di David Chance Fragale
treno in ritardo sul binario 3 di mariel
Nel vento che graffia la sera, il campo di spighe sussurra: “Vai, Spaventatore, raccogli ciò che matura dove il sole non guarda.” Le piante si piegano, indicano una direzione, quella del verme di ferro sotto il cielo di piombo, con tanti rettangoli di luce stagliati sul crepuscolo – il regionale veloce, ovviamente immobile, sembra un insulto al buonsenso.
Le spighe si piegano a schiera, non per il vento, ma per il peso di ciò che è cresciuto là sotto, livore e fame. E lo Spaventatore si incammina, per fare ciò che la terra gli ha ordinato.
“C’è uno spaventapasseri,” dice il bambino appiccicandosi al finestrone del treno, il naso schiacciato contro il vetro che riflette il suo sguardo affascinato e allibito. “Luca, no! Non sai quanto è sporco”, lo redarguisce la madre. Seduto di fronte a lei, Ignazio la scruta di sottecchi: è una donna attraente, anche se ha l’aria stanca (per il viaggio? il ritardo del treno? la vita che fa?), estemporaneamente si chiede come dev’essere a letto. Ignazio mette il segno al libro di economia domestica che sta leggendo e guarda l’orologio da polso. Il treno è fermo da quaranta minuti. Sono le otto passate, il pomeriggio è sfumato nella sera.
Prende il cellulare dalla tasca interna della giacca, digita svogliatamente, sbagliando più volte, un messaggio per Clara che lo aspetta a casa. Nota con disappunto che lei gli ha già scritto altre sette volte nell’ultimo quarto d’ora. “Ancora fermi? Sei stanco? Io non mi sento bene, ho l’ansia. La schiena brucia, penso che andrò a letto presto. Vi muovete? C’è qualcuno sulla carrozza con te?”
“Ancora fermi.” Ma Ignazio vorrebbe risponderle invece che forse a casa non ci torna, che viaggia con una bella signora, e che magari proverà a sedurla. Invece aggiunge solo: “Un bambino strilla perché ha visto uno spaventapasseri.”
“Mammamamma!” grida il bambino. “Si è mosso, si è mosso!” Ignazio sbircia oltre la spalla del bambino, attraverso il vetro opaco e sporco di pioggia fangosa asciugata in crittogrammi casuali. Lo spaventapasseri c’è davvero. Sporge la testa fra le spighe di mais come se volesse dare un’occhiata curiosa al treno immobile in mezzo ai campi. Ha un aspetto orribile, Ignazio si chiede se per spaventare gli uccelli o tutte le forme di vita. La testa è un sacco di iuta gonfio, quattro fessure strappate che dovrebbero essere occhi, naso e bocca, una pareidolia di volto che cambia espressione a seconda di come l’ombra delle piante si muove sopra di esso. Dagli squarci nel sacco è impossibile dire se là sotto ci sia una zucca marcita o una carcassa decomposta. Il corpo è un’impalcatura di plastica bruciata che sembra un grande verme bianco infilzato su due pali che dovrebbero essere gambe. Una giacca ammuffita e un paio di pantaloni marci riescono a malapena a nascondere la sua natura inumana. Anche perché l’autore di quel misfatto estetico ha pensato bene di aggiungere altre quattro braccia allo spaventapasseri, ognuna delle quali finisce alternativamente con guanti da lavoro flosci, coltelli da cucina e appendiabiti arrugginiti.
“Dovresti stare più indietro, puttana di strada,” ringhia l’uomo due sedili più avanti, sulla cinquantina, con la pelle arrossata dal vino, grasso, sudato, gli occhi stretti in due fessure di disgusto. Da prima che il treno si fermasse ha deciso di rendere un inferno il viaggio della ragazza magrebina seduta di fronte a lui. “Le tue ginocchia mi stanno bucando i polpacci,” bercia il tizio, “qui non siamo nel vostro lurido bazar, in Europa ci sono delle regole, capisci? O forse sei troppo occupata a fregare soldi per capirlo?”
La ragazza prima si guarda intorno, cercando sostegno dagli altri passeggeri, ma tutti si sono trincerati nei loro telefoni, nei libercoli, isolati nelle cuffie, solo un paio di donne anziane si bisbigliano cose fra loro con le mani sulle bocche rugose, fissandola con piccoli occhi divertiti. La ragazza incontra lo sguardo di Ignazio, che si è sporto per semplice curiosità e non certo perché sia oltraggiato – la neutralità è il suo manifesto di vita. “Studio all’università, stronzo,” sibila lei tirandosi in piedi, decisa a sbrigarsela da sola. “Adesso vado a cercare il controllore e ti faccio sbattere giù dal treno, brutto schifoso.”
“Sono qui,” dice uno spilungone pallido e magro come un chiodo che sembra sbucato dal nulla. “Biglietto prego.” Indossa la divisa delle ferrovie dello stato, ma starebbe meglio con un mantello e il bavero alto, pensa Ignazio. Se poi fosse anche ungherese sarebbe perfetto nel ruolo di Dracula.
“Questa bestia mi importuna da quando sono salita sul treno!” replica la ragazza magrebina rovistando nella borsa.
Il controllore sposta lo sguardo sul tizio sudato. “E’ vero?”
“Nel mio Paese dico quello che mi pare.”
“È anche il mio paese,” strilla la ragazza sferrando uno schiaffo all’uomo, che tenta di schivarlo con l’agilità che ci metterebbe un tricheco a schivare un proiettile. Il tizio sembra rimbalzare all’indietro, sussultare sul posto come un budino gigante, è ovviamente sopraffatto dallo stupore, la ragazza non deve avergli procurato neppure il fastidio della puntura di una zanzara, ma evidentemente nessuno l’ha mai trattato così.
L’alterco sta per sfociare in una rissa, Ignazio lo sa, ma viene distratto dalla voce stridula di Luca. Il bambino urla.
Ignazio si volta, per un momento tentato di redarguire il moccioso, ma subito intercetta l’espressione di terrore che ha dipinta sul volto, la stessa della madre che balbetta qualcosa di incomprensibile, gli occhi rivolti all’esterno. Ignazio si lascia guidare dal loro sguardo. Il cuore salta un battito, due, forse anche tre. Il libro di economia domestica gli scivola dalle mani, rimbalza sul sedile accanto.
Il busto è schiacciato contro il finestrone come se fosse stato scagliato lì da una forza invisibile. La plastica stracciata incollata al vetro umido, le mani molteplici – guanti flosci e coltelli – artigliano piano il vetro. E la testa dello spaventapasseri, enorme e sproporzionata, si gira lentamente verso di lui.
Ignazio si irrigidisce, un ronzio fortissimo gli sale nelle orecchie, il tempo rallenta. Alle sue spalle la ragazza magrebina e il grasso patriota a giorni alterni si stanno azzuffando – il controllore arretra con le mani incrociate al petto come le zampe del pipistrello a cui somiglia – ma il mondo di Ignazio si riduce a quel vetro spesso eppure troppo sottile, e a ciò che c’è dall’altra parte, smanioso di raggiungere le cose di carne che sono sul treno regionale morto laggiù in mezzo ai campi.
Adesso urlano pure le due signore anziane. Hanno visto lo spaventapasseri.
La testa della creatura si sposta verso di loro, strisciando sulla fiancata della carrozza, sparisce per un momento dietro la cornice di metallo della finestra da cui Ignazio, Luca e sua madre stanno guardando, mentre il resto del corpo molliccio, fracassato, inadatto a deambulare eppure così vivace e ferino, gli va dietro ostinato.
Cinque o sei teste si sollevano dai loro sedili, si fissano nella direzione dei gemiti sconvolti delle donne. Adesso tutti vedono quella cosa terribile.
Ignazio incontra lo sguardo della ragazza insultata, che ancora strattona il colletto dell’ignorante che ha schiaffeggiato. Di nuovo, Ignazio segue la direzione di uno sguardo. La ragazza, più corrucciata che spaventata, fissa un punto preciso: la sezione apribile a ribalta della finestra, che è rimasta aperta per evitare che si schiattasse tutti di caldo là dentro, e poi la sera era così profumata e fresca…
“Merda,” dice la ragazza mollando il suo molestatore e raccogliendo lo zaino in tutta fretta.
Luca e sua madre strillano fortissimo, si abbracciano come a volersi fondere in un solo organismo fatto di singhiozzi e fiati espulsi, il suono del terrore.
Ignazio pure vede che lo spaventapasseri sta scivolando attraverso la ribalta, come un polpo flessibile e intelligentissimo. Le grucce gli permettono di issarsi con facilità ai bordi della finestra e spingersi sempre più dentro.
Con un gesto secco e inaspettatamente rapido, la creatura lancia un gancio storto all’interno del treno, quasi a disarticolare il braccio floscio, e arpiona l’orbita destra di una delle donne anziane. Lei spalanca la bocca in un grido silenzioso. Il suo respiro, se c’è ancora, si è nascosto da qualche parte tra le pieghe della carne. Non emette un suono nemmeno quando l’orbita esplode con uno schiocco che riverbera in tutto il vagone. La testa sobbalza all’indietro ma il corpo rimane rigido, seduto composto. Solo un leggero sobbalzo delle scarpe — un tic nervoso di vita che se ne va — tradisce la sofferenza immane. Un vago pensiero attraversa la mente ottenebrata di Ignazio, la possibilità e la speranza che la donna sia morta di infarto quasi subito.
Lo spaventapasseri tira. Tira forte. Struscia il busto di stoffa e plastica bruciata sulla cornice del finestrino, lacerandosi brandelli di giacca da cui colano semi neri, muffe filamentose e persino larve trasparenti e fili elettrici – ogni strappo verso l’interno strappa anche la faccia della donna, una membrana che si sfoglia a svelare l’intima verità dietro la pelle, un teschio sorridente e sanguinoso.
Il fantoccio scivola sulle ginocchia della donna come un bambino sbagliato in cerca di un grembo su cui riposare, poi solleva il capo di iuta: ride. Ride senza senso e senza suono.
“Mi chiamo Amina. Venite con me.”
Ignazio si volta. La ragazza magrebina ha preso le mani di Luca e di sua madre e le sta strattonando via dalla loro paralisi, che li tiene incollati al sedile.
Intanto lo spaventapasseri si solleva.
Amina trascina Luca che trascina sua madre, la ragazza tira con forza la maniglia che smuove la porta scorrevole della carrozza. Fa un cenno perentorio di passare nel vagone successivo.
Lo spaventapasseri sovrasta i suoi spettatori, appare più alto di quanto potesse sembrare all’esterno, probabilmente si muoveva chino e guardingo come una bestie feroce, che poi è quello che è in effetti. Il suo sorriso, uno strappo nella testa sfilacciata, si allarga come quello di un affamato al tavolo imbandito.
Ignazio si alza dal suo posto e segue Amina proprio mentre la creatura, ignorando l’altra donna anziana, si lancia sul grassone sudato.
“E tu che cazzo sei?” sbuffa l’uomo dimostrandosi fedele a se stesso fino all’ultimo, proferendo le parole sbagliate fino all’ultimo.
Lo spaventapasseri gli ficca una mano ornata di coltelli dentro lo stomaco; altre due braccia lo avvolgono intorno al collo, stringendolo in una morsa letale. La carrozza si riempie del suono liquido di qualcosa che scava in un tessuto molle. Prima di voltarsi e fuggire, Ignazio vede spuntare i coltelli dalla bocca dell’uomo, che ancora cerca di farfugliare qualcosa fra intestini, vomito e sangue.
Il controllore del treno, se possibile ancora più pallido e consumato da quello che sta accadendo, si abbandona a un grido stridulo, anomalo, un fischio prolungato. Le braccia dello spaventapasseri si srotolano velocemente dal corpo del grassone e sventagliano l’aria con un movimento circolare velocissimo che schizza interiora dappertutto, lavando le facce degli spettatori increduli; la testa del pubblico ufficiale viene segata di netto e vola lontano, rotolando sotto un sedile.
Ignazio strattona la porta scorrevole per seguire Amina, Luca e sua madre. Le vede allontanarsi lungo carrozza successiva, vuota, le luci assurdamente spente. Ombre che si confondono fra le ombre, vuole essere un’ombra anche lui. La porta però non si apre. La maniglia si abbassa ma la porta non scorre sul suo binario, è bloccata.
Ignazio emette un verso stridulo, d’animale in gabbia. Le urla alle sue spalle si intensificano, stanno raggiungendo un apice insostenibile. Ignazio piange, tirando con tutte le sue forze la maniglia. La porta si apre di scatto, quasi perde l’equilibrio, e lui scivola nell’intercapedine fra le due carrozze. Come la porta si richiude alle sue spalle un corpo vi si abbatte contro. Ignazio si volta, vede un volto schiacciato sul pannello di vetro rettangolare, inondato di sangue – un ragazzo dal naso distrutto, la bocca spalancata su gengive prive di denti. Il vetro diventa tutto rosso e la faccia del ragazzo un grumo nerastro informe, ma ancora si vede il sorriso dello spaventapasseri dietro di lui, che lo manovra come una spugna gonfia.
La seconda porta cede facilmente, si apre rumorosa e permette a Ignazio di accedere alla carrozza successiva. Buia.
Tremante, incerto sulle gambe, Ignazio si aggrappa ai sedili più prossimi; sono coperti da un velo polveroso, come pelle morta, e sono freddi, freddi. Sembrano occupati – non da passeggeri veri, ma da sagome, corpi rigidi, emaciati, alcuni col capo reclinato, uno di loro sembra scivolare impercettibilmente più vicino, senza alcun suono – sono solo ombre, nient’altro che ombre.
L’aria puzza di terra umida e ferro ossidato.
Ignazio scuote la testa, si guarda indietro, la porta è ancora chiusa, le urla si sono magicamente spente con il suo ingresso in quel nuovo ambiente. Sa che questa cosa non è possibile, dovrebbe ancora esserci qualcuno di là che grida e muore, lo spaventapasseri non può essere stato così veloce nel suo massacro. Torna a guardare avanti. L’oscurità dentro la carrozza non è totale: filtra una luce livida, proviene dai finestrini, ha paura di sbirciare fuori ma lo fa. Il campo di spighe pare smisurato, sterminato, ondeggia come un orizzonte oceanico, in un moto sordo e inquietante. Le spighe sono troppo vicine, si sporgono, si chinano verso il treno, come dita sottili che cercano di artigliare la lamiera.
Il respiro accelera. Più si inoltra, più la carrozza sembra allungarsi all’infinito, deformarsi – ora le spighe battono sui vetri. Ignazio stringe le braccia contro il corpo, avanza, o cerca di avanzare, mentre le ombre sui sedili si gonfiano, lo strattonano per i lembi della giacca, sussurrano parole spezzate nelle sue orecchie.
Raggiunge le porte d’uscita del treno, che sono spalancate sulla notte anticipata del campo di mais; il cielo esibisce forme nuvolose dall’aspetto canceroso ma più che altro è buio, mentre la massa di spighe sembra respirare, si sporge e si ritrae come la risacca del mare.
Ignazio sa che dovrebbe fuggire fuori, allontanarsi in quell’intrico, ma sa pure che da lì è venuto lo spaventapasseri, che quello è il suo mondo, un mondo ostile, e che potrebbero essercene altri come lui.
Poi un’epifania. Il telefono. Chiamare qualcuno.
Ignazio si sfila il cellulare dalla tasca della giacca, sta per comporre il numero – di chi? dei pompieri? della polizia? Poi vede la notifica del messaggio whatsapp. Clara. La sua dolce e ipocondriaca moglie. Vorrebbe solo cancellare quella che di sicuro è l’ennesima lamentela, l’accusa del suo non essere sempre con lei, a sorreggere il suo castello infestato di malesseri e dubbi, ma invece apre il messaggio e lo legge.
“Io l’ho sognato. Ti ho sognato, Ignazio. Ho sognato che un mostro ti inseguiva. Era fatto di stracci, come uno spaventapasseri. Ho paura per te.”
E poi altri messaggi.
“Sto male. Malissimo. Perché non rispondi?”
“Nel sogno stavi morendo!”
“Cercavi di raggiungere un bambino, di salvarlo, per salvarti anche tu!”
“Ignazio, ti prego, dimmi che va tutto bene!”
“NON RESPIRO!”
Ignazio mette via il telefono, sconvolto. Sussulta e guarda nella carrozza buia, c’è stato un rumore. Niente. Con cautela lancia un’occhiata anche nel corridoio seguente, ma attraverso il vetro della porta non si scorgono che tenebre. “Dove siete tutti?” urla con quanto fiato ha in gola, poi si tappa frettolosamente la bocca, dandosi dello stupido.
Per tutta risposta, dal campo viene un grido. Poi un altro. Un bambino e una donna.
Cercavi di raggiungere un bambino, di salvarlo…
Possibile?
…per salvarti anche tu.
Ignazio decide di abbandonarsi alla profezia della moglie. Niente ha più senso, quindi ogni azione insensata può condurre ad esiti inaspettati. Salta giù dal treno, sulla ghiaia che lambisce il binario, e comincia a correre con le braccia tese in avanti. Il campo lo accoglie con un fruscio imperioso, come un sospiro di ingordigia. Subito la selva di spighe si serra su di lui, le piante lo frustano, lo tagliano, mentre le voci straziate del bambino sembrano allontanarsi, dissolversi tra i filari, sparire per un momento e il momento dopo farsi più alte e dolorose.
Un odore dolciastro e marcescente impregna l’aria, più simile al tanfo di carne in decomposizione che al profumo della campagna.
La voce del bambino si unisce a quella della madre, e poi a una terza voce, quella di Amina, forse, frantumandosi in versi gutturali simili ai lamenti di un animale condotto al macello. Il terreno inghiotte la sua corsa, lo frena, lo assorbe, fame viva, coscienza antica e perversa, la natura preparata dall’uomo qui non segue le leggi dell’uomo, si è ribellata in qualche modo. E lui, intrappolato nel suo ventre, comincia a capire che le voci non stanno affatto chiedendo aiuto: attirano solo un altro sacrificio.
Sbuca in una radura circolare. Gli steli sono piegati come se una tromba d’aria li avesse schiacciati in modo metodico, o come se un UFO avesse voluto lasciare un messaggio incomprensibile a chi non ha tempo né voglia di interpretare il mistero.
Lo spaventapasseri, al centro della radura, sovrasta le due donne in ginocchio, il bambino è leggermente in disparte. Tutti gridano, ma Luca è l’unico a non tradire alcuna emozione. Il suo volto è una maschera di pietra, ma dalla bocca spalancata sgorga quell’urlo infinito che a tratti cambia tono e si trasforma in una specie di canto, fatto di molte voci, o in un suono elettrico, il mormorio di un lampione solitario nella notte. Ignazio rinuncia a capire, resta immobile e impotente, studiando il da farsi. Nel frattempo Amina muore.
Ha cercato come poteva di difendersi, in qualche modo ha strappato una delle braccia dello spaventapasseri, che giace fra gli steli schiacciati lì vicino.
La testa del mostro ondeggia, fessure per occhi e bocca che stillano paglia viva e una nebbia rugginosa. La nebbia ha avvolto la ragazza, che impreca e si dibatte: il suo volto si sta screpolando, si sfoglia come corteccia morta. Le sue ossa scricchiolano, cantano un lamento sottile mentre si disfano. La carne si svuota, si fa polvere rossa nell’aria.
“Che…cazzo…sei?” mormora lo spaventapasseri inclinando la testa con fare curioso, inondando di spore la gola di Amina. “Ci…sono…delle…regole…” Ha rubato la voce del grassone ignorante del treno, e questo lo rende ancora più insopportabile.
Amina tenta di divincolarsi ma ormai è solo un corpo rinsecchito, cosciente e sofferente, alla fine riesce a divincolarsi, si allontana zampettando come un insetto stecco, su arti sottili, con movimenti meccanici e poco convinti. Si accascia e si polverizza al limitare della radura, osservata da spighe che si flettono per studiarla con sospetto.
Luca smette di gridare, serra le labbra lentamente, volge gli occhi a sua madre – la donna di cui Ignazio non saprà mai il nome, la donna che pochi minuti prima avrebbe volentieri invitato fuori per un drink, poi magari in un hotel, dentro un letto, nel cuore.
