TreMitalia #4 – Dio dei treni

di Nicola De Zorzi
treno che sarebbe anche il caso di cambiarli a questo punto di Julio Armenante


Dio dei treni, fa’ che riesca a sedermi.

Arrivo al binario con un breve anticipo che spero mi varrà un bel posto a sedere nel treno che so già si stiperà. Ma c’è un problema: il treno è ancora chiuso. Così, sul binario dapprima semideserto, mi trovo presto circondato da altri futuri passeggeri, molti dei quali più agguerriti di me: studenti con zaini come arieti, vecchiette dotate di bastoni da passeggio acuminati, operai grandi e stanchi.

Dio dei treni, dammi la forza di farmi strada.

Il treno ha due vagoni. La tratta è di quelle dimenticate-da-Dio, dalla provincia alla sub-provincia. Poche fermate, stazioni minuscole. In questo spazio così piccolo, noi diventiamo così tanti… e così cattivi, a fine giornata. Ci guardiamo tutti in cagnesco, pronti a sbranarci l’un l’altro in questa corsa all’oro. Ed ecco che una sagoma attraversa il treno dall’interno, iniziando i preparativi all’apertura. Zaini e borse frusciano, i piedi cercano stabilità e scatto. La sagoma che attraversa i vagoni fa traballare lo sgangherato carrozzone che mi porterà a casa.

Uno scatto vaporoso annuncia che la porta è sbloccata. Per un istante brevissimo rimaniamo tutti fermi. Poi una mano coraggiosa va alla maniglia della porta non-automatica. È il segnale.

Mi riprometto di essere deciso e spietato, ma il mio primo assalto è fin troppo timido e lascia il vantaggio ad alcuni studenti coi loro zaini, che loro scuotono come mazze e che paiono pieni di sassi; a un tizio dalla pelle scura che mi fa pensar male; e a un trio di vecchiette dai cappotti color epoca-passata.

 Alla fine, quando riesco a entrare, scopro che la mia  preghiera sul trovar posto, difficilmente sarà esaudita.

Lo scatolone è già stipato, molti occupano il corridoio guardandosi attorno. Ma ecco! Lo vedo per primo, un posto libero in mezzo alle tre vecchiette. E vicino al finestrino poi! Penso che è strano, finché mi rendo conto, sedendomi, che le mie scarpe cincischiano una pozza umida per terra, e poi sento fin dentro le mutande che pure la fintapelle del sedile è bagnata. Mentre le vecchiette guardano altrove, io posso solo sperare che ciò che si introduce fra il mio culo e il sedile sia solo acqua.

E non ho certo modo di scegliermi un posto migliore: gli ultimi arrivati sono già costretti a stare in piedi, sperando nell’eventuale svuotamento alla fermata intermedia.

Intanto, con un colpo di tosse, il treno parte.

Dio dei treni, fa’ che non vada peggio di così.

Inizia a fare caldo, i finestrini si appannano. Il ronzio dell’aria condizionata arriva dapprima gradito, sennonché il gentile abbassamento termico diventa drastica escursione, che pure le vecchiette si stringono nei cappotti che prima credevo esagerati e che ora invidio.

Il malumore generale è già tangibile, ma può andare peggio. Dio dei treni, fa’ che non accada. Ed ecco che parte la musica. Perché c’è sempre qualcuno che fa partire la musica.

Non vedo chi sia il DJ della locomotiva, ma ho idea che sia il tipo di colore che mi ha sorpassato prima. Lo cerco fra le teste dondolanti della gente in piedi, teste stanche che cercano la distrazione nei telefoni. Ma c’è una tensione elettrica tutta diretta verso un punto, il punto in cui il DJ invisibile manda avanti la sua scaletta di canzoni orribili. Perché nessuno dice niente? Comprati-un-paio-di-cuffie! Vivi-e-lascia-vivere, istinto di conservazione. Una parola sbagliata potrebbe innescare una bomba alimentata a scomodità, stanchezza e malcontento. Nell’aria condizionata fuori controllo, il fiato esala come fumo di miccia.

Cerco il mio telefono e della musica che mi protegga. Il mio telefono è morto. La mia musica è nel telefono. Il mio biglietto virtuale è nel telefono.

Ecco, c’è un solo lato positivo, in tutta questa situazione: il controllore se ne starà bello al sicuro nel suo cantuccio, col conducente. Non c’è neanche lo spazio per attraversare il vagone, figurati se oserà mai fare il proprio lavoro in queste condizioni.

Giusto?

Dio dei treni, se posso azzardare un’altra preghiera… fa’ che il controllore se ne stia bello al sicuro nel suo cantuccio.

«Buonasera. Biglietto prego».

Me lo sto immaginando.

«Buonasera. Biglietto prego».

No.

Dio dei treni, sei un p

«Buonasera biglietto pre»

E adesso cosa faccio? C’è una sola scappatoia per uno come me, un onesto cittadino, pagatore di mille biglietti, che si trova ora proprio malgrado a rivestire il ruolo del clandestino: il cesso del treno.

Cerco di alzarmi, ma il mio piede sdrucciola sulla pozza di forse-acqua, ripiombo all’indietro, mi faccio pure male sul sedile dall’imbottitura stitica, le vecchiette mi biasimano coi loro occhi di carta vetrata.

«naserabigliettopre»

Mi rialzo, piede e culo che si staccano dalle rispettive pozze, e scappo. Non mi guardo indietro, sia mai che il controllore lo trovi sospetto, ché uno sguardo ne attira un altro. Mi addentro nella foresta di corpi dritti per mancanza d’aria e malumore, compio il miracolo della creazione di spazio dove non ce n’è, passo oltre il DJ che è esattamente chi credevo fosse, esco dal muro di suono e dal muro di corpi, dal vapore dei fiati. La cabina del cesso è davanti a me, una porta a spinta che sembra dire non-spingermi, ma io devo farlo, è il mio solo possibile rifugio, pregando che non ci sia nessuno oltre, Dio dei Treni almeno questa concedimela questa me la devi. La porta si apre, libera. E me la chiudo alle spalle entrando nello spazio buio. Nero, dall’odore direi pulito l’ultima volta chissà quando, ma vuoto e sicuro. Tutto mio.

La luce non funziona. Rimpiango il mio telefono morto. Ma no, va bene così: in fondo, non mi perdo niente a non vedere lo stato del mio rifugio, stato che del resto posso intuire dall’odore. Mi bastano gli sporadici lampioni, luci di scarto di un paese lontano, di una strada, di una stazione di servizio, che si concedono alla finestrella del bagno e stagliano forme e ombre fluttuanti nella mia clandestina, precaria solitudine.

«Buonasera».

Non sono solo.

Non sono venuto qui per usare il bagno, ma adesso me ne sale il bisogno. Qualcosa mi si ferma in cuore e scende lungo l’intestino, fermandosi appena in tempo.

Cerco di controllare cuore, voce e intestino.

«Mi scusi» balbetto appena ci riesco. «Non credevo fosse occupato».

«Ma non c’è problema» dice la voce, placida e posata. Una voce calda, in qualche modo umida, come se in gola avesse dell’acqua in eccesso. C’è come un gorgoglio in lei.

Ora c’è un silenzio che vivo con grande imbarazzo. Uno sputo di luce entra dalla finestrella. Troppo rapida e avara, non illumina nessuno nello stanzino.

Cincischio ancora qualche istante, rimando il mio destino.

«Beh, allora io, mi sa che devo andare, eh» dico infine. Cos’è peggio, stare qui dentro in due, o uscire incontro al mio destino?

«Ma no, ma no» mi ferma la voce. «Non mi dà mica fastidio. E poi, il Controllore adesso starà ancora facendo la sua ronda, no?»

Un clandestino come me! Mi nasce dentro un sentimento fraterno, mi sento meno solo, meno in pericolo.

