Periplo #11 – Lisbona, guida per principianti

vista sui tetti di Lisbona

testo e foto di Carmela Fabbricatore


L’approdo

Nel Moderno Grand Tour delle Capitali Europee, Lisbona è tra le mete più ambite. Romantica e vivace, con una storia millenaria, teatro delle più grandi imprese marinare, nostalgico ritrovo di ex studenti Erasmus è la destinazione ideale delle prossime vacanze, nonché unica meta a rientrare nel budget di quest’anno. E poi si mangia bene.

A Lisbona si arriva sempre via mare.  

Anche chi raggiunge la città in treno, in aereo o sulle quattro ruote sentirà di essere davvero arrivato solo quando gli si aprirà davanti il Tejo, quell’immensa vena d’acqua che scava curve sinuose in una valle di rocce spezzate, e si allarga in un ampio estuario prima di consegnarsi all’Atlantico.  

Il fiume è l’architetto silenzioso della città. Partendo da Oriente avanza largo e profondo, stringendosi e dilatandosi più volte a modellare un paesaggio scosso ma flessuoso, dove la natura non è rigogliosa e si riduce piuttosto a una vegetazione testarda che cresce nella crepa, si piega ai venti, si adatta a trovare spazio nei margini. 

Le rive del Tejo si articolano in una sequenza di baie, darsene e moli, tracce visibili di quelle attività marittime che hanno segnato la storia di Lisbona, anche quella più recente. La zona industriale di Alcântara, con le sue gru immobili, cede lo sguardo a occidente al profilo della Torre di Belém, simulacro di un’epoca grandiosa, che sfida l’erosione del tempo e la corrente del fiume stesso. Superata la maestosità sospesa del Ponte 25 de Abril, il fiume accelera lievemente, anticipando l’apertura definitiva verso il mare. Qui, dove Lisbona finisce e l’oceano comincia, il Tejo compie un ultimo atto di scavo e di deposito, in un perpetuo dialogo fra correnti, vento e terraferma.

In città si entra come chi approda, come chi, cioè, ha attraversato qualcosa di più ampio di una distanza fisica: il desiderio, la memoria, o forse solo un sogno febbrile. Praça do Comércio accoglie con la solennità svuotata di una cattedrale laica: è un pomeriggio opaco di metà agosto, il cielo è pallido, suda una luce accecante e l’acciottolato della piazza rimbalza vapore. Il calore è confortato da una brezza ariosa, seppure tiepida, riconducibile all’influsso oceanico. È un vento disordinato, che a volte si ferma e con lui anche il respiro. Viene naturale, allora, dirigersi verso il Cais das Colunas, un affaccio marmoreo sul fiume con due colonne monumentali che affiorano dall’acqua. Dietro, la città si zittisce. Solo, si sente l’acqua che lambisce le basi, mentre il vento solleva odore di alghe e ferro logorato. 

Visto da qui, il Tejo non è più solo un fiume. È uno specchio antico che rimanda indietro un’immagine deformata e fuori fuoco di chi lo osserva. Le acque hanno colori mutevoli, sfumano dal grigio piombo al verde cupo al blu ardesia. La corrente è ipnotica, rapisce: quasi non si pensa a un viaggio ma a un ritorno, e il paesaggio appare nuovo e familiare. Si ha la sensazione di essere già stati in quel posto e allo stesso tempo si avverte il presagio di un futuro, terribile e felice, forse già accaduto. L’imponenza del fiume sembra custodire un Tutto che si ripete ciclicamente. In questo riverbero continuo, Lisbona si offre non tanto come una città quanto come una visione: una soglia intangibile, una frontiera tra ciò che siamo stati e ciò che ancora non sappiamo di essere. 

E tu allora resti lì, a Praça do Comércio, a farti attraversare dal vento e dalle voci perdute del fiume, come chi attende senza sapere cosa. Capisci che è proprio questa l’accoglienza più autentica che Lisbona può regalare: un luogo dove lo spaesamento diventa una forma sottile di appartenenza.

La città vecchia

Tutte le guide al Moderno Grand Tour delle Capitali Europee consigliano di dedicare il primo giorno di visita alla scoperta della “città vecchia”. Non sorprenderà, dunque, che l’Alfama e il castello di São Jorge diventino teatro di un raduno imprevisto di viaggiatori armati di entusiasmo e mappe piegate male. I più coraggiosi, intrappolati nella nobile impresa di salire sul vecchio tram 28, potrebbero passare buona parte della giornata fermi in piedi a studiare il retro della persona davanti, ma riuscire comunque a conquistare, nel tardo pomeriggio, un posto d’onore su un miradouro ormai svuotato, infiammato dal tramonto.

