Primo foraneo

di Filippo Canoro
copertina di Chiara Casetta


Guai ce n’erano sempre stati, ma i guai grossi erano incominciati quella mattina dei suoi tredici anni quando Guido svegliandosi non aveva più visto il babbo in cucina. Il bastardo era scappato di casa abbandonando la moglie e i figli — Guido e la sorella — e lasciando dietro di sé un vecchio motorino scassato, un foulard incrostato di sangue e un debito di trentamila euro che aveva avuto la cara grazia di contrarre con nientemeno che il padrone della fabbrichetta dove lavorava.

Per intanto, per tirare innanzi, Guido colla mamma e la sorella si arrangiavano come potevano. Avevano dapprima impegnato i mobili e le suppellettili sino alla rete del materasso e alle forchette, e poi li avevano venduti. Avevano venduto anche gli infissi, e avevano dovuto sostituire i vetri delle finestre con teli di plastica. Alla fine erano così poveri che la notte, mentre dormivano, i sorci andavano a rosicargli gli alluci. Sorci gonfi come mongolfiere, grigi come la merda, e con grandi occhi da bambino. Da ultimo erano stati costretti al trasloco.

Avevano traslocato nell’infame Primo Foraneo di Mestre, l’ultimo quartiere ai confini tra la laguna e la nebbia, quartiere bonificato poco e male, infestato d’estate come d’inverno da zanzare grosse come tori e molto più cattive, dove i bei tigli e i frassini del centro città lasciavano il posto ai cespugli di ruchetta, alle tamerici e alla spartina marittima, specie quest’ultima di disperante vegetale delle barene che si moltiplicava al ritmo di milioni di spighe al giorno, divorando ogni cosa con una foia che poteva essere solo la rivalsa della natura sull’uomo; la spartina cresceva alitando i suoi fiati di palude in faccia all’esistente, e l’umidità divorava tutto: cose e persone lasciate a se stesse in quella fottuta sovrabbondanza tropicale o palustre di esseri e forme, dove bisognava essere lesti a finire la cena prima che spuntassero i vermi, da dentro, a reclamare la loro razione. L’umidità da quelle parti fiaccava tutti i propositi di vivere e anche di morire: tutto squagliandosi come fango si riduceva in una specie di polta limacciosa che si accumulava sui balconi in montagnole maleolenti. Agli esseri, alla lunga, rimaneva solo quanto l’umidità non gli aveva portato via: la dignità, chi ce l’aveva, ma i più facevano anche senza. Nella notte senza stelle di Primo Foraneo si sentivano dappertutto le grida degli amici e degli amanti traditi, e delle famiglie tutte: perché gli esseri, a quelle latitudini, presi com’erano tra il mare e la mota, nel delirio della spartina che, sola, istericamente verdeggiava sopra tutto, gli esseri incanagliti dall’umidità lottavano l’uno contro l’altro per una boccata d’aria senza le spore della muffa: gli uomini contro i cani randagi, le donne contro gli uomini, le madri contro i figli, e i bambini tra di loro, e tutti a vicenda si davano del folle e dell’egoista.

La verità della vita è la muffa! La muffa che ti divora tutto d’un colpo! Da un giorno all’altro uno si ricopre di macchie verdastre e ti marciscono i pensieri! E allora sì che è tutto finito!

Così strillava il vecchio Tello, il vicino di casa relegato dalla famiglia e dalla pensione sociale in quel quartiere abbandonato da dio. Si trattava di un vecchio colla bocca tutta nera e senza denti sempre storta in una specie di sorriso, e che si distingueva perché mangiava solo gallina lessa, e passava le giornate coll’orecchio appiccicato a una vecchia radio di legno ad ascoltare il notiziario, a bestemmiare e a cacarsi addosso. Per il resto portava una canottiera a coste, sempre la stessa, tutta gialla di sudore e azzurra di muffa, rimboccata dentro certi calzonacci di flanella ragnati sulle ginocchia. Poteva avere cinquant’anni, o anche centocinquanta: poiché il tempo da quelle parti scorreva altrimenti, e l’invecchiamento era solo il risultato della resistenza del corpo all’umidità. Dalla sua finestra sempre aperta veniva odore di carne rancida e di merda fresca.