«La luce non funziona, eh?» cerco di fare conversazione. Sussurrando, sperando che la mia voce raggiunga sopra il rombo del treno il mio compagno che non vedo.

«Tipico di questi scatoloni lanciati in terre dimenticate da Dio».

Sorrido nel buio. «È così che la chiamo anch’io, questa tratta» dico. «Dimenticata da Dio».

«È un pensiero comune. Ma ci sono anche Dei che non dimenticano niente e nessuno, non si preoccupi».

«Ah sì, eh?» faccio, divertito. Mi appoggio alla porta del cesso. Gli scossoni del treno mi suonano la spina dorsale come uno xilofono. Lontana e forse solo immaginata, la litania buonaserabigliettoprego è come la pioggia che non può penetrare un tetto solido e asciutto.

«Prenda il nostro Controllore». Sento chiaramente la C maiuscola. «Lui agisce in queste terre che Dei più grandi, più importanti… come potremmo dire… snobbano. Ha mai associato la parola Snob alla parola Dio, lei?»

«Non posso dire che mi sia mai venuto in mente, no».

«Eppure è così!» la voce insiste, con foga. «Ci sono Dei e Dei. Dei nobili, Dei borghesi… Dei proletari, che fanno i lavori sporchi».

«Dei proletari? Non credevo ne esistessero».

«Un Dio che si accolla lavori come questo, come lo chiamerebbe?»

«Già, già. Poveraccio».

«Poveraccio davvero. E mai qualcuno che dica grazie. Cos’è un Dio, senza un po’ di riconoscimento?»

Io, che il mio Dio dei treni lo prego tanto ma che non lo ringrazio mai – per quanto non ci sia da dire che faccia un gran lavoro – non posso fare a meno di sentirmi in colpa.

«Dev’esser proprio dura».

«E lo sa, lei… ma possiamo darci del tu? Mi pare normale, quando si condivide una certa intimità, ma non vorrei mai… lo sai, cosa ne è di un Dio che si prodiga per gli altri e non riceve nulla in cambio?»

Ci penso un po’.

«Diventa cattivo» dice la voce prima che io possa rispondere. 

Faccio caso ora all’odore. Odore di cesso, niente di strano, ma pare farsi più forte quando il mio compagno di viaggio parla. Mi porto una mano al viso, sperando non se ne accorga.

«Cattivo come un controllore?» rido nel mio palmo.

La voce però non ride. Stiamo arrivando alla stazione mediana nella tratta. Il treno rallenta, una luce appena più forte bussa alla finestrella. Se scendo qui, potrò aspettare il treno successivo, l’ultimissimo. Arriverò a casa tardi, svegliarmi domani sarà un inferno, ma mi toglierò il pensiero di viaggiare da clandestino. Dovrei approfittarne. La luce si fa più forte. C’è sempre un angolino, nel cubicolo, che la finestrella sempre più chiara non riesce a graziare. Il mio interlocutore deve trovarsi lì, per forza. Eppure la voce non sembra proprio venire da lì. Dal water? Ma sul water non c’è nessuno.

«Cattivo come un Controllore» dice, dopo una pausa, la voce che non si sa da dove venga.

«Credo di dover andare» dico.

«Davvero? Mi sa che non è il momento migliore».

«E perché mai?»

«Prova a dare un’occhiata fuori».

«Ma»

«Fidati. Adesso Lui non ti vede. È impegnato con gli altri».

Riluttante, mi giro verso la porta. Apro uno spiraglio con più paura che se ci fosse un incendio lì fuori, e sporgo la testa.

Degli operai stanno cercando di uscire, ma il controllore li tiene fermi.

«Nessuno esce senza mostrarmi i biglietti, signori. Non facciamo i furbi».

Vedo la schiena blu, il berretto che copre la nuca, la piccola tracolla di pelle. Vedo il ringhio degli operai che tirano fuori telefoni e si guardano continuamente alle spalle, verso l’uscita più vicina, terrorizzati che il tempo sia troppo poco. La selva umana di poco fa si è un po’ sfoltita, il corridoio è quasi agibile. Le persone i cui volti riesco a scorgere lanciano occhiate torve al controllore. Riesco a sentire, sopra le bestemmie degli operai (e «Attenti al linguaggio, che questo è oltraggio a pubblico ufficiale» fa il controllore blu) mormorii cupi: roba da matti, si viaggia in queste condizioni e questo rompe pure i coglioni con i biglietti, dovrebbero pagarci loro per viaggiare così.

Quel che mi importa più di tutto, comunque, è che non posso più uscire, non c’è modo di non attirare l’attenzione. Richiudo la porta con cautela di vetro.

«Che ti dicevo?» fa la voce.

Sospiro mentre le luci della stazione si fanno più vicine, scorrendo rettangolari sulla porta di fronte a me come diapositive vuote. Prima che la finestrella si infili nello spazio nero fra le ultime due luci, rigettandomi nel buio, mi giro per condividere il mio sconforto. La luce scorre sul piccolo specchio ovoidale, sulla bandiera lacera dell’ultimo velo di carta igienica, sul water, sull’angolo di cubicolo opposto al mio, l’angolo sempre buio. Per un attimo, un attimo solo che mi basta per vedere che l’angolo è vuoto.

Il treno riparte e io decido di uscire.

Sono stanco, nervoso, suggestionabile. Non so se mi preoccupa di più il fatto che io possa immaginarmi conversazioni nella mia testa, o la mia paura che il cesso del trabiccolo su cui viaggio possa essere infestato.

«Dove vai?» chiede la voce. «Il Controllore sta venendo da questa parte. Se esci ora, vi scontrate».

Non so che dire. Potrei inventarmi qualche scusa, che farmi il viaggio in piedi in un cesso mi ha stancato, che

«Siediti sul water. Non è così male» mi legge dentro la voce.

Non vorrei tanto.

«È meno sporco di quanto sembri».

Non so perché ubbidisco. Forse l’idea del controllore lì fuori mi spaventa ancor più dell’idea della mia follia o di un qualche fenomeno paranormale cessico in questa cabina. O magari c’è qualcos’altro lì fuori, che mi spaventa. I mormorii della gente inviperita, lì fuori… io ne ho visti tanti di malumori in treno, ma stavolta c’è fumo d’incendio nei loro sguardi, rombo di tempesta nelle loro gole. Chissà che non scoppi una rissa. Meglio restarne fuori.

Mi siedo, e devo dire che non è così male, il ferro di cavallo plastico su cui poggio, certo è più asciutto del mio sedile di poco fa.

«Comodo?»

Caccio uno strillo e mi alzo. È facile sbagliarsi con il treno che è tutto tremito e vibrazione, ma sono piuttosto sicuro che la voce con cui ho parlato finora, in questo momento mi abbia parlato vibrando attraverso il cesso, su per il culo.

«Non volevo spaventarti» si scusa la voce.

Io non dico niente e cerco di nuovo la serratura. Il treno sta incespicando fra colline senza luce, la mia mano striscia sulla porta alla ricerca della virgola fredda che mi farà uscire di qui.

«Aspetta, su. Lì fuori non c’è nulla di buono».

La porta è una lastra immensa, nel buio, la mia mano la spennella per chilometri senza trovare nulla.

«Tra poco inizierà il sacrificio. Non ti consiglio di pendervi parte. Qui si sta meglio, fidati».

Non capisco a che si riferisca, ma non mi importa troppo, le sue parole non sono più assurde di tutta questa situazione. Sacrificio, ha detto? Ma che mi frega, fammi uscire, Dio dei treni fammi trovare la maniglia…

«Beh, se sei proprio sicuro, fai come vuoi. Ci vediamo dopo».