Lo spaventapasseri si accuccia contro di lei, avvolgendola nell’abbraccio che Ignazio ha già visto sul treno, ma stavolta c’è qualcosa di tenero davvero, un’intenzione dolce che prelude a scopi spaventosi. L’odore di marcio del campo si intensifica, odore di solitudine e morte. Gli arti dello spaventapasseri si allungano come pensieri malati, si intrecciano alla gola della donna e la strangolano. Lo spaventapasseri espira, inspira. Dal buco della sua testa cola un polline nero, nebbia condensata in grumi mobili: penetra direttamente nella carne del volto della donna, la donna lo assorbe, la sua pelle inghiotte i grumi come se volesse soddisfare i bisogni della terra orribile. Ignazio scorge un momento i suoi occhi rivolti al figlio, pieni di angoscia e cordoglio, poi la sostanza nera glieli riempie. Passa qualche istante di completo silenzio, anche il mais ha smesso di farfugliare, quindi la testa della donna si apre come un fiore impazzito: dal suo cranio erompe una massa di cose indistinte, fumo e foglie taglienti, sbocciano mani secche, uccelli morti, nodi di filo spinato. Il suo corpo si piega all’indietro, si riscrive in mille alfabeti che nessuno può leggere. Rumori di spaccature accompagnano un organismo proliferante che cancella e rimodella spalle, seni, braccia, schiena e culo, infine le gambe, in una complessità vivente che non è più umana né animale, forse ricorda un abominio vegetale. La cosa gorgoglia, pulsa, qualcosa sotto di lei inizia a scavare un solco nel terreno.
Ignazio cade in ginocchio e vomita.
Come una talpa spellata, o un bruco bagnato, la massa informe si addentra nel sottosuolo, lo spaventapasseri la lascia andare. Non potrebbe neppure impedirglielo perché anche lui si sta sfaldando. Cade in pezzi, prima la testa, poi tutto il resto. Sembra così poco, adesso, pensa Ignazio.
Il silenzio, se possibile, è ancora più intenso. Un mondo sordo sotto un cielo cieco.
Lentamente Luca si volta a guardare Ignazio. I suoi occhi sono buchi neri.
Un suono frantuma il mutismo del campo, l’uomo trasale. Una notifica sul suo cellulare. Con mani tremanti lo cerca, se lo porta al viso, strizza gli occhi, non riesce a leggere bene fra le lacrime, la polvere e il sudore. Clara, ovviamente.
“Mi sono sbagliata. Ho ricordato meglio. Nel sogno era il bambino a farti del male.”
Ignazio cerca di trattenere una risata isterica. L’ultimo messaggio di sua moglie è pieno di emoticon arrabbiati e tristi. “Non mi stai tradendo, vero?”
Il telefono gli cade di mano e lui lo lascia lì. Il bambino adesso gli sta davanti, lo fissa con ardore, gli occhi che traboccano buio. Tra le mani tiene il sacco di iuta che fu la testa dello spaventapasseri.
Radici sottili si sollevano dalla terra e accarezzano le caviglie, le cosce, le ginocchia dell’uomo, stringendolo al suolo. Il bambino spalanca la bocca sbavante e prorompe in una risata e la sua risata è un coro di voci, quelle di vecchi contadini morti, di bestie macellate, il pianto stesso del mais inaridito sotto il sole. Ignazio sente il bisogno di dire qualcosa, un’ultima cosa, la sua bocca si apre in modo automatico e non per suo volere, ma solo perché qualcosa gli sta fiorendo in gola, una lingua vegetale che lo soffoca di vita estranea e prelude a nuovi grandiosi propositi.
Nel vento che graffia la notte, il campo di spighe sussurra: “Vieni, Spaventatore, e servimi bene, dormi con me, cammina con me, fallo per me.” Il bambino copre la testa dell’uomo con la sua nuova testa, e lo battezza di segreti e misteri, quelli del mondo che l’uomo ha preso e il mondo si riprende poco alla volta.
Le spighe si piegano a schiera, non per il vento, ma per il peso di ciò che è cresciuto là sotto, livore e fame. E il treno riparte silenzioso verso la sua destinazione, mentre da qualche parte sui sedili sporchi di sangue un libro di economia domestica è aperto sulle pagine che spiegano come gestire spese fisse e spese variabili, destinando una parte del reddito mensile al risparmio e alla prevenzione degli imprevisti.
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