Dall’alto, Lisbona si modella come una sorta di organismo vivente adattato con rassegnazione alle irregolarità naturali della terra su cui poggia. La città si distende su una serie di alture derivate dall’attività tettonica e dai movimenti del substrato roccioso, prevalentemente composto da calcare, argilla e marna, a delineare una topografia complessa di rilievi e avvallamenti che nel corso della storia hanno influenzato significativamente la logica dell’espansione urbana. L’architettura rispecchia e asseconda fedelmente la morfologia accidentata della città, che ha nel tempo favorito costruzioni verticali e dense, adattandosi alle pendenze delle colline e alla necessità di sfruttare al meglio lo spazio disponibile su terreni scoscesi. Gli antichi quartieri di Alfama e Mouraria si sviluppano come un intricato labirinto di vicoli e edifici stretti che sembrano scivolare verso l’acqua, attratti dall’inarrestabile gravità del fiume. Le case addossate e alte del nucleo più antico, con le facciate rivestite di azulejos, non rappresentano solo un vezzo decorativo, ma una necessità strutturale, una risposta pragmatica alle esigenze del suolo, talvolta instabile, su cui poggiano. Palazzi nobiliari e vecchi conventi sorgono con delicatezza dalle alture che offrono scorci panoramici continui, integrandosi quasi spontaneamente con i terrazzamenti, i giardini verticali e i miradouros, che regalano prospettive stupefacenti sul Tejo e al tempo stesso rivelano la composizione geologica della città, mostrando nuda e vulnerabile la sua pietra. 

Scendendo a piedi dall’arroccatura di São Jorge, allora, ci si imbatte in scalinate dissestate e infinite, passaggi ricavati in edifici che si aggrappano al pendio, labirinti di viuzze che si insinuano seguendo fedelmente il disegno dettato dalla terra stessa. Ci si confonde tra i turisti che si addensano sulle vie principali, fino a che non si prova a cercare sollievo dalla calca di agosto nelle strade laterali, che ricevono i passanti in un abbraccio mediterraneo. In questi vicoli, dove la luce filtra appena, si è accolti dagli odori di casa: basilico, salsa di pomodoro misto a calce, umidità, e al detersivo dell’acqua che ha appena lavato il pavimento. I panni stesi si gonfiano sotto un vento celtico che fa solo finta di accarezzare, per poi annodarsi alla gola con inaspettata violenza. Per la prima volta pare di sentire la voce di Pessoa – quel poeta che qui è involontariamente diventato icona di turistificazione – che ricorda quanto sia inutile maturare attaccamento verso le cose perché in verità nulla ci appartiene, nemmeno noi stessi. Non è solo a lui che si pensa quando ci si addentra nella città vecchia. Viene in mente anche il protagonista di un romanzo di Saramago, Ricardo Reis, di ritorno a Lisbona da Rio de Janeiro nel 1936, anno di grandi inquietudini politiche e sociali, nonché l’anno in cui morirà. Ci si potrebbe riconoscere nel suo stesso sguardo incantato e sospeso, quello di chi si muove come uno straniero in una città straniera e che pure gli appartiene. 

Ogni tanto, tra i corridoi di pietra e cielo, si aprono patii abbandonati: un tavolo in ferro battuto rovesciato tra le erbacce, azulejos scheggiati, una porta incrostata dalla salsedine e fiori selvatici che spuntano da un pergolato di rampicanti fitto e indisciplinato. Qui Raúl Ruiz avrebbe posato la sua macchina da presa, ed è facile immaginarlo intento a trovare il modo migliore per restituire quei Misteri di Lisbona in una narrativa per immagini che riflette il dedalo di queste strade.  

Quando il cammino si apre finalmente su Santa Luzia, è un abbaglio. Tutto è troppo: ci si ritrova a contemplare di nuovo il Tejo e una vastità che non è né mare, né terra. I colori esplodono sinfonici: il carminio delle bouganville risalta prepotente sul cotto delle tegole, e si rifrange sui mosaici smaltati di oro e azzurro che raccontano vecchie battaglie con la serenità di chi le ha vinte. È un punto di pienezza pacifica: nulla manca e niente fa male. 

