Il richiamo

di Pierluigi Mautone
copertina di Chiara Casetta


La provincia è una dipendenza, un sortilegio che ti rende estraneo ovunque, quindi non ti muovi. Entra nelle persone per crescerci dentro, letteralmente. Più la seppellisci sotto strati di vita, più lei grida forte il tuo nome. Altrimenti perché non scappare da un posto del genere, da uno dei vertici della Terra dei Fuochi, la prima chiesa delle terre concimate col berillio. L’unico modo per fuggire da qui, è una malattia dal nome lungo e complicato.

È in mezzo a pensieri del genere, che Giorgio mi ha teso una mano.

Lui è del nord, e per lavoro ha vissuto almeno un anno in ogni grande città che conosco. Quando ha scelto di passare una settimana a casa mia, ero entusiasta. Ancora di più, dopo che la settimana diventò un mese, poi due, poi un anno.

Lo fa per amore? Giorno dopo giorno, una paura si annida dietro la nuca: per amore, sì, ma non più per il mio.

Mi faccio tormentare dal pensiero, un intruso che accolgo sempre a braccia aperte. Sei un ridicolo, mi dico subito dopo. Devi pensare che c’è qualcosa sotto per forza. Ma è un’ora che sono in auto e, dopo tre pacchetti di sigarette, prego ancora di non vederlo uscire da una delle case che sto osservando. L’ho fatto davvero, questa notte l’ho pedinato.

Giorgio ha smesso di parlarmi del lavoro, non mi racconta nemmeno la sua giornata.

«Novità dalla società?», gli chiedo ogni giorno.

«Ho trovato un bel ristorantino in zona», risponde, o altre stronzate simili.

Il suo pianeta si sta allontanando dal mio, mi arrivano solo echi di conversazioni, piccoli scatti di vita privata e tanto, tanto rumore bianco che mi lascia solo nello spazio profondo.

Mi sono appostato in fondo alla strada. L’ho seguito con discrezione, fino alla periferia, dove a terre desolate di contadini si frappongono agglomerati di abitazioni, quartieri nati sulle uniche zone di cemento edificabili. Giorgio scende dalla sua auto e si infila in un vicolo. È impossibile capire in quale casa si sia rinchiuso. Aspetto tutta la sera, sperando di trovare qualcosa di sensato da dire. Lo figuro consumare un amore selvaggio, il suo corpo armonico che si unisce con uno raccapricciante, solo per tormentarmi. E se mi tradisse con una lei anziché un lui? Sarebbe anche peggio, perderei del tutto il filo delle cose da urlargli in faccia. Fantasie, mi dico. Non riuscirei a dire una cazzo di parola. Lui se ne sarebbe andato e io no, perché da solo non ho la forza di farlo.

La sigaretta accesa mi cade da mano, bucando il pantalone, non ci faccio troppo caso mentre gli occhi si chiudono per mimare il cielo nero fuori dall’auto.

Mi sveglio il mattino dopo, ancora non c’è luce. Bestemmio, spingendo le mani contro il volante. Prendo il cellullare, nemmeno una chiamata. Sparisco per una notte intera e non mi degna neanche di un messaggio. Qualcosa non va, ne sono certo. Solo, non so da quanto.

Mentre torno a casa, noto una scia insolita di persone sbucare da quelle case per andare nelle campagne vicine. Indossano tutti camicie da lavoro, jeans sporchi di polvere, stringono pale e portano carriole. Quanti contadini abitano qui, quanti di loro lavorano vicino a ciò che li sta uccidendo.

Dentro il mio appartamento, la rabbia evapora, lasciando posto alla vergogna. Guardo Giorgio in pigiama, crollato sul divano. È rimasto lì ad aspettarmi?

Con una carezza leggera lo sveglio. La mia mano passa tra i capelli neri e ricci, per poi posarsi sulla barba ispida. Apre gli occhi con lentezza.