Guido quando poteva aiutava sto Tello a fare il bagno e a pulire la casa; sua sorella non voleva, perché aveva molto schifo di quell’uomo puzzolente e colla faccia ricoperta di porri e pomidori.

In quelle occasioni quando Guido gli faceva le spugnature nella vasca bollente, tutta ricoperta di schiuma e solcata di paperelle di gomma, Tello si abbandonava alla ricordanza.

Veniva da una famiglia di grandi latifondisti veneti. Dell’infanzia e di casa sua ricordava quasi niente: il chiarore sospeso di un mattino di maggio nel pomario del padre, forse: i peschi, le susine scure, l’uvaspina, i corbezzoli colorati: nient’altro. A diciassette anni era partito per la guerra in Abissinia lasciando a casa il padre infrollito dall’età e un fratello di poco più piccolo di lui.

Non gli era piaciuta per niente, la guerra.

Una notte che i carri armati facevano fioccare in cielo grossi coriandoli di fuoco, un branco di selvaggi armati di frombole e bastoni aveva mandato in rotta la sua compagnia fin dentro il cuore gelido e buio del deserto. Poi i selvaggi erano scomparsi, lasciandoli a tremare e a bestemmiare nel freddo e nella notte. Il giorno, invece, era rovente e pieno di luce, e ben presto la compagnia di Tello si era trovata a traversare senza viveri e senza acqua quel vasto nulla sempre uguale a se stesso che è il deserto. Al terzo giorno, ridotti pelle e ossa dalle sciabolate del solleone, di giorno, e dal freddo glaciale, di notte, erano cominciati a cadere i primi camerati della compagnia. Tello si coricava di notte di fianco ai caduti e si svegliava al mattino colla bocca sporca di rosso. Nel sogno gli sembrava di tornare alla casa di suo padre, col pomario, e le pesche gonfie di succo, e i giochi d’acqua, e la frescura, e tutto il resto, e azzannava e addentava, lacerava, strappava, inghiottiva, rideva. Quei miraggi erano bastati a saziarlo per una settimana intera. I camerati, loro, erano caduti uno alla volta sotto alle sciabolate del sole che li stendeva sulla sabbia dorata e gli sbuzzava il petto e la pancia lasciandoli lì, a marcire come carcasse di somari.

Tello era tornato al mondo tutto sporco di sangue in un villaggio etiope non ancora violentato dalla guerra. La gente del villaggio, di capanna in capanna, gli sbatteva la porta in faccia vedendolo arrivare.

E’ perché hai la faccia di uno che non ha ancora incontrato il suo destino

gli aveva spiegato un vecchio nudo ricoperto di polvere, disteso languidamente al confine tra il villaggio e il nulla, mentre con garbo tirava da una pipetta quello che aveva tutta l’aria di essere sterco. Poi si era levato la pipa dalla bocca e, col cannello, aveva indicato una capanna in lontananza, molto distante dalle altre, all’ombra di un baobab.

Tello avrebbe incontrato il suo destino quella sera stessa, proprio dentro quella capanna, nel nome di una donna che non prometteva nulla di buono. Cassandra si chiamava lei, o forse Marouf: era una negra albina con un occhio verde e uno azzurro, i capelli rossi come il rame, e un corpo da mettere di fronte al suo desiderio anche il più cialtrone degli uomini. Avevano passato la notte aggrovigliati su un materasso di sterpi ed escrementi di cammello: a mangiare datteri, sorridersi, bere acqua di sorgiva e a guardare le stelle comparire e scomparire nell’oculo sul tetto di canne intrecciate. Nell’amore, all’acme, Tello si era fermato improvvisamente, quasi come avesse scorto il nemico, o la fine della guerra, sul volto di Marouf. Aveva tentato, nel suo francese elementare:

Non lo sapevo

Marouf, sudata e colla testa altrove, molto altrove, aveva domandato in mezzo agli ansiti

Cosa non sapevi?

Ma in quell’istante l’orgasmo aveva soffocato le parole nella gola di lui. Voleva dire: Non sapevo, nella guerra, sotto alle bombe, in mezzo al deserto, non sapevo, malgrado il mio grande desiderio, che cosa desiderassi: fino a questo momento.

Quella stessa notte Marouf era morta sotto alle bombe, ancora abbracciata a Tello, quando la regia aeronautica aveva bombardato e raso al suolo l’intero villaggio. Solo Tello si era salvato, e di quella notte avrebbe per sempre conservato sul polpaccio destro una cicatrice a forma di donna che danzava con un cane.

Pazzo di dolore, Tello era corso a piedi nudi al villaggio più vicino, dove la notizia del bombardamento era stata accolta da quegli uomini scurissimi e quasi nudi con una scrollata di spalle. Perché da quelle parti la vita valeva veramente poco, quasi niente in verità, e la morte di un essere, o di un intero villaggio, non era affare di nessuno. Anche la madre di Marouf, quando Tello era infine riuscito a trovarla, a furia di sbracciarsi e di urlare, aveva accolto la notizia della morte della figlia con un gesto del capo come a dire: Quale? La vecchia aveva diciassette figli, otto dei quali non vedeva più da otto anni; uno divorato da una tempesta di sabbia, due scappati chissà dove, un altro punto da uno scorpione e morto il giorno dopo; e otto figlie che portavano tutte lo stesso nome di Marouf.

Tello alla fine era riuscito a tornare in Italia nella stiva di un bastimento che batteva ancora la bandiera del Reich, senza scarpe né carne bastante a ricoprire le sue oscene magrezze. Raccontava che toccandosi la pancia sentiva il filo della schiena. Aveva smesso di mangiare per due ragioni. La prima era che del mangiare non ce n’era. La seconda era che tutte le notti faceva lo stesso sogno: stava passeggiando nel pomario del padre, nella luce diffusa di un mattino di maggio, e riponeva i molti frutti che trovava in un cestino di vimini. Si svegliava sazio.

Ma una volta tornato alla sua campagna e al tanto sognato pomario paterno, aveva trovato il padre morto, e il fratello minore, ormai grande, che aveva preso le redini delle fortune familiari e che adesso lo stava fissando cogli occhi sgranati come pieni di terrore, come si guarda un’apparizione, uno spettro, o un cattivo presagio.

Ti credevo morto. Tutti ti credevamo morto

Quindi l’aveva accompagnato al cimitero e, come per giustificarsi, gli aveva mostrato una lapide col suo nome sopra. Era molto spiacente, sto fratello minore, ma col fatto che Tello non era tornato a casa per così tanti anni… e ormai tutti gli incartamenti erano imbrattati… si sa come va la burocrazia. Insomma, alla fine dei conti a Tello non gli spettava neanche un soldo delle proprietà paterne. Allora, per mantenersi, Tello aveva cominciato a lavorare come falegname, ma quasi subito si era manifestato quell’oscuro morbo che lo faceva sanguinare dagli angoli della bocca, e gli disseccava e raggrinziva la pelle come il sole del deserto. Sempre più insonne e inabile al lavoro, Tello si era recato da tutti i medici della città chiedendo, implorando una risposta alla sua domanda:

Cos’è che c’è, dottore?

Nessun dottore sapeva dire con certezza di cosa si trattasse, ma i sintomi parlavano chiaro: era un morbo letale il cui decorso sarebbe stato rapido, fulmineo anzi. Una volta, un dottore meno cialtrone degli altri aveva aggiunto

C’è che la guerra ti è entrata nella testa e non vuole più uscire

I più ottimisti gli davano due mesi di vita. Con quella prognosi impietosa Tello era tornato alla villa di sua padre. Il fratellino, mosso a compassione dalla morte imminente che storceva gli angoli della bocca di Tello in una specie di sorriso, gli aveva concesso, in presenza di un notaio, una pensione mensile da attingere vita natural durante all’eredità del padre. Con il che il fratello credeva di aver fatto l’affare, salvando in un colpo solo l’anima e le finanze.

A questo punto del racconto, mentre Guido gli stava strofinando la schiena, Tello era scoppiato a ridere, e sbattendo la mano sul fiore dell’acqua mandava le paperelle di gomma a dilagare sulle mattonelle del bagno:

Li ho seppelliti tutti! Tutti dal primo all’ultimo, dio boia! Prima sono schiattati i dottori che mi davano per morto, poi mia cognata, e infine il mio caro fratellino! Tutti, uno dopo l’altro! Sai cosa c’è tra me e loro, adesso? Eh?? Embe’ ci sono tre metri di terra! Ti basta mica, alle volte?! Ah-ha!!

Con quel gran trigo della pensione da attingere all’eredità del padre vita natural durante, Tello aveva riacquistato un mese alla volta quanto gli spettava per diritto di sangue. Ma per tutta la vita aveva dovuto fare grandi economie perché sentiva che, se avesse speso anche solo un centesimo più dello stretto necessario, il suo ritorno alla casa del padre e alla luminosa purezza dei suoi diciassette anni sarebbero stati compromessi una volta per tutte. Sedeva tutto il giorno al tavolo a mangiare gallina lessa con condimenti guasti e di tanto in tanto prorompeva:

Io siedo sopra un tesoro!

La notte si addormentava colla testa sul tavolo e il braccio piegato a far da cuscino. La finestra rimaneva aperta perché Tello sentiva caldo, un caldo africano, e ci teneva a far entrare l’umidità e il rezzo della laguna.

I vicini raccomandavano a Guido di non credere a una sola parola di quello che gli raccontava quel vecchio merdoso e bisbetico. Dicevano che l’umidità gli aveva ammuffito il cervello. Guido, quanto a lui, seguitava a lavargli la schiena e ad ascoltare le sue storie per una specie d’innocenza del cuore e dei sensi.

Una notte molto tardi, o una mattina molto presto, s’erano sentiti dei grossi strilli venire dalle finestre spalancate della casa di Tello.

Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta, Marouf! Ce l’abbiamo fatta!!

E rideva, rideva, sguaiatamente rideva. Rideva perché quello era il terzo martedì del mese, il giorno in cui riscuoteva la pensione, ma non di un mese come tutti gli altri. Con quell’ultima rata, Tello stimava di aver ricostituito per intero tutte le fortune della famiglia, e allora sarebbe partito per un grande viaggio: tornava quel giorno alla casa di suo padre. E’ proprio vero che si viaggia solo a ritroso, e che ogni viaggio ci riporta sempre a casa, dunque.

Ce l’abbiamo fatta, Marouf!

Per prima cosa, Tello era andato in banca a ritirare tutti i soldi in contante e li aveva pigiati in una ventiquattrore spellata: questo per avere la misura fisica delle sue imponenti ricchezze. Poi era andato a comprarsi un tre pezzi spigato e un bastone da passeggio. Aveva pranzato e cenato al ristorante, e quando era scesa la sera e i vicini stavano per calare le serrande, s’ era piantato al centro del piazzale di Primo Foraneo ed era tornato a sgolarsi:

Ve l’avevo detto che sedevo sopra un tesoro, io! Ve l’avevo detto, pezzenti che non siete altro! Miserabili della palude! Coglioni ammuffiti e inveleniti! Marcirete nella miseria e nella muffa, voialtri!

Poi aveva sputato tre volte per terra ed entrato in casa.

Intorno alle dieci e mezzo, tre ladri si erano intrufolati dalla finestra della cucina nella casa di Tello, e adesso stavano salendo le scale in punta di piedi. Tello dormiva sopra il letto rifatto, coll’abito e le scarpe di copale ancora indosso, abbracciato alla sua ventiquattrore. Quella non l’aveva mollata neanche quando i ladri l’avevano minacciato colla rivoltella. Allora gli avevano dato tante di quelle botte che bisognava vedere quante. Ma visto che ancora, nonostante il sangue e le ossa rotte, quel vecchio merdoso non si decideva proprio a smollare la ventiquattrore, gli avevano fracassato il cranio con un mazzuolo da dieci, di quelli che i lavoranti usano per buttare giù le briccole nel grande corpo della laguna. Prima delle undici Tello era già morto.

Questo solo per dire in che razza di quartiere era cresciuto Guido.


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