Clinch

di Marco Andrea Radessi
copertina di Chiara Casetta


Le sei. Fine turno. Il primo cono di sole centra il vetro satinato sulla parete del reparto assemblaggio, rimbalza e sbiadisce contro la spalla della pressa di tranciatura.

Di fronte a me il bancale con le scatole di tubi che ho imballate. 

Da mezzanotte alle sei, seduto sullo sgabello regolabile.

A fine pomeriggio il caporeparto è venuto in spogliatoio e ci ha radunati: «il week-end, la famiglia, la domenica sportiva, ma il camion con il pallet di tubi carica domattina e non possiamo perdere la commessa», ha detto.

«Sono notti insopportabili. Va meglio qui», gli dico. Da una settimana, casa è un labirinto. Come sul ring della palestra. Il combattimento tra la rabbia e me stesso, non mi molla. Jab, non scappi, un abbraccio, un gancio e poi colpo al fegato al plesso al mento. Attorno al tavolo saltelli e uppercut, mi stringi in un clinch fino a togliermi il respiro. Finchè quella di sotto batte con la scopa. Silenzio al centro del ring buio, mi comprime il cranio. Hai vinto ai punti. Sul divano svuoto il jack daniel’s. Meglio qui.

E non è per quelle due foto. Che poi se le è portate via lei per farle a pezzi in ascensore. E nemmeno per i portafoto vuoti che le ho strappato di mano. E’ lei che per nulla, se l’è presa. Ha messo quella faccia di ferro che mi rovescia i nervi … questa volta non ho esagerato. Volevo solo essere certo che mi ascoltasse. Ha piazzato la mia fiaschetta da tasca in mezzo al tavolo della sala. Non so dove l’ha scovata. Ma torna, lei deve tornare. Qui è un inferno.

In reparto sto come sulle rotaie. Non deraglio. Il respiro si distende. Mi concentro. Ho lasciato la fiaschetta in spogliatoio. E’ un lavoro di attenzione. Ti stanca poco per volta. Così va bene.

Ho collaudato la filettatura di ciascun raccordo maschio – ‘SOLO MASCHI’ ho scritto con pennarello bianco sulla sponda metallica del cestone – infilandolo nella bocchetta femmina murata, ‘BOCCA DELLA VERITÀ’ e uno smile,  in rosso appena sopra, sulla parete color paglierino velata da ombre di polvere e strisce nere di gomma e di tempo. Ho eliminato gli scarti oltre la tolleranza stabilita.

Le due. Dieci minuti per il caffè. Il silenzio tra i corridoi e gli scaffali segnato dal t-t-t- del timbracartellini accanto al distributore. Ho chiuso il bicchierino nel palmo, l’ho buttato nel bidone della plastica e mi sono sciacquato le mani perché era rimasto più di un sorso, con la lingua ho grattato dal palato il gusto ruggine di zucchero e caffè bruciato.

Poi ho avvolto ciascun tubo nel foglio gommato a protezione. Ho riempito dieci scatoloni, portati a braccia sul bancale uno per volta, niente muletto. La stanchezza incalza mi sento un cretino alle corde, le mani appese alle braccia come due incudini. Mi sono alzato e dal computer ho stampato le bolle, Tasto on, lo schermo si è illuminato: la coppia – uniti con l’inclinazione di due siamesi, – sul bordo di una barca bianca, il ritaglio di mare con il sole non del tutto a favore, gli occhi di lui la guardano da quel palmo più in alto. Dalla parte ingenua dell’amore, lei col mento sollevato, guarda avanti verso prua, le pupille puntano l’orizzonte della disillusione, ‘terra, terra!’, vuole portarlo con sé, ma le dita di lui strizzano il braccio di lei come un morso. Poche miglia e il mare si è increspato fin quasi a tempesta e alla fine, solo un miraggio, Terra! e le regole del miraggio sono le stesse del ricatto. Chi dei due l’avrà detto per primo? lei dice che l’ha capito.

ESC, foto da cambiare.                    

Stampa bolla. Ho tolto il documento dalla stampante. Ho scritto il nome del destinatario. Che si veda bene l’indirizzo, con un pennarello ciano punta grossa, l’ho incollato sulle scatole. Allineate come un plotone alla parata. Quantità, peso e misure, la somma di ogni documento è uguale al totale sulla bolla. Firmo.

Scuoto i pantaloni e la felpa dalla polvere e dai riccioli di ferro. Mi galleggiano attorno come in assenza di gravità. In spogliatoio raccolgo lo zaino, cammino tra corridoi chiusi da scaffali riempiti di tubi manicotti, rubinetterie e sanitari da assemblare. Il timbrapresenze segna cinquecinquantanove; controllo che tutte le luci siano spente. Timbro l’uscita. Attraverso il cortile, infilo le chiavi nella fessura del finestrino del furgone, per il collega che comincerà alle sette. Sul marciapiede tiro il cancello in ferro finché si appoggia alla metà bloccata. Come uscire da un uovo.

Il naviglio è protetto da una coltre di zucchero filato.  Rari passaggi di auto verso il centro. I camion dell’Amsa con le luci arancioni. Dietro, la pattuglia di vigili rallenta, mi guardano. Proseguo. Tapparelle sollevate su finestre di luce gialla. Il ragazzo del bar allarga sul marciapiede la lavagna treppiede, caffè brioche della casa spremuta/yogurt dueeuroecinquanta fino a ore nove. Scivolìo dell’acqua.

La stanchezza colpisce sui muscoli, a tradimento, una mazzata. In fondo al viale il faro giallo è quasi rasoterra, sfrangia il velo compatto che sale dal fiume. Conquista metri verso di me e prende forma. Emerge il tram. Spingo il braccio all’esterno. Salgo dietro. Vuoto. Aria compressa libera il freno. Mi siedo. In viaggio contro il senso dell’acqua. Tolgo dalla tasca la mia fiaschetta e sgorgo il primo sorso, il secondo mi massaggia il palato, il terzo lo insegue. Scendono. La richiudo nella tasca. Il dito ripassa le mie iniziali incise, carezza la superficie di cuoio. Gioco con la catenella del tappo. Il rollio del tram compie per bene il suo lavoro, prova a cullarmi, ma resisto: oltre il finestrino, seguo i viali. Srotaiamo verso il centro. Carrobbio e via Torino, i furgoni dei corrieri aspettano per scaricare. Nelle vetrine, giovani commessi, svitano i sorrisi di nudi manichini. Infilano le teste in un sacco. Una coppia di ragazze salta su uno scatolone per appiattirlo, si tengono per mano per non perdere l’equilibrio. Si fermano e guardano il tram. Seguo i loro sguardi fino alla vetrina della torrefazione.

Sui marciapiedi, contro saracinesche abbassate, il risveglio ribalta coperte e cartoni. I distributori umani di giornali accolgono i passeggeri in cima alle uscite della metropolitana. Sento girare gli scambi. Verso nord. Garibaldi, Farini. Dopo quindici minuti, è la mia. 

Il tranviere, stira le braccia, torce il collo a destra a sinistra. Poi scende, gira lo scambio con l’ago di ferro. Aggancia il cartello DEPOSITO.

Raggiungo il marciapiede e travaso la metà rimasta dalla fiaschetta, alla gola.

L’edicola s’è illuminata, Berto distribuisce i quotidiani sul ripiano.

Raccolti nello stretto controviale, un mazzo di uomini si separa verso due furgoni in arrivo. Sbattere di porte.

Una ragazza esile e bionda, col viso più stanco che confuso scende dal taxi. Io la guardo, forse le ho fatto un cenno ma cercavo la fiaschetta, mi servi per tirare avanti, non so a chi lo dico, giro verso il portone di casa mia. Mi lascia uno sguardo dispiaciuto o deluso e con gli occhi pare mi dica: «no, per oggi basta è tardi mi dispiace» dove oggi per lei è un tempo diverso dal mio. Accelera l’andatura e raggiunge casa. Salgo i gradini, la portineria ancora chiusa. La serratura si sdoppia, si ricompone.

Oltre la soglia di casa, cric cric calpesto i portafoto in frantumi sul pavimento. I muscoli delle braccia pesanti flosci come sacchi di sabbia. Il clinch come un nodo scorsoio poco a poco si allenta. Barcollo, sento partire il conteggio. Scivolo in qualcosa che somiglia al riposo. E’ più un’anestesia. Un intervallo.


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