«Buongiorno», dice. «Ma che ore sono?»

«Giorno». Tolgo la mano dal suo viso. «Davvero? Neanche una chiamata?»

Lui si alza, si aggiusta il pantalone e si controlla le tasche in cerca di qualcosa. «Credevo fossi in palestra, sono crollato». Tira fuori una piccola pietra azzurrina, la scruta, dimenticandosi che fossi lì. La rimette in tasca subito. Poi sposta il libro spiegazzato su cui ha dormito e lo ripone in libreria.

«A che ora sei tornato? E da dove?»

«Ti sento nervoso oggi». Accenna un sorriso da diavolo, poi mi viene dietro a massaggiare le spalle. I suoi occhi hanno uno strano luccicore, è da tempo che non sembra più lui.

«Adesso andiamo a fare colazione» dice pieno di vita, mentre affonda i pollici nelle scapole. E io dimentico i mesi passati come se non avesse un lavoro, le bassezze della mia immaginazione, ogni forma di religione, e il domani.

Fare colazione in un momento simile è come mangiare merda, anzi, come mangiarla sorridendo.

«Cosa c’è?» si accorge del mio sguardo che non si sposta dal caffè.

«È da un po’ che conviviamo, sto raggiungendo delle consapevolezze. Ti ricordi quello che ci siamo promessi? Voglio andarmene da qua, prendere casa con te, lontano, magari vicino a dove lavori».

Lui non mangia, non beve e sta in silenzio. Guarda me e poi fuori dalla finestra del bar. Faccio lo stesso e vedo un contadino muoversi per il marciapiede ancheggiando. È lercio e con lo sguardo assente.

«Che ci fa qui?» gli chiedo, sembra un pellegrino in cerca di un miracolo. Giorgio non risponde e presto anche quell’immagine aliena sparisce dietro un vicolo.

«Hai ancora un lavoro, vero?» chiedo dopo un sorso.

«Che ti salta in mente». Si agita, evita i miei occhi.

«È un anno che stai in smart working, non è strano?»

«Strano solo per chi non ha mai messo piede fuori dal proprio paesello». Mi prende la guancia con pollice e indice, poi si bacia le dita. «Facciamo il nostro gioco?»

«Non mi va, adesso», rispondo seccato. Sento che sta per riempirmi di bugie.

«Avanti, presto avremo un posto tutto nostro, ora diciamo il resto delle cose che vogliamo».

Lo guardo, non riuscendo a trattenere il sorriso. Non riesco mai a bloccarlo quando giochiamo, e lui lo sa.

«Parto io» dice mettendosi dritto sulla sedia, «un bel cagnolino di razza».

«Del canile!»

«Certo, siamo salvatori, noi due».

«Poi un’auto nuova, una di quelle elettriche, una libreria gigante…», ci casco sempre e non riesco mai a fermarmi. «Poi uno di quei robot da cucina che fanno tutto, così abbiamo più tempo per fare l’amore. Ah, e poi due vacanze, una al mare per accontentare mia madre e una in montagna solo per noi due». È così facile progettare le cose quando non accadranno mai.

«Stasera non ci sono» dice Giorgio dopo avermi fatto finire. L’aria torna secca e fastidiosa.

«Cioè?»

«Non guardarmi così. Cena di lavoro, quella non si può fare in smart».

«Almeno mangerai, vero?»

«Che dici, piccolo. Certo che mangio, sono solo dimagrito un po’».

Non chiedo altro, ho bisogno di prove. Devo seguirlo ancora, fino a una visione chiara, fino al suo pianeta.

So dove è diretto, nelle campagne, devo solo capire in quale casa sarebbe entrato. Anche a costo di farmi vedere? Non so. Significa affrontarlo, di nuovo, come se non stessi già battagliando con discussioni nascoste dietro i suoi “buongiorno”, “ti amo”, “mi sei mancato”. Non ci credo più, significano tutt’altro per me, sono parole di una formula magica che mi legano a lui.

