di Stella Schito
treno che l’ha fatto zio all’Ansaldo di Roberta Delitala
L’ho capito subito che qualcosa non andava. Per le porte automatiche che poco prima del fischio di partenza si riaprono. Per lo sguardo di Vittore che si affretta a controllare chi possa aver avuto l’ardire di salire senza essere passato dal suo occhio inquisitore. Siamo tutti soppesati meticolosamente. Il nostro foglietto di destinazione viene girato e rivoltato. Se hai l’abbonamento Vittore ti chiede di mostrare il documento, se hai il biglietto singolo vuole l’obliteratura dal lato corretto, se no non si legge e quindi non sali. Ti lascia sulla banchina mentre ti urla qualcosa di volgare, perché lui è un pubblico ufficiale e se gli rispondi è reato. Non aspetta altro.
Per un periodo gli avevano dato il manganello e si vedevano le dita tremare a ogni nostro movimento. Il pollice si appoggiava sull’impugnatura e la accarezzava quasi fosse la fessura secca di sua moglie. Questo trattamento non spetta a tutti. Vittore ha le sue vittime predilette e io non sono tra quelle. Con me è solo antipatico, mi guarda male e si succhia il labbro inferiore mentre gli mostro il biglietto. Lo squadra e lo convalida meticolosamente strappandolo a metà. Mi da i due pezzetti e si scansa dall’entrata per lasciarmi passare.
A quelli dietro di me, se intuisce che con l’italiano non sono forti, gli sputacchia in faccia “biglietto!” e sembra già convinto che non avranno niente da mostrargli. Lo fa anche ad Abdel che prende il treno ogni singolo giorno, e Vittore ogni giorno vuole il documento e sembra sempre deluso quando il nome sull’abbonamento corrisponde.
Ma la sua fame è soddisfatta, c’è sempre qualcuno che non è in regola e può essere lasciato sulla banchina. Resta giù anche lui fino a un secondo prima della partenza, e li squadra nell’attesa che si arrabbino o rispondano. Anche adesso che il manganello non ce l’ha, gli va la mano alla cintura e si accarezza i passanti dei pantaloni.
Per la foga con cui ridiscende il corridoio mi viene voglia di fargli lo sgambetto e immaginarlo faccia a terra, ma ho già raggiunto la mia posizione. Con i piedi sul sedile e la schiena poggiata alla lamiera, non mi muoverei per nulla al mondo. Si vede che Vittore è convinto di aver subito un torto, che qualcuno lasciato a terra stia cercando di aprire le porte all’ultimo secondo per infilarsi dentro. Lo si capisce dal passo che incespica su se stesso per recuperare terreno e raggiungere in tempo la porta.
Mi supera e sono pronta a sentire le grida alle mie spalle.
Stringo i denti in attesa dello schianto, ma le urla non arrivano. Solo il fruscio delle porte che si richiudono e il motore che si avvia.
Sento: «Biglietto, prego». Un leggero fastidio nella voce ma nessun urlo.
Un attimo di silenzio e poi lo strappo, lento.
Quando l’altra voce fa il suo ingresso in campo, il treno è scosso da un brivido di gelo. Sento il motore congelarsi qualche secondo, ma forse è solo un’impressione dovuta al chiacchiericcio nel vagone che si è interrotto bruscamente. Tratteniamo il respiro, all’unisono, perché la voce ha detto: «Mi scusi, questo va a Galatina, vero?».
È un timbro femminile, composto. Non riesco a trattenermi e mi metto seduta. Cerco di sporgere la testa oltre i sedili per riuscire a sbirciare. Gli altri passeggeri fanno lo stesso.
Vittore è scosso quanto noi. Gli vedo la schiena e un quarto del volto. È rimasto paralizzato con i frammenti del biglietto ancora in mano. La donna che gli è di fronte è in attesa della risposta. Un sorriso imbarazzato le increspa il volto. Si è lasciata intenerire dall’aspetto anziano di Vittore. Forse crede sia un poco rimbambito, con la pelle rugosa e i ciuffi bianchi a scendergli sulle tempie.