Dietro di te una voce familiare ti chiama, due volte, la seconda più forte, e poi fischia il tuo nome. Ti volti, non c’è nessuno.

Le rovine

Nelle sere calde d’estate capita di incontrare coppie di innamorati che, brilli di felicità e ginjinha, celebrano il loro amore inciampando sui sanpietrini, sospinti da una brezza calda. Ballano sul fado, si baciano, brindano alle notti future con la convinzione incrollabile dei vent’anni. Se vi appostate all’angolo di Praça Luís de Camões, potreste vederne una, in particolare, alzare i bicchierini in onore all’eternità del loro legame. Due settimane più tardi, naturalmente, si lasceranno.

Lisbona è una città dalla geologia inquieta.  

È nel Chiado, più che altrove, che questa nozione si fa evidente. Nel quartiere storicamente prediletto dagli intellettuali, l’assetto urbanistico racconta una storia di crolli, rovine e ricostruzioni, che si riflette a colpo d’occhio nella stratificazione secolare degli edifici. Le strade si allargano spesso in piazzette inaspettate, lungo le quali palazzi monumentali settecenteschi si alternano a costruzioni più modeste.  

L’itinerario più battuto è anche quello più piacevole. Superata la Praça Luís de Camões e risalendo la Rua Garrett fino a deviare lungo la Calçada do Sacramento, si raggiunge Largo do Carmo, il cuore spezzato del Chiado.  

La piazza si apre insolitamente calma, custodita dall’ombra di grandi alberi di Jacaranda. A un lato, si ergono le Rovine della Igreja do Carmo, solenni nella loro incompiutezza. Un cartello aiuta a immaginare una storia già nota, sepolta in un angolino della mente: il 1° novembre 1755, Lisbona fu devastata da un terremoto di eccezionale violenza, a cui seguirono un maremoto e incendi vastissimi. La Igreja do Carmo, allora una delle principali chiese gotiche della capitale, crollò in parte sotto la forza del terremoto. Le volte, altissime, si frantumarono, lasciando intatti solo i muri perimetrali e alcune delle arcate principali. La successiva ricostruzione della città, affidata alla volontà razionale del Marchese di Pombal, risparmiò queste rovine, che non furono mai più restaurate completamente. Oggi, le navate scoperte raccontano ancora l’improvviso disfacimento di una città, la rottura irreparabile tra un prima e un dopo che ha segnato profondamente la memoria di Lisbona, e non solo.  

L’avvicinamento alle rovine è discreto. Il passaggio dal selciato alla pietra consumata della chiesa antica avviene senza superare una soglia evidente. Le colonne esposte al cielo e le arcate ogivali, sopravvissute all’urto, tracciano ancora l’intenzione originaria di elevazione, ma la loro frattura racconta un’altra storia: testimonia la forza naturale che le distrusse, e anche la fragilità intrinseca di ogni forma che si crede definitiva. 

In questo luogo, dove il vuoto sostituisce il pieno, un’intuizione arriva sorda: non è possibile essere già stati qui, sebbene ogni frammento sembri parlare una lingua conosciuta. D’altra parte, chi cammina tra questi resti lo fa con una cautela inconsapevole, quasi presagisse che qualcosa è sul punto di cedere. O lo ha già fatto. Nelle spaccature il tempo si piega e sospende il suo corso, come se il crollo stesse ancora accadendo e custodisse le anime di chi lo ha subito. 

Per un attimo sembra di essere tra le pagine di Requiem, dove Antonio Tabucchi scrive di vivi e di morti che condividono lo stesso paesaggio. Si cammina tra assenze che si fanno presenza, tra voci che non si sa più se appartengano al passato o al futuro. Succede anche nei Piccoli equivoci senza importanza. Lì la separazione tra passato e presente si incrina in modo altrettanto aereo. Le storie si intrecciano in un tempo circolare, in cui gli eventi si ripetono, si rincorrono e si sovrappongono come in un sogno con una sua logica interna, surreale e credibile. I personaggi, invece, oscillano tra ciò che è stato vissuto e ciò che non è accaduto davvero, e in questo scarto sottile la morte si insinua senza dichiararsi: non è un evento finito, ma una perdita già avvenuta e sempre in corso. 