Mi fermo prima da mia madre. A volte serve a sbrogliare i pensieri, a volte a punirmi. Lo capisco solo dopo che esco da casa sua.

Mi accoglie con un bacio sulla guancia. Per tutto il tempo in cui gli racconto i miei dubbi, rimane seduta immobile, con il pugno chiuso come stringesse qualcosa e lo sguardo perso oltre la finestra, verso le terre dei contadini, martoriate da decenni di scarichi chimici.

«Non ci è mai piaciuto quel ragazzo» dice dopo un po’. «Tuo padre sapeva leggere le persone, e su Giorgio non sbagliava».

Non rispondo a parole. Mi alzo dalla sedia della cucina per chiudere le tende, per farla finalmente concentrare sull’unico parente vivo in quella casa. Le serro con un colpo secco. Lei sbuffa e si tira su a fatica per riaprirle con la mano libera.

«Le terre, la luce che le bagna, e il sole che ci sparisce dentro. Non sai quanta pace che mi dà».

«Ma’», ignoro le ultime parole, «cosa devo fare con lui?»

«Niente, dovevi ascoltare tuo padre», fece il segno della croce in direzione del tavolino pieno di foto.

«Papà lo avrebbe fucilato, come avrebbe fucilato me, e come ha fatto poi con sé stesso. Non ha mai accettato nessuno dei due».

«Io sto ancora imparando a farlo».

Spalanco gli occhi sull’ammasso di pelle grinzosa che una volta era mia madre. Lei mi prende la mano e mi gira il viso verso la finestra. «Non ti dà un senso di pace?»

Scivolo via dalle dita ossute. Vado vicino al tavolino delle foto. In quella più grande e d’argento, c’è papà col suo cappello preferito e lo sguardo triste che ancora fa risuonare il mio nome per le stanze. Non lo ricordo con altre espressioni ma meglio così che ripensare al volto sfigurato dai pallini da caccia. Sono rimasto qui per lei, perché tu non c’eri, parlo alla foto e mento a me stesso.

Di fianco, ce n’è una del compleanno di mamma, di due anni fa. È splendida, sorride e hai i pugni chiusi sul petto. Sposto lo sguardo dalla foto a lei. Sembra esserci un’infinità di tempo in mezzo. Non è nemmeno più grassottella, si è ridotta a un mucchio di ossa che le abitano i vestiti, con la pelle squamosa da mostro di palude. Apre la mano che ha tenuto chiusa tutto il tempo, ne guarda il contenuto e la stringe subito.

Non ho il tempo di ragionare con chiarezza perché, dietro tutte le altre, in una cornice tonda, una piccola foto mi trasforma il sangue in gelatina e le occhiaie in pozzi neri senza fondo.

Siamo io e Giorgio, seduti sul divano di casa. La sua pelle è lucida, il suoi denti bianchi, le braccia vigorose. Ecco, che nel mio cervello, torna a galla la sua versione di stamattina, del tutto diversa da quella che ho vissuto. Ricordo i denti marci, le vene scure, ramificate su delle braccia esili, capelli sfibrati, sguardo spento.

Deve essere uno scherzo della mente. Mi manca la forza per urlare. Lascio cadere la foto e vado via. Lei non si volta nemmeno, fa solo lunghi sospiri verso il suo pugno. Sto impazzendo. Io o tutti gli altri.

Corro più in fretta possibile, scappo non so bene da cosa. Mio padre non è altro che carne seppellita ma riesce a tenere ancora mia madre dentro quella casa, da sola, senza aiuti. E me, ancora qui. Quanto avrei voluto chiedergli perché lo ha fatto, lo tirerei fuori dal tumulo in cui si trova ora solo per sapere perché non è andato via, perché si è lasciato immobilizzare da questo posto. Sbuffo, dandomi dello stupido. Non sono mai riuscito a chiedergli cose diverse dal “com’è andata la caccia?” o “domani sta la partita?”.