Ripete la sua domanda parlando un po’ più forte e avvicinandosi al volto inebetito del controllore: «è il treno per Galatina questo?».
Sento dei pungoli affilati scavarmi tra le vertebre, è un dolore alle giunture che arriva a intermittenza. Tiro giù le gambe dal sedile e mi rimetto composta. Guardo dritta davanti a me e provo a calmare il mio corpo. Sono del tutto contratta e il respiro mi si ferma a metà della gola.
Prego che non si metta vicino a me. Prendo la borsa e la poggio tra i posti vuoti del sedile di fronte. Il treno regionale delle Ferrovie del Sud Est risale alla gloriosa primavera del 1978. Mentre la brillantina di John Travolta accecava gli schermi e Aldo Moro aveva sogni inqueti nel portabagagli di una Renault, nel profondo Sud le automotrici Ad 31-45 facevano il loro primo spettacolare giro sulle rotaie private più lunghe di Italia, prima di essere incorporate a quelle dello Stato.
E il ’78 era un anno strano. Nonostante gli anni di piombo, doveva ancora resistere un’idea di collettività fastidiosissima. Un’idea che ha portato a progettare questi due vagoncini come le sedute di un ristorante, con i sedili di pelle messi uno di fronte all’altro, in gruppi di quattro passeggeri che, secondo l’illustrissimo ingegnere, dovevano gustare convivialmente la lentezza mostruosa della carretta di trasporto.
Maledettissimo ingegnere. Un freddo artico mi incolla i muscoli l’uno a l’altro. Ho messo la borsa esattamente a metà del sedile, ma mentre sento i passettini risalire il vagone ho paura che non sia sufficiente.
Quando arriva alla mia altezza devo trattenermi per non guardarla. Sono curiosa di conoscere il suo aspetto ma credo che un contatto visivo possa convincerla a sedersi proprio di fronte a me. Non potrei reggerlo. Resto mummificata sul mio sedile. Deve essere un istinto animale quello che ci porta a immobilizzarci nella speranza di non essere visti: “Fingiti morto!” dev’essere il pensiero. A questa frase che mi si para nella testa non posso evitare di associare un risolino. Quando risale sulle labbra lo ingoio giù. Ma ormai il danno è fatto.
È bastata quella mezza inarcatura delle guance per convincere la signora a fermarsi proprio di fronte a me. Vedo la punta delle sue scarpe sostare nello spazietto tra i due sedili.
«Mi scusi, è libero?» chiede.
Potrei dire di no, ma sarebbe una menzogna troppo grande. Senza alzare lo sguardo mastico un suono che dovrebbe essere di assenso e stiro il mio corpo per recuperare la borsa. Il movimento fa male, ma mai quanto la consapevolezza di essermi fregata con le mie stesse mani. Come il più bavoso dei residenti di un manicomio ho riso alla mia stessa battuta e questo mi costerà il viaggio. Almeno fino a Galatina. Venti kilometri di percorso, che nel sistema di misurazione del ’78 equivalgono a un’ora e dieci di viaggio.
I problemi non tardano ad arrivare. Iniziano con un arricciarsi del naso e lo sguardo che vaga per la scatoletta di latta a cercare di individuare l’origine del puzzo. “È ovunque” ci sarebbe da dirle, ma non mi intrometto. Poi c’è l’occhio che finalmente si accorge della chiazza nera a due centimetri dalla sua coscia, e con un sobbalzo porta il corpo al bordo del sedile. Ancora dopo si alza, cerca di aprire la parte superiore del finestrino per creare un po’ di ricircolo d’aria. Ci mette tutta la sua forza, povera anima. Ma l’aggeggio non si muove di un millimetro. Con lo sguardo cerca il mio aiuto.
«È bloccato» dico e riporto gli occhi al pavimento.
Appena si ridiede inizia ad armeggiare nella borsa per cacciare un pacchetto di salviette umidificate. Questo gesto raccoglie l’attenzione di tutti. Vedo Abdel all’altro lato del corridoio incastrare gli occhi giallini sulle mani della signora. Sembra ipnotizzato. Con la bocca un poco aperta guarda lo svolazzare di quel pezzetto di carta che spande nell’aria un odore di alcool.
Il vagone è completamente muto, persino le comari hanno interrotto il loro rosario di nomi e di luoghi. Nessuno parla al telefono o ascolta video a tutto volume. Il treno è perfettamente silenzioso e immobile per quel corpo estraneo che come un tumore si è fatto strada dentro.
La signora sfrega la salvietta sulle dita, ma l’impronta arancione non vuole andare via. I finestrini sono tutti ricoperti di graffiti ed è un errore comune pensare che siano solo fuori dal vetro.
Ci sono così tanti strati che i giovani artisti hanno iniziato a usare anche il lato interno e toccare i finestrini non è una grande idea, la vernice non fa in tempo ad asciugare prima di essere coperta da un ennesimo colore. Questo ci benedice con una luce che la gente pagherebbe per vedere riprodotta in un museo di arte contemporanea. I raggi del tramonto, che d’inverno arriva già alle cinque del pomeriggio, vengono filtrati dai vetri colorati e diventa tutto alieno. Siamo i primi testimoni di un crepuscolo marziano o dell’alba su Plutone, con la luce che prende i toni del verde e del lilla.
All’altezza di Zollino il treno si ferma. Il sole fa in tempo a sparire oltre la campagna e noi siamo ancora bloccati. Il tramonto perde la sua magia e tutto viene ingoiato dal grigio polveroso delle lampade a led.
Se non ci fosse la signora questa sosta sarebbe un regalo divino, un piacere tutto unico nel propagarsi della dissoluzione. Il mio corpo già si adatta, riconosce istintivamente la modifica dello spazio ed è pronto ad arrendersi. Mi sforzo di tenerlo incollato: i problemi non sono di certo finiti.
Vedo la signora cercare con lo sguardo il controllore. Dalla mia posizione riconosco la spallina della divisa di Vittore fare capolino dai sedili in fondo. Cerca di non farsi notare, ma sarebbe suo dovere. Decido di indicarglielo.
In un batter d’occhio arriva da lui e gli si para davanti, in piedi, senza dargli via di scampo. Io mi godo lo spettacolo e so che il resto del treno lo farà con me.
«Mi scusi,» la signora inizia sempre uguale, «perché siamo fermi?»
Lo stupore negli occhi di Vittore vale quasi tutto il fastidio che devo sopportare. Non sa cosa rispondere, non gli è mai stata fatta una domanda del genere.
Si alza in piedi e per il nervosismo inizia a spolverarsi la divisa.
«Dobbiamo aspettare la coincidenza, signora.»
«La coincidenza?»
«Deve passare l’altro treno.» Vittore inizia a sudare.
La signora non capisce. «Devo cambiare treno?» chiede.
«No, signora. Il treno deve passare nell’altra direzione. C’è un binario solo, bisogna aspettare».
«Ma faremo tardi?»
Se il treno non fosse già fermo sono certa che avrebbe inchiodato di colpo. Tutti noi ci ingoiamo il respiro. Se possibile, si fa ancora più silenzio di prima.
Dentro la pancia sento l’intestino flettersi e una specie di febbre mi risale sotto la pelle. Sono scomoda nel mio stesso corpo, mi sento stritolata dai vestiti, dall’aria, dalla presenza invadente di quella persona che ormai infesta l’intero vagone.
Vittore si allenta il nodo della cravatta e finalmente dà voce al pensiero collettivo.
«Signora, ma lei perché è su questo treno?» chiede.
Se dovesse ordinarle di scendere sarei la prima a spingerla fuori dalla porta. Attendo solo un comando, un cenno dagli altri passeggeri e tutto questo finirebbe.
Ma la signora caccia una vocetta tutta spaesata. «Perché devo andare a Galatina» dice, e persino Vittore si lascia ammorbidire.
Un momento dopo il treno ricomincia a muoversi. La signora torna al suo posto e tutti noi stringiamo i denti per il tempo della strada.