Non ci sarebbe troppo da meravigliarsi se proprio lì, tra quelle rovine, si apprende per la prima volta che il crollo ha una grammatica tutta sua. Le macerie non minacciano, né consolano: semplicemente esistono, monito che ogni costruzione – anche interiore – contiene in sé la possibilità della caduta e che ogni vita implica necessariamente la propria fine. Ci si riconosce nei frantumi e nei silenzi che si allungano tra le arcate. Eppure, in quei varchi tra le pietre, si avverte anche una dolcezza inattesa. Ciò che è crollato restituisce alle cose la loro verità più semplice e allora le rovine diventano il rifugio perfetto di chi non ha più rifugi.  

Gli spazi vuoti possono ancora contenere, possono ancora abbracciare. 

Cammini e senti la tua ombra farsi doppia. Ti sfiora un’assenza che ti conosce per nome.

Deviazioni

Tra i luoghi della Lisbona insolita e segreta si cela l’LX Factory, rifugio degli esploratori urbani, infaticabili collezionisti di immagini da instagrammare e dimenticare. Per tutta la visita hanno tessuto le lodi del favoloso rapporto qualità-prezzo cittadino, salvo poi brindare – in un microbirrificio artigianale con sedie spaiate – a un conto fuori misura che nessuno sembrerà notare.

Dalla Baixa, procedendo lungo la Rua do Alecrim, la città scende lentamente verso il fiume. Le strade regolari si aprono su Cais do Sodré, dove l’assetto geometrico della ricostruzione pombalina cede il passo a una topografia più discontinua. Qui il Tejo si avvicina alla città che si allarga e si disperde, mescolando stazioni ferroviarie, magazzini riconvertiti e locali aperti sul fronte d’acqua.  

La Stazione di Cais do Sodré, in particolare, si mostra nella sua funzione originaria di frangente tra la città e il fiume. Costruita agli inizi del Novecento, per decenni servì una Lisbona operaia e commerciale, in quanto punto di interscambio tra la ferrovia, il traffico fluviale e la rete tranviaria di superficie. Oggi la stazione conserva la sua vecchia struttura, ma il suo ruolo si è trasformato. Intorno al vecchio atrio si è sviluppato un alveare di locali, di negozi e il grande Time Out Market, che detta un ritmo di passaggio inutilmente veloce. La percezione della città è qui ridotta a esperienza immediata: il flusso dei turisti sostituisce quello dei pendolari, e il tempo si appiattisce nell’alternanza ripetitiva di transiti fugaci e pasti to-go. 

Proseguendo oltre il traffico della Avenida 24 de Julho, il tessuto della città si fa più rarefatto. Si costeggiano moli dismessi, depositi abbandonati, strade larghe e interrotte. È un luogo di transizione che conduce all’LX Factory, ex complesso industriale riconvertito in centro culturale. Qui le fabbriche sopravvivono nei volumi architettonici, mentre la nuova funzione mescola aree creative e destinazioni commerciali, in una stratificazione visibile, però parziale. Il passato non si legge per davvero nell’assetto del quartiere, piuttosto resta sullo sfondo come un elemento scenografico dal valore puramente estetico, in un modo che accentua un generale senso di contraffazione. 

Di fronte alle zone riconvertite, levigate e pronte al consumo della Lisbona contemporanea, la mente si allontana alla ricerca di finzioni più autentiche, come ad esempio quelle rintracciabili nella scrittura di Florabela Espanca. Nata in Alentejo nel 1894, figlia illegittima, la sua vita fu segnata da lutti familiari, amori tormentati e da un malessere esistenziale persistente. Compì studi avanzati per una donna della sua epoca, iscrivendosi alla facoltà di Diritto a Lisbona e sopravvivendo egregiamente ai margini delle convenzioni sociali del tempo. La sua poesia non offre immagini perfette né promesse di armonia. Propone invece una verità scomoda e necessaria: quella della fragilità, della sete insaziabile di senso, dell’impossibilità di ridurre l’esperienza a una superficie rassicurante. Espanca non conosce mediazioni: amore, desiderio, morte e nostalgia si sovrappongono in una lingua diretta, musicale e ferita.  

Ti aggiri per queste vie pensando a Florbela Espanca e alle voci che ancora non riesci a raggiungere completamente, introvabili o non tradotte nella tua lingua. Pensi a Lídia Jorge, di cui ti incuriosisce la scrittura vegetale, e a Maria Teresa Horta, che pare aver dato corpo al desiderio e alla sua lacerazione. Sono donne, poete silenziate, per le quali senti la necessità di creare degli spazi: la ricerca della verità sopravvive in te come una radice nascosta, ma tenace.