Sono esausto, sembrano passati mesi. Arresto il passo. Da quando le cose sono così strane?

Vago per ore finché non trovo il coraggio di tornare nel mio appartamento. Giorgio è sul divano, con lo stesso libro di ieri sera.

«Ciao, piccolo», mi dice.

Gli accarezzo la guancia, sembra melma. Sposto la mano sui capelli, sono sempre meno. Gli alzo un ciuffo, è completamente bianco. Sento le ossa sfuggirmi dalla carne.

«Stasera altra cena di lavoro?» chiedo.

Lui fa una faccia stupita. «Lo faccio per trasferirci prima possibile». Mi dona un bacio sulla punta del naso. Mi ritraggo di colpo. Le sue labbra sono pezzi di vetro. «Presto le cose cambieranno».

«Vado da mia madre stasera», trovo una scusa per scendere prima.

Il volto di Giorgio muta verso il dubbio. «Hai un buco sul pantalone». Rimane a fissarmi senza dire altro.

Guardo l’ora sul Casio al polso. Ventidue esatte. Il cielo nero e gelatinoso si è mangiato le stelle. Ho parcheggiato tra l’inizio del cemento e le campagne, rivolto all’ammasso di abitazioni. L’abitacolo dell’auto è la mia unica protezione dal mondo. Proprio come il paese, è un altro spazio minuscolo in cui aspettare di morire.

Sto per accendere la decima sigaretta, quando uno strano scintillare rapisce la mia attenzione. Guardo nello specchietto retrovisore. Decine di contadini si trascinano dalle terre a gran fatica. Sono un’orda incosciente, che cammina verso la strada di cemento. Mi sento dentro un safari, quando quegli uomini e quelle donne aggirano la mia auto, senza notarla davvero. Urtano la fiancata, strisciano le pance sui finestrini, poi tornano dritti in posizione, diretti alle case con passo lento. Vedo di nuovo lo scintillio. Proteggono degli oggetti in grembo, ben nascosti come i più preziosi dei tesori. Sono paralizzato. C’è solo una cosa che può farmi muovere, e la vedo arrivare di gran fretta.

Giorgio ha parcheggiato lungo la strada sbrecciata più avanti, scende dall’auto lasciando la portiera aperta. Non fa caso a niente alle sue spalle, né a me, né al branco di persone che mi sta aggirando. Comincio a muovermi in modo meccanico. Agisco per impulsi, come se Giorgio fosse l’unica fonte di ossigeno respirabile. Scendo anch’io dall’auto, scanso alcuni di quei tizi e gli vado dietro.

Finalmente vedo dove entra. Una struttura col tetto di lamiera, costruita con mezzi di fortuna. È tutto aperto, il cancello è solo una rete di ferro arricciata e distrutta in più punti. Continuo a seguirlo con discrezione, senza chiamarlo, non è il momento. All’interno, la casa diventa un labirinto di legno ammuffito e predato dalle termiti. Giorgio prosegue per il corridoio, fino a sparire dietro una porta. Mi ci fermo davanti, a dieci centimetri di legno dalla mia opportunità.

Sento la sua voce sibilare parole inafferrabili. Una voce più esile si unisce alla sua. È quella di una donna. Cazzo, lo sapevo. Mi tormento per pochi secondi. Alle voci, se ne aggiunge una terza, maschile. Oh, cazzo. Perché? L’immagine del mio futuro con lui si deforma, allontanandosi come la galleria di un cartone animato.

Stringo la maniglia e un flash azzurro appare da sotto la porta. Stringo più forte, e ne appare un altro. Provo ad aprire e altra luce azzurra mi inonda.

Giorgio è nella stanza con due donne e un uomo. Sono curvi, adoranti e con le mani protese su una sorta di monolite, pieno di scheggiature, al centro del pavimento. La luce proviene da quella cosa, che poggia su piccolo cratere, perfettamente tondo. Sembra un meteorite caduto dal cielo e che la casa ci fosse stata costruita intorno decenni prima.