Appena dice queste parole, la mia mano trova la maniglia. Abbasso, spingo, esco, è luce, luce e aria – non mi ero reso conto di quanto fosse soffocante lì dentro, perfino l’odore di moltitudine ammassata fra i vagoni è più fresco – e non vedo l’ora di immergermi nella calca, ritrovare il mio posto, sapere che la voce-del-cesso dovrà passare sopra a tutti loro, prima di raggiungermi. Sopra loro e magari pure sopra il controllore, penso con un mezzo sorriso, uno così cattivo, questo Dio del controllo, che non ci penserebbe due volte a fare la multa perfino a una voce che parla dal buco di un cesso chimico.

«Buonasera. Il biglietto, prego».

È la prima faccia che vedo quando esco dal bagno. Quasi che mi stesse aspettando. Anche se copre tutto e tutti con la sua visiera, con l’ombra che la visiera gli getta sugli occhi, tagliando con una linea scura tutto il viso dal naso in su; anche se la sua mascella – scolpita da un ritornello ripetuto all’infinito per giorni e giorni di lavoro sempre uguale – è per me grande come il mondo, percepisco gli sguardi degli altri passeggeri puntati su di me. Gli sguardi di chi è già stato sua vittima e aspetta, spera, che io non ce l’abbia il biglietto, ché tutta quest’acrimonia vuole sfogarsi su una vittima, il capro espiatorio del malanimo comune.

Non aveva parlato di un sacrificio, la voce del cesso?

«Ho il telefono scarico» dico.

«Ah!»

«Se mi dà un attimo… il mio posto è lì… cerco il caricabatterie…»

«Ma certo, andiamo» sorride a metà la bocca sotto il berretto, scortandomi verso il mio zaino che non ha un caricabatterie, su un treno che non ha prese elettriche.  Dio dei treni, fa’ che… non lo so, fa’ qualcosa!

Le mie vecchiette coi cappotti di lana color ‘900 mi guardano con malcelata compassione.

«Forza, che non abbiamo tutta la notte» dice il Controllore.

Silenzio. Il piccolo DJ del vagone ha spento la musica. Ha spento la colonna sonora per dare più peso al mio dramma? Il momento in cui devo dire qualcosa è inevitabile.

«Non ho il caricabatterie».

Il Controllore inarca un sopracciglio che non vedo, piega un angolo delle labbra che vedo fin troppo bene.

«E se ne ricorda adesso?»

«Senta» cerco di portarlo dalla mia. «È stata una giornata nella lunga, non ragiono più tanto, se mi capisce».

«Ah, la capisco bene. Se vogliamo fare a gara di giornate lunghe, si fidi, che vinco io».

«Senta, non voglio fare nessuna gara».

«No, lei vuole solo farmi fesso».

«Ma che fesso! Mi si è scaricato il telefono!»

Gli porgo lo schermo nero, senza vita. Lui me lo strappa di mano e se lo avvicina alla visiera, come se quella fascia scura che ha tra berretto e naso fosse uno scanner che analizza apparecchi scarichi e bugie.

Dopo qualche secondo, mi restituisce l’apparecchio con una serenità che mi preoccupa.

«Per me, questo vale come biglietto non pervenuto».

«Come?»

«Come la paga la multa? Contanti o carta di credito?»

«Ma».

«Ma cosa, ma! Ma pensa di prendermi per il culo, lei? La paga la multa o no?»

«Ma non è giusto!»

«Sì rifiuta? Devo chiamare le forze dell’ordine?»

«Ma ordine cosa, ordine!»

A parlare è il piccolo DJ. Spunta da dove non potevo vederlo, si alza come un arringatore.

«Ma lei che cosa vuole?» si gira il controllore. Sulla nuca, dove il neretto blu lascia spazio alla peluria della nuca, castana e un po’ grigia, cola una goccia di sudore che va a infilarsi nel colletto bianco.

«Voglio che guarda te come stiamo messi» dice il DJ «buttati come animali su due vagoni in un treno di merda, e ci avete pure la faccia di chiederci i biglietti».

La folla mormora. Io chiedo mentalmente perdono al DJ per le cose cattive che ho pensato su di lui.

«Ma che c’entra? I biglietti si pagano a prescindere».

«Eh no». Qui interviene la vecchietta accanto a me. «Un biglietto si paga per un servizio. E io questo non lo chiamo mica un servizio, giovanotto».

Ora la folla ringhia e si scuote, il treno tuona.

«Ma che discorsi sono, questi? La legge è legge, e»

«Ma che legge è? Se quel poveraccio ha il telefono scarico e lei non gli può vedere il biglietto» urla qualcun altro, da un altro dove «su che base applica la legge? Questo si chiama: colpevole fino a prova contraria! Altro che legge!»

Sarei commosso se non avessi paura per qualcosa che sento essere sul punto di accadere, la cui portata non riesco a spiegarmi.

«Fargli la multa perché ha il telefono scarico» si lamenta un’altra voce, fra le tante che ondeggiano nell’imminente tempesta. «Che poi su ‘sta carretta non ci sono neanche gli spinotti per ricaricarlo, un telefono».

«Basta» sbotta il controllore. Si gira a destra e a manca, e per un istante guarda me, e io guardo sotto la visiera, nella fascia scura sopra il naso, dove un paio d’occhi brilla, brevemente, disperato, o forse stanco. O forse, per una qualche ragione, rassegnato. «Io chiamo le forze dell»

Inizia dalla vecchietta che siede davanti a me. Questo cliché di vecchia, nel suo corpo piccolo, nel suo capotto d’altri tempi, nelle sue rughe che sono le rughe di tutti i vecchi del mondo, tira fuori il suo bastone da passeggio che è tutti i bastoni da passeggio del mondo, allunga il braccio e raggiunge la fronte del Controllore. Si sente un Toc che zittisce il ruggito generale. Il berretto cade come una foglia, atterrandomi morbido fra i piedi, con un suono bagnato che mi ricorda che la pozza è ancora lì.

Il Controllore non dice niente. Scoperchiata, la sua fronte è liscia, i capelli sono compressi a casco, gli occhi spalancati.

«Ordine» dice.

E ogni speranza di ordine brucia.

Il ruggito trattenuto del vagone diventa un urlo, un’esplosione. Mi comprimo nel mio sedile mentre le altre due vecchiette tirano fuori bastoni identici a quello della loro compagna, e mulinano e infilzano, ginocchia-spalle-costole, mentre il Controllore cerca di arretrare. Ma dietro di lui non c’è salvezza. La carrozza è ammassata, non c’è via di fuga facile nella selva di mani e teste tutte tese verso di lui. In breve è immobilizzato, imbrigliato fra dita che arpionano la divisa. Il Controllore si dibatte per un attimo, poi smette. Si guarda intorno, il suo sguardo trova me, forse apposta, forse accusandomi, forse sono io che mi accuso di aver causato tutto questo.

In un attimo le mani si moltiplicano e stringono, il Controllore è sollevato, sbatte la testa sul portabagagli. Rimane un attimo così, quasi cullato. Poi le mani mollano la presa, uno spazio fra i corpi si apre e lui piomba sul pavimento. Il tonfo sovrasta il tumulto, l’urto arriva a scuotere il pavimento fino ai miei piedi. Poi i piedi degli altri, decine, a turno, si sollevano e si riabbassano. Questo suono lo odo chiaramente invece: prima una grandine di tacchi contro ossa e carne dure, poi uno scalpiccio contro qualcosa che si va ammorbidendo sempre più man mano che si rompe e frolla.

A un certo punto, il telefono del DJ riprende a suonare.

Mi guardo intorno, brevemente. Le vecchiette che torreggiano su di me mulinano i bastoni, costringendomi a rannicchiarmi nel mio posto sgualcito e umido. I loro occhi strabuzzano, le bocche si torcono e spillano saliva fra un urlo e una risata. Nessuna bocca esala più vapore. Adesso qui dentro fa un caldo d’inferno.  Quando la vecchietta che per prima ha preso le mie difese perde la dentiera e continua a ridere con le gengive sbiadite all’aria, scappo.

Nessuno mi fa caso mentre mi trascino rasente al finestrino appannato, con l’aria condizionata che mi fischia ormai debole nella collottola, scavalco il sedile e cado sui posti opposti, ora vuoti perché tutti premono al centro, cercando di avere la loro parte nel linciaggio. Devo raggiungere il conducente e avvisarlo, e

Il conducente mi sfreccia accanto, diretto al mulinello di carne e botte. Lo guardo spaesato, un po’ contento di sapere che sta intervenendo un po’ atterrito perché adesso chi lo guida il treno?

«Aspetti» faccio, ma uno scossone mi ingroppa le parole in bocca e mi sbalza indietro. Mi trovo in un angolo buio, con una porta davanti che si chiude e mi lascia in uno spazio nero che sa di chiuso, stantio, pulito l’ultima volta chissà quando.

«Ben tornato» mi accoglie la voce.

«È un sogno, vero?»

«Frase priva di originalità, ma posso capirti. Non dev’essere facile per te, vivere un evento simile».

«Cosa sta succedendo?»

«Il sacrificio è iniziato».

«Pensavo di»

«Essere tu, il sacrificato? Forse le mie parole di poco fa erano equivocabili. Ti chiedo scusa».

«Cosa significa, sacrificio?»

«Vedi, derivando dal  latino sacrum»

«Non è quello che ho chiesto!»

«Sacrificio vuol dire che il Controllore non va più bene e va immolato, di modo che il nuovo possa rinascere».

«Il controllore?»

«È solo un guscio vuoto, ormai. E rotto, pure, a giudicare da quel che sento».

Sopra i sobbalzi del treno scassato e il ruggito dei passeggeri, continuo a sentire il linciaggio. Suono di bimbi che saltano in una pozza di fango. Prego che la voce riprenda a parlare, che copra il rumore.

«Quindi va sostituito».

«Da chi?»

«Da me».

«Da te? Ma sei un cesso chimico, te!»

«Non si giudica dalle apparenze».

«E poi» mi torna in mente «diosanto, il conducente! Il treno è alla deriva, non»

«Ah, si è unito pure il conducente? Bene, è un buon augurio, quando il conducente partecipa alla cerimonia. Non lo fa mica sempre».

Mi pare che oltre la porta il pestare umido sia cessato. Aspetto un attimo. Ancora un colpo, due. Qualcuno mormora incerto. Un altro colpo. Il mormorio ora pare soddisfatto. Chiudo la serratura.

«Non capisco» dico.

«È antica credenza che se il conducente, entità distante e concentrata sul suo compito, partecipa al sacrificio, ciò sia un presagio favorevole. Il nuovo Conducente sarà benedetto. Potente e magnanimo, giusto. Governerà secondo saggezza e giustizia queste tratte dimenticate da Dio, come le chiamavamo prima. Anche se, come ti ho già anticipato, un Dio qui c’è, e non dimentica».

«Non capisco» ripeto. Non sono nemmeno sicuro di volerci provare, onestamente.

Il cesso fischietta.

«Non ti preoccupare. Tra poco vedrai e capirai meglio».

Cos’è che devo vedere?

Un tonfo alla porta abbatte ogni mia futura domanda.

«Mi faresti la cortesia di aprire?»

«Cosa»

«Apri. Sblocca quella serratura. Non servirà a nulla comunque, tenerla chiusa. Ma almeno risparmierai un po’ di pena al poveraccio che deve entrare».

Un altro colpo. Mi stacco dalla porta, tocco con il polpaccio il cesso, trasalgo, calpesto, vicino alla porta, qualcosa di liquido e vischioso, più denso della pozzanghera che avevo sotto al sedile. Filtra dalla porta chiusa. Il treno sballa e dal finestrino del cubicolo le luci entrano ed escono epilettiche, e un guizzo mi illumina il piede, e ciò che il piede calpesta è scuro e lucido.

«No. Non apro a questa roba qui. A quelli lì fuori… mi ammazzano».