Non la guardo, cerco anche di non pensarla. Mi schiaccio contro il lato del sedile e cerco di restare perfettamente immobile. Quando riesco a intuire il cartello di Galatina sono quasi euforica. Nel vagone riprende un chiacchiericcio basso, di attesa. Arrivati alla stazione Abdel ha anche la premura di avvertire la signora che è la sua fermata. Lei si alza in fretta tra mille ringraziamenti e dopo qualche secondo la vedo scendere sulla banchina. Si allontana a passo spedito e io smetto di guardare.
È una questione di timidezza, una questione di spaesamento. Siamo rimasti contratti così a lungo da avere difficoltà a lasciarci andare. Nessuno si prende la briga di iniziare. Il treno ricomincia a muoversi e c’è ancora silenzio.
Riattacca piano piano, quando ormai il rumore dei motori è abbastanza forte da confondere le parole. Sono le vecchie ad aprire le danze, come sempre. Sedute a colloquio in gruppetti da quattro occupano un terzo del vagone, la loro litania mi ha accolta fin dal primo giorno. Inizia così: «Mia figlia è in Belgio». E poi il controcanto: «A Roma è mio figlio».
E via via si aggiungono voci: «Mio figlio è in Veneto. In Svizzera è mio figlio. A Milano, il lavoro, a Novara». Dopo qualche secondo non si sa più chi stia parlando e la cantilena va avanti senza fine, ricominciando e sovrapponendosi. Non hanno da sgranare rosari. A volte si sente il rumore di un fazzoletto ripiegato. Si stirano le gonne. Torturano i peletti delle sciarpe e vanno avanti sempre così: «Mia figlia è in Belgio. A Roma è mio figlio. A Milano, il lavoro, a Novara». Il loro canto familiare regolarizza il mio respiro e quello di tutti gli altri.
Mentre stendo i piedi e poggio la schiena contro il vagone, tutto intorno c’è già la solita aria. I telefoni sembrano impazziti, da ogni angolo c’è musica e voci per qualche video che cambia ogni trenta secondi. È così alto e caotico da forare i timpani e insinuarsi nel cervello. Fa risalire la nausea, ma è necessario.
Ad Abdel sono cascate le guance dalla faccia, sembra uno di quei cani tristi. Fa finta di guardare fuori dal finestrino ma il suo occhio sarà rimasto incastrato in qualcos’altro. In una particola di polvere o su un moscerino morto tra le fughe dell’aria condizionata. Ha cacciato dallo zaino una lattina di birra e la sorseggia ripiegando sempre di più le spalle.
Lo sento accadere anche in me, mi preparo. Con la nuca poggiata contro il laminato del treno sento ogni curva e ogni scossone. Arriva quella tristezza lacerante, che dissolve il mio corpo e lo fa galleggiare lungo i binari. Le guance cascanti del mio vicino, la litania delle vecchie, quest’aria satura di corpi e di altre tristezze, tutto concorre al mio disfacimento. Socchiudo gli occhi e finalmente mi percepisco sprofondare, disperdermi. È un vuoto così grande che fa tristezza e fa dolore. Mentre si corre sulle rotaie, non c’è salvezza per nessuno.
La prima notte le guardavo da una prospettiva diversa. I binari erano proprio di fronte a me, immobili. Si srotolavano attraverso le erbacce di una strada di campagna. Conoscevo quel luogo dall’infanzia, la linea dei treni passava proprio dietro il cortile della vecchia casa dei miei nonni. Adesso la casa era in rovina, ma le rotaie c’erano ancora. Le fissavo già da un’ora, o forse anche di più.
Il piano era nato in una notte, ma l’intento covava dentro da tempo, senza prendere forme definitive. Di approssimazioni ce n’erano state tante, alcune arrivate anche a lasciare un segno evidente, altre approdate solo nel cervello e morte l’istante esatto prima di compiersi.
Avevo studiato quel tanto che bastava per conoscere l’orario di passaggio del treno. Sapevo che non c’erano snodi nei dintorni che obbligassero il vagone a rallentare e tanto mi bastava. Chi dice che ci vuole coraggio dovrebbe stringersi la mano da solo, compiacendosi di un pensiero tanto empatico da non riuscire a guardare oltre l’ombra del proprio naso.
Il coraggio non c’entra niente. È una lotta che si consuma per anni, per una vita intera in certi casi. Lunga o breve che sia, dipende solo dalla forza dell’oppositore. Io l’ho combattuto per un tempo interminabile, sentendo che prima o poi il mio corpo mi sarebbe sfuggito di mano.
Questo era lo stato in cui guardavo le rotaie. Niente impulso momentaneo, niente coraggio o frenesia. Mi spaventava non riuscire a fermarmi, ma da fuori sembrava tutto calmo. Guardavo allo srotolarsi dei binari fumando una sigaretta dopo l’altra, perfettamente immobile e in attesa.
Un’attesa infinita. Avevo calcolato di rimanere lì il meno possibile e ho raggiunto la mia postazione quando il treno doveva aver lasciato la stazione cittadina. Su internet si poteva controllare lo spostamento in tempo reale ma la pagina dava sempre errore, con il marchio di Fse e Trenitalia che si ricaricava in continuazione. Ma i buoni vecchi metodi sono sempre infallibili. Sapevo che il treno partiva alle 19.15. Dopo dieci minuti mi avrebbe raggiunto, quanto bastava per acquistare una velocità adeguata. Ma si facevano le otto e poi le otto e mezzo, e dall’orizzonte perfettamente liscio non arrivava proprio nulla.
Attendevo da un’ora di morire e la mia angoscia quasi si tramutava in rabbia, in frustrazione. Facevo su e giù per un pezzetto dei binari. Li sentivo sotto ai piedi, così come adesso li sento vibrare dolcissimi sotto al sedile, e quasi mi veniva da imprecare. Se tutto il mio corpo non fosse stato spento, prosciugato, mi sarei anche messa a gridare.
Ma non sentivo niente, se non quel terrore dell’attesa. Non avevo paura di cambiare idea perché guardavo alla strada del ritorno e il mio corpo si contorceva. Ma più aspettavo più diventava insopportabile. Ancora inevitabile certo, ma sempre più sofferto.
Credo di aver vomitato poco prima di sentire la terra vibrare per il passaggio di una locomotiva. Ho vomitato una seconda volta, questa la ricordo, quando il bagliore dei fari fece capolino all’orizzonte. Mi si appannava la vista e restavo al limitare delle rotaie per aspettare il momento più opportuno.
Il dubbio mi venne subito, stava passando troppo tempo dall’incrocio delle luci al momento dell’arrivo. I fari si facevano via via più grandi e la vibrazione sotto ai piedi aumentava, ma non abbastanza in fretta. Mi sono sporta un poco oltre e piano piano ho visto la carretta di due vagoni farsi strada a sobbalzi per la campagna. Andava quasi a passo d’uomo e oscillava lentamente. Non avevo mai visto un treno così vecchio, conoscevo solo quelli estivi. Modelli nuovi, enormi, da riempire con le mandrie di turisti in corsa verso la nuova meta balneare. Invece, in una sera d’inverno, ecco spuntare la carretta da museo.
Ero così stupita da non riuscire a muovermi. Quando si fece abbastanza vicina da distinguerne i colori, incrociai lo sguardo del conducente. Per un minuto intero ci guardammo e il mio piano sfumò del tutto. Anche l’intento si stava attenuando, la sorpresa mi aveva distratta dal resto. Quando mi passò accanto, non si creò neanche uno spostamento d’aria. Vedevo solo scorrere a un palmo dalla faccia la lamiera decorata di scritte e le luci dei finestrini che si susseguivano a intermittenza.
Passò oltre. La schiena dell’ultimo vagone si allontanava, ma sempre più lentamente. Fino a che le luci rosse dei fanali non si fermarono del tutto. A una ventina di metri da me, il treno restava in attesa.
Mi avvicinai incuriosita e le porte automatiche si aprirono davanti al mio naso. Mi sono dovuta arrampicare sopra per colmare il dislivello dalla strada. Dentro c’era quell’odore che adesso è familiare, il caos e le urla. Quelle facce spente e la litania delle vecchie.
Mi sedetti a un posto vuoto e senza riuscire a trattenermi mi rannicchiai sul sedile, come adesso. Qualcosa in quel treno me lo rendeva accogliente, familiare. Una trazione interna che mi distruggeva e allo stesso tempo rincuorava. Quando arrivammo alla galleria diventò tutto chiaro e fin dal primo giorno sentì la stessa consolazione di adesso.
Lo faccio sempre ormai. Alle cinque, dopo il lavoro, raggiungo il binario più estremo della stazione e attendo. La nube di tristezza mi conquista e mi accompagna per tutta la tratta. Arrivo fino al capolinea e dopo tre ore di viaggio tocco di nuovo terra, ma non lascio mai il perimetro della stazione. Aspetto che il treno vada al deposito e poi ritorni. La gente cambia, alcuni almeno, altri restano con me e poi risalgono sopra. Ogni giorno passo le mie serate a lasciarmi dissolvere dal rotolio del treno, da quella infinita tristezza che si porta dentro, e io sono con i miei simili.
Adesso che la signora è andata via siamo tutti tornati al nostro stadio originale. Chiudo gli occhi e lascio che la nuca sbatta per gli scossoni, non mi importa. Immagino le rotaie scorrere sotto ai piedi e mi lascio trascinare dalla proiezione di una caduta orizzontale. In corsa verso il nulla sento di sparire.
Il fischio prolungato mi rimette in moto quanto basta per seguire il suo comando. Mi alzo e scendo dalla porta. Il buio della stazione non fa paura, la notte e il peso dell’aria non mi colpisce, mi attraversa. Perché io ormai sono inconsistente e con questa patina acquosa sugli occhi attendo che il treno sparisca e poi ritorni. Posso godermi il cielo sterminato senza esserne distrutta, perché so che tra qualche minuto la locomotiva tornerà sobbalzando nella direzione opposta.
Mentre attendo, attorno a me si forma un cerchio di gente. Sono grigi quanto me, guardano dritto ma non guardano niente. È una beata collettività che attende di risalire e poco dopo siamo accontentati. Il mio corpo è pesante e lo lascio cadere sul solito sedile. Chiudo gli occhi e il rotolio ricomincia. I controllori qui in paese non servono e Vittore sta come a noi, nel suo sedile in fondo a lasciarsi cullare dal canto allucinato delle vecchie, dagli scoppi d’ira degli altri passeggeri.
I quattro sedili di fronte adesso sono vuoti. Abdel non risale mai, ma una volta l’ho scoperto a dormire in un angolo della stazione. Meglio così, il fuoco del mio sguardo può disperdersi in quel leggero movimento che si intravede dal finestrino. Fuori sembra tutto disabitato, le stazioni dei paesi sono vuote o quasi. Ogni tanto sale un volto conosciuto, non tanto per la sua conformazione ma per lo sguardo polveroso che si porta dietro.
Le fibre del mio corpo si allontanano man mano che mi sciolgo sul sedile. Mi sembra di essere ferma o forse in movimento, non importa. Più dura il viaggio e meglio è per tutti, qui nessuno ha davvero una meta. Chi ha un posto in cui tornare non prende il treno e rimaniamo noi a riempire il vagone e a sfumare un viaggio dopo l’altro. Chiudo gli occhi e mi disperdo. Non sono in nessun luogo e quindi non esisto.
Il silenzio improvviso mi risveglia dal mio stato catatonico. C’è di nuovo quell’aria tesa e lo spostamento delle teste che seguono il passaggio della signora. Guardo dal finestrino: siamo alla stazione di Galatina. Non avevo considerato questa possibilità.
Il mio corpo ha già raggiunto uno stadio semiliquido. Non vorrei spostarlo, ma l’incantamento – se non è ancora del tutto spezzato – ha perso un po’ della sua presa. Riporto i piedi a terra e quando la signora mi passa accanto cerco di fulminarla con lo sguardo. Non si deve azzardare a mettere piede accanto al mio sedile. La sgozzerei e sento che tutti gli altri lo farebbero con me.