«Piccolo», dice Giorgio scattando in piedi. Mi stringe a sé, poi spalanca le braccia. «Non pensavo fossi pronto, ma se sei qui, allora lo per lei lo sei».

«Che succede, non capisco, lei?».

«Allunga la mano se vuoi capire».

«È per questa cosa che sei rimasto?»

Tutti mi fissano un attimo, per poi tornare alla pietra. Sono cadaverici, senza carne sotto la pelle, solo ossa appuntite, vene blu, capelli che cadono al suolo. Anche Giorgio è così. Ora lo vedo con chiarezza. Le pupille sono enormi e gli occhi brillano quando brilla la pietra. Ne eseguono i comandi. Anzi, non sono ordini ma promesse. Si muovono come se quell’oggetto, lungo due metri, potesse rivelargli i segreti dietro il buio dell’universo.

«Cos’è? Ti prego, ti sta uccidendo» dico.

«Io non sono mai stato meglio». Lui sorride coi pochi denti marci che gli sono rimasti. «Volevi andare via, no? Presto, forse stasera. Lei ce lo ha detto, ci guida, siamo tutti qui per trovare la pace, piccolo». Prova a darmi un bacio sul naso, ma mi sottraggo in tempo. «Non fare così. Lei è vita, ma ha bisogno di noi e noi di lei. Dice che presto verranno a prenderla e ci porteranno con loro, dobbiamo solo aiutarla». Qualcosa gli brilla nel taschino della giacca. Continua ad avvicinarsi a me. Sono con le spalle al muro.

«Chi? Di che cazzo parli. Portarci dove?»

«Dove meritiamo, toccala e capirai».

Giorgio scatta sull’attenti dopo un lampo azzurro del monolite. In lui si risveglia una fame antica. Va di corsa a toccarlo, come se fosse passato troppo tempo senza farlo. Appena lo sfiora, la sua postura si scioglie, i muscoli cedono, e un sorriso da tossico gli nasce sul viso. Lo vedo che soffre ma anche che non si è mai sentito meglio di così. Provo una sorta di subdola invidia, curiosità di provare quella specie di droga aliena.

In quel momento, rumore grave di passi, anticipa l’ingresso dei contadini di prima. Anche loro hanno gli occhi lucenti e privi d’anima e, uno alla volta, posano i loro tesori vicino alla cosa. Sono altre pietre luminose.

«Finalmente le abbiamo trovate tutte», dice uno di loro.

Giorgio comincia a piangere di gioia. Tira fuori il sasso luminoso dal taschino e lo posa insieme agli altri, ai piedi del monolite. Una vibrazione dolorosa riempie la stanza ammuffita e invade le pareti del mio cranio. Che cazzo sta succedendo. È un incubo, presto mi sarei svegliato, non c’è altra spiegazione. Il rumore diventa assordante. La cosa comunica, lancia flash a cui le persone rispondono come insetti. Li sta consumando, si nutre di loro, da mesi, da anni, da una vita.

Porto le mani alle orecchie, piegandomi per il dolore delle vibrazioni. Ecco che nella stanza entrano altre persone. Le conosco tutte. C’è il sindaco, i postini, il medico, netturbini, ragazzini, i vecchi del bar. Anche mia madre, che mi osserva con occhi spiritati. «Non ti dà un senso di pace? Tuo padre non avrebbe dovuto perderselo». Apre il pugno e lascia cadere un sassolino vicino agli altri. Lo fanno tutti. Le pietre più piccole rispondono alla luce e si fondono al monolite riempiendo tutti i tagli e le scheggiature.

