La casa

di Giulia Sarli
copertina di Chiara Casetta


La foglia sul ramo ha un’epidermide spessa, di un verde acceso. I raggi del sole trasformano in luce le sue venature. La foglia si piega come una mano nel tempo. Si incupisce. E un giorno cade. Diventa secca, friabile. Polvere. Infine scompare. Io ne ho scelta una dall’albero piantato davanti al cancello del palazzo in cui vivo con mia moglie e mio figlio. L’albero è un tiglio, la casa è nuova, classe A++ e sorge sulle macerie di un palazzo di otto appartamenti che conoscevo perché ci ho abitato quando ero giovane, studiavo all’università e lavoravo in un bar per permettermi di vivere solo. Pagavo un affitto simbolico perché l’edificio era cadente e destinato alla demolizione, anche se i condomini non volevano saperne di lasciarlo. Anche loro erano cadenti e io li ho osservati ripiegarsi con la loro casa giorno per giorno come faccio oggi con la mia foglia.

La notte in cui avvenne il crollo stavo lavorando e sono arrivato a fatto compiuto. Il tiglio era già qui, a vegliare sulle macerie come il fiore su una tomba. Nessun sopravvissuto nel palazzo oltre a me. La notizia occupò i giornali per alcuni giorni, coronata da atti di accusa per l’inagibilità degli edifici popolari in città e dalle parate del sindaco e dell’assessore all’urbanistica; in bianco e nero la foto delle loro espressioni da gesùcrocifisso. Lo scandalo si trasformò in leggenda per un accertamento più sconvolgente: secondo il medico legale il crollo non era stato il motivo del decesso dei tredici condomini, morti sì quella notte stessa, ma per cause naturali. Una tragedia prima della tragedia.

Nessuno era in grado di spiegarsi come fosse stato possibile. Un miracolo a rovescio, un segno dell’imminente apocalisse. Io solo ero invece consapevole di ciò che era accaduto. Perché sapevo dei loro corpi ogni giorno più curvi, delle loro voci avare fino al mutismo. Perché conoscevo, e pativo, i loro sguardi smarriti. La foglia è destinata a cadere.

Non ero presente e trascorsi i giorni che seguirono a casa dei miei genitori a riempire quel vuoto con l’immaginazione. Gisella, in pigiama bianco decorato con delle rose rosse, prendeva la sua ora d’aria a braccetto della badante Cleopatra. Camminava attorno al cortile, la schiena piegata in avanti. Cleopatra sentì uno strattone che la trascinò a terra, accanto alla sua paziente senza respiro.

Al terzo piano il braccio di Orfeo strinse i fianchi di Pina. Si muovevano lenti, Pina poggiò la testa alla sua spalla. Aveva i capelli lunghi, leggermente mossi, castani, la vita sottile misurava i suoi anni. Avevano tutta la vita davanti. Ogni tanto perdevano il ritmo, ridevano, la bottiglia di vino sul tavolo della cucina era vuota. Pina gli carezzò la schiena scorrendo sulla sua camicia le dita. I loro piedi nudi provavano sollievo al contatto del marmo screziato. Era sera, si stava per alzare il vento, che spingeva sulle imposte. Danzando cambiarono stanza. Prima la sala da pranzo, poi il corridoio segnato a un lato da una crepa profonda che fece loro da orizzonte. Percorsero tutta la casa. La camera da letto era illuminata dalla luce emessa dall’abat-jour sul comodino accanto al letto. Il lenzuolo azzurro, ben teso, aspettava di essere sgualcito. Orfeo le liberò la mano. Lo specchio a figura intera rifletté una donna vestita di un grembiule nero un poco stracciato sui bordi, la pelle rugosa delle braccia che stringevano l’aria, le gambe secche fasciate dalle calze contenitive. Era sola nella stanza.

Euridice, il marito di Orfeo, si svegliò per andare in bagno. Quando tornò a letto gli si avvicinò per dargli un bacio e respirare il suo profumo di verbena. Venne contagiato dalle sue labbra fredde e gli morì in braccio.

Pina sentì la casa tremare come da una scossa di terremoto. Strisciò i piedi fino alla porta d’ingresso e infilò lo sguardo nello spioncino. Cavagna, il vicino all’altro lato del corridoio, era in terra, una mano appoggiata alla ruota del suo deambulatore. 

Mina del secondo si era spenta contro lo stipite della camera da letto, dove aveva scoperto suo marito Ottiero con Letizia, morti poi di dispiacere. Zanardi ebbe un colpo al cuore dopo l’ultima tirata di coca. Sua moglie Sonia era a letto a fumare e a bere, circondata dai gatti. Forse la causa fu la cirrosi. Antonio, che non aveva mai fumato, venne meno per l’ultima chemio che non aveva frenato le metastasi ai polmoni ma si prese il suo cuore. I Gualdi erano seduti sul divano a guardare Nostalghia di Tarkovskij. La scena della candela fu loro fatale.

Pina, seduta al tavolo, fissò la genziana a testa in giù che aveva appeso alla libreria con un filo di ferro. L’aveva colta la domenica precedente, in cima alla collina. Orfeo ed Euridice l’avevano invitata a unirsi a pranzo, per un picnic. Era una giornata di sole, erano partiti presto, arrancando fino alla croce. Si avvicinò al suo fiore rubato per risentire il profumo di quel giorno di pace. Orfeo indossava una camicia azzurra, pantaloni di tela beige. Prima di sederle accanto, le aveva poggiato la sua mano sulla spalla, leggermente, come una carezza. Si sentì molto stanca. Decise di mettersi a letto, la luce si spense sulla ragnatela di crepe delle pareti. Si addormentò quasi subito. Non si accorse di niente. La foglia è destinata a cadere.

Questa mattina sono uscito per accompagnare mio figlio a scuola e ho visto il momento preciso in cui la mia foglia si staccava dal ramo. L’ho raccolta da terra, mentre mio figlio mi fissava. Ho rivolto a lui i miei occhi smarriti. Papà hai un ciuffo di capelli bianchi sul lato, ieri non c’erano. A sinistra, vicino all’orecchio. Li ho studiati allo specchietto dell’auto, la foglia nascosta nella tasca del cappotto. Ho sorriso. Nell’angolo all’ingresso di casa, vicino alla porta, presto noterò una serpentina nera solcare il bianco dell’intonaco. Chiederò a mio figlio di scegliersi una foglia e di osservarla ogni giorno.


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