«Non c’è nessuno lì fuori che ti voglia ammazzare. E perché dovrebbero? Ma chi sei mai, tu? E poi ascolta: tutto si è calmato».

Ha ragione. Bussano sì, ma nessuno ruggisce o picchia più. C’è il silenzio di una grande attesa.

«Cosa succede, quando apro?»

«Lui entrerà e sarà consumato qui dentro. Sarà tutt’uno con la sua dimora terrena, con me che sono la nuova essenza acerba, qui custodita, del Suo essere. E poi rinascerà».

«Rinascerà… da un cesso pubblico?»

«Non essere così sorpreso. L’opinione che avete tutti dei Controllori, lì fuori, dovrebbe renderti consono un grembo del genere. Ci meritiamo di meglio, sai? Ma al giorno d’oggi pochi Dei ricevono la riconoscenza che meritano».

La mia mano va alla serratura. Perché? Ma chi lo sa. Forse il cesso mi ha convinto, forse mi ha ipnotizzato e non ragiono più. Forse sono stanco, e voglio decidere io di far entrare ciò che potrebbe distruggermi, anziché aspettare come un condannato. O forse sono curioso.

«Non avete una grande opinione di noi, eh? Cattivi, meschini, severi in modo iniquo. E sì che se ci incattiviamo è per servirvi. Se tiranneggiamo è perché siete indisciplinati e scorretti. Ma tutta questa cattiveria che ci nasce dentro a causa vostra ci consuma. E una volta che siamo ridotti a guscio vuoto, dobbiamo rinnovarci».

Il Controllore striscia ai miei piedi. Occupa poco spazio, frollato com’è. Nello stretto corridoio fuori dal bagno, i carnefici, gli officianti, lo guardano. A me non fa caso nessuno. Faccio spazio. Devo solo scostarmi un po’.

«Guarda che bel lavoro che hanno fatto. Entrerà per bene» commenta la voce, mentre l’omuncolo tenero, nella sua divisa una volta blu e ora color uva pesta, striscia con suono di lumaca.

«Ecco, quando raggiungiamo il limite, vi portiamo al limite. Cerchiamo situazioni estreme – treni sovraffollati, aria condizionata assente o troppo forte, cose così. E chiediamo un tributo che non è giusto – a vostro dire – farvi pagare».

La larva che una volta era il Controllore si arrampica sul water. Spinge dentro la testa. Entra col busto. Qualcosa mi dice che non devo guardare ciò che sarà ora. Mi giro e chiudo gli occhi. Ma non mi tappo le orecchie. Forse dovrei. Quel che odo mi fa urlare.

Poi c’è silenzio.

Mi sforzo di non guardare mentre qualcosa prende forma dal silenzio, dalla poltiglia che è entrata nel cesso.

«A quel punto il sacrificio lo mettete in atto voi. E di solito vi piace. Tu non vi hai preso parte perché sei un gran vigliacco, ma non è un problema. Tutto è compiuto. Terminato il sacrificio, è rinascita».

Non mi trattengo più. Devo vedere.

Sta uscendo dal cesso come da una botola. La luce esterna illumina in una vaga penombra la sagoma umana, umida e scura come appena nata dal suo lurido grembo. Crocchia mentre le ossa e i muscoli si assestano in una forma più grande. Non ne sono sicuro, ma il nuovo Controllare pare nascere nudo, e pare sia dalla poltiglia che lo ricopre, che la divisa si solidifichi e prenda forma.

«E la rinascita» parla, finalmente dotata di bocca, la voce che ho udito finora «porta un nuovo equilibrio. Io sarò migliore del mio predecessore, di ciò che sono stato. Giusto e saggio, equo e generoso. Sono appena nato, in fondo. Sono innocente».

Lo guardo mentre mi sorride, mentre nasconde gli occhi freschi e luminosi, da bambino, sotto la visiera di un berretto spuntato chissà dove.

E ore sorridendo, mi rivolge due ultime parole:

«Biglietto, prego».


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