Sento qualcosa strisciarmi dentro, che lentamente si ancora alla carne. Vado verso la pietra, tendo la mano per toccarla, è un impulso su cui non ho controllo. Arrivo a pochi centimetri dalla superfice liscia. Chiudo gli occhi, trattengo il respiro e la tocco. La stanza si riempie di voci stupite. Da sotto le palpebre, avverto le sferzate di luce in risposta alla mia mano. Sento dolore, ma non è immediato. È la sicurezza di doverlo provare, prima o poi, che fa ancora più male.

Visioni prendono posto nella mente. Sta cercando di connettersi con me. Vedo i contadini che, scavando nel terreno, ne trovano i pezzi. Scavano fino a rompersi le dita, pur di trovare altre pietre. Vedo Giorgio in ginocchio nel giardino di casa a guardare un cespuglio. Ci affonda la mano dentro e tira fuori una piccola scheggia che lo cambia per sempre. Lo vedo non rispondere alle chiamate di lavoro, e dirigersi qui ogni volta che il monolite ha bisogno di nutrirsi, come ciascuno di quelli dentro la stanza. Visualizzo mia madre, che strappa un sasso lucido dalla mani morte di mio padre, con rabbia, come non avesse altri scopi. Infine, vedo la cosa. Chiama a sé tutti i suoi frammenti, per poi mandare segnali a qualcosa di oscuro, di lontano. Un ripetitore che corrompe le menti. Ma è una sensazione così dolce. Mi sento abbandonare alla promessa di una vita senza paure, senza legami dolorosi da lasciare.

Quando sto per riaprire gli occhi, un’ultima immagine si anima nel buio dei pensieri. È mio padre, chino su una sedia, col suo amato cappello. Non mi guarda direttamente ma ha gli occhi blu all’inizio e qualcosa stretto nel pugno. Si sente un colpo di fucile esplodere, solo il suono, e le pupille gli ritornano normali. Apre il palmo, è vuoto. Mi agita delicatamente le dita davanti, prima di parlare.

«Non chiedo il tuo perdono, e non voglio trovare scuse. So solo che è stato più facile così, seppellire i problemi sotto i giorni che passavano, e quando volevo andare via, avevo già dato troppo a questo posto, e a voi…»

Sto per chiedergli qualcosa ma lui mi interrompe.

«La risposta a tutte le domande che vuoi farmi è solo una», la voce gli si rompe dallo sforzo, «avevo paura».

Riapro gli occhi, tolgo la mano. Una forza mai provata, mi aiuta a uscire da quel posto. Scappo in lacrime, senza salutare Giorgio e mamma. Le vibrazioni continuano colpirmi per chilometri. Raggiungo l’auto ma non si mette in moto. Cammino per ore, superando quelle terre incancrenite dagli scarichi. Non importa dove scappo, una parte di me è incubata lì, e sono costretto a trovare un modo per andare avanti.

Ho le scarpe lerce di terra, i vestiti sudati e il sangue alle orecchie. Sono arrivato sulla strada statale, cinque chilometri fuori dai confini. Vedo un ombra gigante muoversi dietro le nuvole. Dall’alto, un fascio azzurro e lucente investe tutta la città, è splendido, nessuna immagine nel mio cervello riesce a codificare tale bellezza. La testa mi suggerisce i pensieri più terribili ma da bocca esce tutt’altro, parole di una formula magica che pronuncio a fatica.

«Un cane, non di razza ma preso dal canile. Un’auto nuova, di quelle elettriche. Una libreria gigante. Un robot da cucina che fa tutto, così da avere più tempo per fare l’amore. Poi due vacanze, una al mare per accontentare mia madre e una in montagna solo per…» La lingua impastata dalla polvere e le lacrime in gola, non mi fanno finire. «Ah, vaffanculo».

Osservo per l’ultima volta la città, con lo stesso sguardo di mio padre. Sento che ho sbagliato tutto e che sbaglierò ancora, ma è comunque meglio di niente. Poi mi volto dall’altra parte, continuando a camminare, così da non vederla sparire per sempre.


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