Persino Vittore getta lo sguardo oltre la spalla per seguire la figura. Ha gli occhi pieni d’odio, peggio di quando controlla i biglietti.
La signora è un po’spesata. Prende posto nel sedile che era di Abdel e si guarda intorno. Sono certa che le mettiamo addosso una paura cagna. Abbiamo le orbite incollate al suo copro. Fossi in lei io scenderei, non lascerei la possibilità al treno di ripartire.
Invece il treno riparte. La signora stringe la borsetta sulle ginocchia, prova a guardare in basso. Si spinge verso il bordo del sedile, ma ormai noi non ci lasciamo impietosire. Un conto è interrompere la dissoluzione all’inizio, ancora prima di partire, un’altra cosa è farlo al culmine, nell’ora finale prima di dover ricominciare a vivere.
Dal fondo del vagone qualcuno si alza. Sembrano voler controllare quella presenza estranea, la squadrano e si fanno sempre più vicini. Anche io mi alzo. Manca poco alla prossima fermata, tutti insieme siamo in grado di sollevarla e gettarla giù dal vagone. Si sporgono anche un paio di vecchie. Torturano il fazzoletto di carta che stringono in mano, riducendolo in piccoli brandelli, e hanno gli occhi incollati alla scena.
La presenza della donna ci sta privando di quel momento di annichilimento. Io sono investita da un peso insopportabile, sono dovuta tornare nella barriera del mio corpo, mi sta stretto, mi appesantisce e toglie l’aria. Avevo ancora un’ora prima di sentirmi così, ma la sua presenza mi ha ricordato che il mondo esiste, che qualcuno vive ancora e prende il treno per raggiungere una meta. Quella donna ha una consistenza, un occhio lucido affollato di pensieri concreti: cosa cucinare a cena, come vestirsi domani. Non è sostenibile. Trattenuti nella nostra bolla, tutti un poco opachi e trasparenti, ci diamo la possibilità di dimenticare il fuori e dissolverci lungo le rotaie. Con lei non è possibile. Una rabbia sovrumana mi attorciglia la gola. La signora alza gli occhi. È spaventata, e ha ragione. Gli altri fantasmi del vagone la squadrano con odio, alcuni sono in piedi come me. Ci avviciniamo.
Senza un avvertimento la luce cambia. C’è un suono di risucchio e mi si tappano le orecchie. Gli occhi vanno subito al finestrino. Appena riconosco l’alternarsi veloce delle luci della galleria mi immobilizzo. Gli altri lo fanno con me. Nessuno se lo aspettava, erano mesi che la galleria non appariva. Il frastuono ovattato dello scorrere del treno contro i muri ci ha paralizzati.
La signora caccia un grido strozzato, sembra una gallina a cui hanno torto il collo e l’ultimo fiato resta intrappolato nel nodo contorto della gola. Le luci della galleria accecano il vagone a intermittenza, guardo gli altri e sta accadendo di nuovo. L’omaccione nero che si era alzato per primo, ha un moncherino sanguinolento al posto della spalla. Tranciato da un attrezzo agricolo suppongo. Resta l’osso a spuntare, circondato da una brodaglia di muscoli, come il dentro dei pomodori che raccoglie.
La luce cambia per un istante nell’intervallo tra i neon, poco dopo torniamo a essere accecati e adesso l’omaccione ha il volto ricoperto di bolle. Sulla superficie calva del cranio la pelle si è rialzata e squama: è stato fritto dal sole. Negli occhi i capillari sono esplosi, ma la pupilla è ancora fissa verso la parte bassa del mio corpo. Seguo la sua traiettoria, mi guardo i piedi. Tra le scarpe si allarga una pozza densa di sangue, mi ha inzuppato i calzini e riesco a sentire l’appiccicume ristagnare tra le dita dei piedi.
Il sangue mi sgorga dalle braccia. Sono attraversate da due tagli così profondi da aver tranciato i tendini, non posso muovere le dita. Torna buio e poi di nuovo luce, e le mie braccia sono integre. La superficie bianchissima della pelle si è richiusa, ma adesso pendo tutta verso destra perché una gamba è piegata all’indietro. Il ginocchio è esploso, il bianco della tibia spunta fuori dal polpaccio. La pozza di sangue ha una forma diversa.
Probabilmente un trauma da caduta, abbastanza forte da ammazzarmi sul colpo. Questa è nuova.
La terza invece la conosco già. Quando le luci riaccecano i finestrini, ho l’intestino che mi spunta un poco fuori. Tranciato dal passaggio delle ruote sul binario.
Premo le mani contro il ventre e mi risiedo. Vedo l’uomo fare lo stesso. Da seduta ricomincia la trilogia della mia morte. A intermittenza con le luci mi si aprono i polsi, mi si spappola il ginocchio e le viscere escono fuori.
Non ho più bisogno di guardare, la galleria a breve finirà. Voglio avere il tempo di studiare la signora. È proprio di fronte a me, muta. Il grido è rimasto intrappolato e la bocca resta un poco spalancata. Mi fissa sconvolta. Le sorrido, gentilmente.
Non deve più avere paura, perché a intermittenza sulle sue guance esplodono dei fiori neri, appena sottopelle. Una malattia del sangue probabilmente, un tumore. Al passaggio dopo si intuisce l’ombra un respiratore, qualche secondo e poi scompare.
Tengo alto il sorriso nonostante la cavità marcia della sua bocca e i ciuffi di capelli che le scendono dalla nuca, sfibrati dalla chemio.
Lascio ad altri il compito di rassicurarla. Sono più bravi di me, hanno più esperienza. Dai sedili dietro si alza una vecchia, la faccia gli resta appesa allo scheletro per un miracolo, e trema tutta. Così forte che per arrivare dalla signora fa la strada a scatti, cercando di appendersi ai sedili. Non è la stessa che è venuta da me. La mia sembrava essere morta nel sonno, da sola, con il corpo già mezzo putrefatto.
Il tempo che la vecchia arrivi all’altezza della signora e le orecchie mi si tappano di nuovo, deglutisco per riequilibrare la pressione e la galleria è finita. Fuori dai finestrini ritorna la campagna e il mio corpo smette di mutare.
Mi riaggiusto sul sedile, poggio la schiena alla lamiera e distendo le gambe. Tutto intorno tornano i rumori, un po’ più bassi perché siamo curiosi di conoscere la storia. Anche la litania riprende, un po’ spezzata perché una delle vecchie è assente. Si è seduta accanto alla signora. Le poggia una mano sulla spalla. La povera donna ha una maschera di terrore addosso, e gli occhi ancora incastrati su di me. Non so se mi stia guardando davvero, ma provo a farle un altro sorriso. Alzo le maniche della felpa e le mostro la superficie intatta dei miei polsi.
La maschera di terrore non sparisce, ma lentamente gira il collo per guardare chi le sta accanto. Si capisce che vorrebbe fare una domanda ma i muscoli della faccia, di nuovo tonici e rosati, non riescono a muoversi.
La vecchia le accarezza la spalla.
«Signora,» dice con dolcezza, «va tutto bene».
Ci mette un po’ a rincuorarla. Piano piano il volto si rilassa e le lacrime che aveva trattenuto iniziano a sgorgare senza tregua. Io sento il treno ricominciare a trascinarmi lontano, a dissolvermi nella proiezione del nulla. Ma voglio sentire e mi tengo concentrata.
«Signora,» dice ancora la vecchietta, «come mai stava andando a Galatina?»
La povera donna prova a balbettare qualcosa, si capisce poco. Qualcuno tenta di zittire il frastuono per riuscire a sentire. Distinguo un paio di parole: “ospedale”, “attesa”. Mi basta questo per sapere che fa parte di noi. All’ospedale di Galatina ci sono tre anni da aspettare anche solo per una tac, la signora è già morta. Il suo persistere nel mondo è solo un lieve contrattempo, la condanna ce l’ha scritta in volto. Come tutti noi qui dentro.
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