tira sui fianchi, il colletto di un bianco ingrigito dal tempo. Ha provato a truccarsi, ma il belletto, applicato da una mano goffa e occhi quasi ciechi, si è aggrumato sulle guance, di un colore acceso che fa pensare alla carne cruda. La cipria bianca sulla fronte e attorno alla bocca, ti ricorda i pagliacci del Ringling Bros. and Barnum & Bailey Circus, mesti come gli elefanti in equilibrio su una zampa sola, il frustino dell’ammaestratore che schiocca nel buio, a rammentare il destino di servaggio. Nell’annebbiamento del glaucoma, la signora Novak sta cercando di imprimere la tua immagine in quei pochi millimetri di luce che ancora riesce a trattenere.
Sorride, credendoti Carmen. Ha atteso questo momento per tutto l’anno.
«Buon Natale», trilla con una voce di bambina, e tu vorresti confessarle che sei solo una pallida controfigura.
Le tiranne sono le amiche più care. Nel lieve tremolio della stanza, mentre il treno sopraelevato scompare dietro il palazzo di fronte, ti appare chiaro il motivo di tanto sussiego: come una sopravvissuta al naufragio, Carmen Torres osserva i corpi ondeggiare sul pelo dell’acqua per poi affondare, stretti nei loro scialli colorati, i cappotti pesanti, i piccoli ritratti di famiglia, i gioielli cuciti nei doppi fondi delle valigie. Mentre Bertha Novak si accascia sul fondo del mare con il veliero che avrebbe dovuto traghettarla in salvo sulle rive del Sogno Americano, Carmen la osserva dimenarsi fra i capitoli tragici della sua storia di immigrazione e sconfitta, una lenta discesa verso l’anonimato, la fatica e la solitudine. Il corpo sformato dal lavoro, i calli, il busto di legno, gli occhi vetrosi della signora Novak sono il monito di un destino a cui Carmen ha rifiutato di sottomettersi dieci anni fa da Macy’s, e che da allora imprime in ogni linea delle sue coreografie, ogni estensione dell’arabesque e ogni slancio di grand jeté che proietta aperture, fughe e sparizioni dietro la quinta di sinistra.
Nella penombra ovattata della stanza i vestiti dalla vita stretta e le gonne ampie, l’orgoglio della sua boutique fallita nel Queens – rubati, sostiene lei, nientepopodimeno che da Christian Dior – sono riversi sul pavimento striato di vecchie impronte di fango secco, erba bagnata e tipica sporcizia newyorkese. In mezzo alle stoffe dai colori smunti, si affacciano i cimeli di un affetto sprovveduto e mal riposto: una carta cerata ripiegata in quattro, una scatola vuota di dolci e un biglietto sgualcito, scritto in una calligrafia elegante ma sbrigativa. Un nastro di stoffa rosso scuro avvolge una manciata di cartoline delle tappe delle tournee di Carmen: Minneapolis, San Francisco, Parigi, Mosca. Traiettorie di felicità per procura da elemosinare un boccone alla volta, assaporate con dovizia la sera, dopo un turno da Macy’s, o appollaiata sul radiatore nella stanza delle commesse all’ora di pranzo. Parole gentili ma false, come è perverso l’interesse di Carmen per questa donna fallita come i suoi tentativi di applicarsi lo smalto sulle unghie o la cipria sul viso. Questa donna alla deriva, aggrappata con infantile ingenuità alla mano refrattaria che la nutre, ti fa orrore. Pensi alla brutta fotografia di Carmen, quella che hai scattato dietro le quinte de La Bella Addormentata di Balanchine al New York City Center, la sua smorfia goffa, l’angolazione sbilenca del bacino, la spina dorsale curva come la cresta bulbosa di un camaleonte. La conservi con segreta soddisfazione sul fondo del nécessaire da toletta, in mezzo ai trucchi e lo spazzolino da denti. Uno scatto poco lusinghiero che ti restituisce un’immagine di lei più autentica, incrinata, e al tempo stesso ti autorizza a partecipare, seppur da comparsa, alla volubile pantomima del suo amore.
Come somiglia, quella foto, nella sua spiegazzata evidenza, alle patetiche cartoline della signora Novak. Il suo corpo esausto, la sua voce infantile, l’odore stantio dell’appartamento si aggrappano al tuo cappotto di montone, ti invitano a sciogliere il nodo della sciarpa grigia di lana pettinata attorno alla testa per trovare il tuo spazio in quel caos pietoso. Ti chiama, questa donna artritica e dolorante, le dita ripiegate su se stesse e le labbra rosse da pagliaccio, a unirti alla sua setta di accolite. Ma rifiuti di lasciare che le vostre solitudini si riconoscano, di accomodarti nel vuoto banale della dimenticanza, nel tono lacrimevole con cui fa ammenda per una borsetta rubata un Natale di dieci anni fa.
La signora Novak cerca di parlarti, di rivangare quei pochi ricordi striminziti che la uniscono a Carmen, quella Vigilia nel reparto profumi o quel Ringraziamento a smistare bambole difettose nel magazzino del seminterrato. Memorie edulcorate, preservate sotto spirito e rimirate senza posa negli anni, trasformate dalla volontà e la solitudine, mantenute in vita dall’inerzia.
Le amiche più care sono insondabili terrori. Quasi scivoli per le scale, mentre un altro treno sferraglia e fa tremare la ringhiera e guaire un cane dietro una porta da cui pende un Mezuzah impolverato. L’aria è ferma, non un raggio di luna a far da paio con il lampione solitario all’angolo. Pochi passanti, intirizziti e stretti nei loro cappotti usurati, si affrettano a tornare al chiuso. La metropolitana restituisce solo corpi innamorati e avviluppati nella presunzione tipica del giovane amore, uomini e donne carichi di pacchi e buste, saltimbanchi truccati di ritorno da un gelido pomeriggio a Central Park. Ritrovi il marciapiede, terreno solido come l’odore di fogna dei tombini, il gracchiare di una messa di Natale in spagnolo diffusa da una radio a valvole, il profilo curvo del bottegaio che trascina dentro l’ultima cassa di mele cotogne. A pochi passi dai tuoi mocassini di daino schizzati di fango, un uomo afroamericano sparge manciate di sale grosso sul marciapiede, mentre un predicatore e un comunista preannunciano allo stesso tempo la fine del mondo e la salvezza ai due lati opposti della strada.
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