Dove termina l’Occidente

Tra i monumenti più visitati di Lisbona c’è la Torre di Belém. Dalla sua sommità si apre una distesa d’acqua lucente, dove il Tejo si confonde con l’oceano, i moli si allungano nella corrente e le vele bianche sembrano appunti lasciati dal vento. Un turista potrebbe abbandonarsi all’immaginazione, e scorgere in fondo all’orizzonte un grande veliero sospinto verso casa, carico d’oro e meraviglie tropicali. Potrebbe, in teoria. Se solo non fosse una giornata di pioggia battente e nebbia fitta.

Belém si distende lungo la riva del Tejo come frontiera tra la città e l’oceano. Mausolei eretti a celebrare l’epoca delle scoperte punteggiano il paesaggio: la Torre di Belém, severa e isolata nella sua funzione antica di avamposto difensivo, e il Monumento alle Scoperte, dalla cui cima il fiume si offre – di nuovo – a riempire la prospettiva. 

Proseguendo verso est lungo il margine del Tejo, si entra nel Parque das Nações, nato dalla riconversione dell’area industriale per l’Esposizione Universale del 1998. Qui la città si dispone secondo una geometria nuova, pensata per l’apertura e la linearità: strade ampie, edifici trasparenti, viali che inseguono la linea dell’acqua. L’Oceanário emerge al centro di questa nuova disposizione come un corpo isolato, un’isola costruita su palafitte leggere. Intorno, il quartiere appare levigato, progettato per uno scorrere razionale della vita pubblica, ma se ci si ferma per un attimo è ancora possibile scorgere tracce di un paesaggio industriale recente e abbandonato, testimoniato da tracce di binari interrotti. 

Per secoli, l’estuario del Tejo ha rappresentato un luogo-limite: il punto di apertura verso l’ignoto. Poco più in là gli antichi posizionavano le Colonne d’Ercole, ovvero la fine del mondo conosciuto oltre cui tutto era possibile. A Belém e nel tratto contemporaneo del Parque das Nações, questa vocazione sopravvive nella monumentalità.  

La sensazione di essere al limite di qualcosa si fa più acuta spingendosi a nord, lungo la costa atlantica, dove la città si dissolve e il paesaggio naturale prende il sopravvento. 

A Cabo da Roca la terra finisce. È il punto più occidentale del continente, un confine reale e simbolico. La falesia si apre in un fronte netto, verticale, battuto da un vento costante che leviga la vegetazione e spinge verso l’oceano. La pietra, esposta, si mostra scoperta nei suoi strati frastagliati, segnati dalla pressione antica delle placche e dall’erosione dell’aria salmastra. La linea costiera non assicura alcun riparo: solo strapiombi, sentieri disegnati dalle correnti d’aria e un faro solitario che scandisce, da decenni, l’ultima presenza umana.  

Oltre questo limite, dunque, un altro mondo comincia. È esattamente questa tensione verso il margine che si percepisce netta anche in tutta la città, come se Lisbona conservasse lo spirito atemporale di chi l’ha attraversata e abitata, e che si riconosce nell’occhio poetico di chi ha saputo coglierlo.  

«La vita è un cerchio. C’è un giorno in cui il cerchio si chiude e noi non sappiamo quale», scrive Tabucchi.  

Di fronte, l’oceano si distende come una ricompensa. Ogni fascio di luce è anche un varco di tempo. In questo spazio di confine, sospeso tra il continente e il mare, tra ciò che si lascia e ciò che verrà, il vento sembra avvertire dell’andamento circolare delle cose, dei passaggi di energie invisibili che si nascondono nella materia. Si ha la sensazione che la morte non interrompa i rapporti, piuttosto li trasformi in una forma diversa di esistenza, permeabile, in cui la memoria e l’assenza si confondono. È così, allora, che i defunti smettono di essere fantasmi inquietanti e diventano interlocutori naturali, figure che prolungano una conversazione iniziata da un’altra parte.  

E tu, che hai lo sguardo sospeso sull’immensità dell’oceano, potresti benissimo essere vista da uno di loro e non sapere se sei ancora nella tua vita, o se sei già altrove.


Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso e mariel.
Per leggere di più.


Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *