di Caterina Signorini
treno coperto di sangue e merda ma è sempre così signora, davvero di Vargas
Lina Sinigori era fottutamente in ritardo. Strisciava tra gli intricati corridoi di Bologna Centrale come un serpente perfettamente a suo agio, anche se perfettamente a suo agio non lo era, dato che i bolognesi non sanno camminare e lei stava per perdere il treno. Ma quei trenta minuti di camminata svelta col suo cane basso che le trottava dietro erano un po’ la sua droga. Quella corsa verso il tempo era uno dei vizi che si concedeva. Ed era una danza pericolosa ma perfettamente equilibrata, perché i suoi tempi calcolati male erano anche i guasti alla linea, i controlli delle forze dell’ordine in vettura, o qualsiasi scusa riuscissero a inventarsi.
Camminò velocemente come una gazzella nel ventre buio del corridoio dei binari, poi si introdusse nella bocca dell’inferno, le scale mobili verso i binari sedici-diciannove.
Con il fiatone e la maglietta appiccicata alla schiena arrivò davanti al tabellone onnipotente.
TRENO DESTINAZIONE ORARIO RIT BIN
TR 8109 COSENZA 9:47 5’ 18
Si tolse una cuffia per sentire l’annuncio. Il treno era appena arrivato, proprio come lei. Perfettamente in simbiosi. In quei momenti il suo ateismo mostrava delle crepe. Si ricordò di una frase che la sua ragazza le aveva detto una settimana prima mentre guardavano le antenne sopra Firenze Santa Maria Novella: se c’è un Dio, voglio che sia così. Sistemò la museruola attorno al collo di Taphos e si avviò verso le scale mobili. Discendendo negli inferi dell’alta velocità decise di dare un’ultima occhiata al tabellone.
FIRENZE S.M.N. (10:24) — ██ ████ (███) — ROMA TIBURTINA (11:59)
Sorrise, i glitch le sono sempre piaciuti. Riuscì a scattare una foto con la mano libera; l’altra serrava il guinzaglio. Il suo cane respirava rumorosamente sulle scale mobili. Discese nell’ade — il binario diciotto — dove i passeggeri aspettavano il treno come se fosse Caronte. I fari illuminarono le loro facce devastate, e il naso di Taphos, che invece era contentissimo di salire perché non è che capisse tanto. Dopo una serie di rumori inquietanti il bestione grigio e rosso riuscì finalmente a fermarsi, stridendo il suo dolore, nitrendo il disappunto per dover interrompere la sua valorosa corsa lungo l’Italia.
A Lina già giravano un po’ le scatole, ma ogni traccia di felicità abbandonò definitivamente il suo volto quando si sedette e vide i monitor spenti. Quegli schermi erano la conferma che non aveva sbagliato binario e poteva stare con l’anima in pace almeno per un paio d’ore, ma evidentemente le ferrovie oggi non le volevano concedere nemmeno quello.
Accarezzava il cranio scuro di Taphos continuando a fissare lo schermo. Finalmente il monitor sfarfallò e dopo un po’ di sforzi si accese.
9:58 / TR 8109 da BOLZANO a COSENZA / +5m
Prossima fermata: ERR
Scattò una foto al messaggio di errore. Appena Lina chiuse gli occhi il solito annuncio gracchiò: «Il treno alta velocità Treno rapido ottantunozeronove, proveniente da Bolzano e diretto a ERRORE. ERRORE. ERRORE.»
Lina sorrise con gli occhi chiusi, gli occhiali da sole ancora addosso.
Almeno il treno aveva iniziato a muoversi.
Il treno era sveglio.
«Ma insomma cos’è, un disco rotto?»
ERRORE.
«Non è possibile, qualcuno dica qualcosa!»
Ovviamente l’avevano svegliata. Taphos strattonò il guinzaglio; un ragazzo l’aveva scavalcato e si era accasciato sul sedile con un tonfo. Gli occhi gonfi e le borse sotto gli occhi suggerivano una notte insonne, ma si sforzò comunque di sorridere.
«Almeno oggi i sedili sembrano più morbidi, no?»
La stava guardando. Lei non era pronta per nessuna conversazione.
Lina tese la bocca in orizzontale al suo tentativo migliore di un sorriso.
«Ah sì? Non ci avevo fatto caso.»
ERRORE.
Ma effettivamente il tipo aveva ragione, non le era mai capitato di addormentarsi così velocemente, soprattutto con Taphos dietro.
«Mi dispiace per il disco rotto, ho provato a cercare un controllore ma non c’era nessuno,» alzò le sopracciglia divertito, «Ma vedo che comunque tu sei riuscita a farti un sonno.»
«Cioè, sul serio sta continuando a blaterare “errore” da quando mi sono addormentata?»
Il tipo rise. Con i suoi ricci rossi sembrava un Jannik Sinner tarocco, ma almeno era simpatico.
«Comunque piacere, Dani.»
Lei si avvicinò per sovrastare il rumore degli altoparlanti. «Lina.» Gli strinse la mano ossuta consapevole che si sarebbe scordata del suo nome nell’arco di trenta secondi. «Forse è meglio che mi tolga gli occhiali da sole», sfoderò un bel paio di occhiaie scure, da vera dura bolognese, e guardò il monitor interno.
10:21 / TR 8109 da BOLZANO a COSENZA / N.D.
Prossima fermata: ERR
«Ma è ancora impallato, assurdo.»
«Eh già.»
Lina alzò il colletto della giacca di pelle, faceva improvvisamente un freddo cane. Cane. Guardò il suo cane. Taphos, le orecchie in orizzontali e lo sguardo che cercava di essere serio, come al solito capiva poco.
Il treno iniziò ad accelerare. Tanto. Le si tapparono le orecchie, deglutì ma la sensazione non accennava ad andarsene. Lina strizzò gli occhi per cercare di vedere i chilometri orari, ma non erano visibili da nessuna parte. Ma sentiva che stavano andando davvero veloci. Che di per sé non era una cosa negativa, con tutti i problemi alle rotaie le sembrava che ultimamente i Treni rapidi non fossero più così veloci, ma in genere il quel momento rallentavano sempre per poi fermarsi a Firenze. Ma non stavolta.
«Dani ma te non hai freddo?» Incredibile, si era ricordata il suo nome.
«Sì ma poi penso al riscaldamento globale e mi sto zitto.»
«Sai se il ritardo l’abbiamo recuperato?»
«Là dice ancora “N.D”».
«Non dichiarato?»
«Non definito, credo.»
Lina tirò fuori il telefono. Erano le 10:26 e non c’era segnale. Zero tacche. Il treno non accennava a fermarsi. E faceva davvero freddo. Aprì WhatsApp, scrisse velocemente alla sua ragazza: «In teoria siamo dopo Firenze, treno un po’ strano lol» e premette invio. Il messaggio rimase lì un secondo. Poi sparì senza lasciare traccia — non c’era nemmeno il solito punto esclamativo rosso. Nulla. Sparito.
Come se non l’avesse mai scritto.
Premette sul rullino foto per mandarle le foto dei glitch, sapeva che li avrebbe adorati. Ma quelle immagini non erano più da nessuna parte. Guardò il soffitto. Forse era così stanca che era convinta di aver scattato quella foto quando in realtà non aveva fatto un bel niente. Fece per mandarle il monitor incasinato del treno, ma lo schermo rimaneva nero non appena apriva la fotocamera.
«Scusa,» disse Dani improvvisamente, guardando oltre la sua spalla, «Ma non dovevamo fermarci già?»
ERRORE.
Gli occhi di Lina seguirono i suoi. Fuori dal finestrino c’era il nero. Non il nero da galleria. Il nero del niente. Nessun albero. Nessun palo. Nessuna luce. Solo… assenza.
Un gemito basso attraversò il vagone. E poi un brontolio. Come uno stomaco affamato. Non era un rumore meccanico. Sembrava più… organico.
Lina batté le palpebre. «Ma che hai fame?»
Poi, senza alcun preavviso, il treno sbandò a sinistra. Uno strattone innaturale, impossibile per un treno ad alta velocità. Più che curva era uno sbalzo. Le luci si spensero per un secondo, e si riaccesero con un suono bagnato ma sordo, un pugno che spappola un’anguria, un urlo che squarcia il buio, e una chiazza di sangue sul vetro davanti a loro.
«Oh cazzo.»
Lina si alzò di scatto, il cuore che le martellava in petto. Fece due balzi in avanti stringendo il guinzaglio di Taphos forte, la pelle sulle nocche tirata e bianchissima.
Un uomo in giacca e cravatta giaceva riverso sui sedili, come una marionetta a cui avevano tagliato i fili. Il sangue si allargava sotto la sua tempia come un’aureola maledetta.
Lina sentiva i suoi occhi uscirle dalle orbite, il petto si muoveva spasmodicamente. Riuscì a gridare.
«Chiamate aiuto! Vi prego, aiuto!»
Dani la raggiunse pallidissimo. Le strinse la spalla. Lo schermo del suo telefono si bloccò, glitchato, col testo invertito che iniziò a scorrere all’indietro. Lo lasciò cadere con un sussulto.
«Che cazzo sta succedendo—» sussurrò Dani, proprio mentre tutti gli schermi si illuminarono all’unisono:
Ci scusiamo per il disagio.
E poi:
Fonte di carburante: INSUFFICIENTE.
MATERIALE ORGANICO RICHIESTO.
Il treno sobbalzò ancora. E poi il pavimento sembrò innalzarsi, come se qualcosa sotto di loro stesse crescendo. Si abbassò di nuovo. E poi si rialzò. Un movimento ritmico. Un respiro.
«Dani?», le sopracciglia aggrottate e il petto in subbuglio.
Lui le rispose con uno sguardo terrificato.
«Possibile che qualcuno abbia hackerato il sistema degli annunci? E un malfunzionamento del motore potrebbe causare queste dune?»
«Perché lo chiedi a me? Io faccio medicina. E onestamente… questo mi sembra più un polmone collassato.»
Un urlo — acuto, straziante — li interruppe. Lina non pensò. Mollò il guinzaglio di Taphos e corse giù per il corridoio verso il suono. Dani la seguì, barcollando, aggrappandosi ai sedili.
Arrivarono alla porta del vagone accanto.
«Dovevo scendere a Firenze! Fateci uscire da qui!»
Un uomo all’interno stava colpendo il finestrino d’emergenza, tentando di romperlo. Solo che l’oblò era coperto da qualcosa di viscido. Rosso. Pulsante. L’uomo pelato mollò un pugno, e la massa organica fremette; con un rumore risucchiante si formò un buco che assorbì la mano del signore. Che a questo punto stava urlando disperato. Dani si avventò su di lui e tirò, ma più tirava più l’altro gridava in preda al dolore. Lina guardava cercando di mantenere l’equilibrio in quell’inferno che aveva iniziato ad ansimare come un terremoto. La massa informe gli risucchiò tutto il braccio fino alla spalla.
«Dani… Guarda il muro.»
Con uno scossone lui si allontanò improvvisamente dall’uomo; rabbrividì, respinse un conato di vomito. «Ma quella è la sua mano…»
Il muro era diventato di un colore sanguigno e delle strisce viola e pulsanti circondavano l’oblò. Il treno era vascolarizzato. E sopra quello che avrebbe dovuto essere il finestrino, spuntava la mano tozza e gonfia del passeggero, prima chiusa in un pugno e poi distesa, come per cercare di afferrare qualcosa. O qualcuno.
Il signore si accasciò, privo di sensi, e il treno iniziò ad assorbirlo. La fenditura si dilatava e restringeva come per accogliere al meglio il suo corpo; produceva suoni molli, gorgoglianti, come carne masticata sott’acqua; quando arrivò all’altezza della pancia si allargò quasi fino a strapparsi, e con un ultimo schiocco umido lo risucchiò tutto.
Lina strinse il polso di Dani fino a fargli male.
Sul soffitto comparse immediatamente la faccia dell’uomo. E tutt’attorno gambe, dita e braccia.
«Cazzo,» Lina fece uno scatto verso la loro carrozza.
Il suo presentimento purtroppo si era avverato. L’uomo che prima era ferito si stava lentamente fermentando dentro i sedili, e dei pezzi di arto gli spuntavano vicino.
Livelli carburante: in aumento.
Velocità: in aumento.
Prossima fermata: integrazione.
Cosenza: non necessaria.
Destinazione: sazietà.
Lina fece qualche passo lungo il corridoio, rallentata dall’orrore che le affondava nelle ossa. Il treno si stava lentamente trasformando. Dove prima c’erano tappezzerie grigie e schermi ormai morti, ora si stendeva una nuova architettura viscerale, organica, viva.
Ogni superficie era cambiata. L’organico vivo stava dominando la plastica e i tessuti artificiali come un’edera. I sedili avevano perso la forma originale: al loro posto, enormi strutture carnose. E tra un sedile e l’altro emergevano nasi, dita, orecchie — mosaici macabri di carne. Una decorazione aberrante. Una colonna vertebrale si incurvava lungo lo schienale del posto 14B. Due volti fusi insieme avevano preso il posto del finestrino.
Il soffitto era forse la parte peggiore. Corpi erano stati stesi come pelli e inchiodati lì, non con chiodi, ma con vene e arterie che li legavano al metallo. Ma quelle schiene non erano morte, non erano carcasse; sembravano in qualche modo coscienti, cercavano di muoversi, di divincolarsi, di scrocchiare le ossa per fuggire da quella morsa viscida e invincibile.
C’erano anche altri volti. Alcuni avevano gli occhi aperti, umidi e vitrei, come oscurati da un velo di cataratta. Quel che rimaneva di una donna sulla quarantina si torceva piano la bocca come se stesse cercando di gridare, ma non c’era più lingua, solo una cavità spalancata e scura.
Lina si avvicinò a una parete, e si rese conto che stava respirando. Lentamente, in modo ritmico, con il suono basso e umido del cuore che aveva sentito solo durante l’eco-cardio. Ogni tanto sentiva delle gocce di qualcosa colarle dalle prese d’aria sulla giacca: muco? Sangue non del tutto coagulato? In ogni caso, «Che schifo.»
Dani rimase zitto, gli occhi ormai quasi fuori dalle orbite, la mascella tesa. Tremava.
Lina gli strinse la mano. Era freddissima. «Non siamo su un treno» sussurrò, mentre un lembo di pelle pendeva dal soffitto. «Siamo in un intestino.»
«Destinazione Sazietà…» Dani cercava di sorridere, ma gli occhi diventavano sempre più umidi e frizzanti. «Che roba, eh? Sembra una candid camera.»
«Sembra una candid camera, ma questi sono corpi veri.»
Lo guardò dritto negli occhi azzurro elettrico.
«Erano persone, Dani.»
Lui lasciò andare la presa. Lina continuò a camminare, cercando di perlustrare quella cabina viscerale.
«Sono un casino, Lina. Non dovevo mai prendere questo treno. Succede che come al solito cerco di scappare dalle mie responsabilità, mi illudo che viaggiando la mia coscienza possa essere più leggera… e-e… Oh… cazzo.»
«Dani?» Si girò. E non voleva credere ai suoi occhi.
Una lingua umida, tremolante ed enorme stava avvolgendo Dani; gli aveva avvinghiato le gambe, e si stava velocemente facendo strada dai fianchi fino alle spalle.
Lui fece uno scatto in avanti, voleva fuggire, ma la lingua lo precedette e lo riprese a sé; non con violenza, sembrava quasi languida e dolce nella sua conquista, sembrava volerlo accarezzare, sembrava quasi un abbraccio, ma quella lingua era ruvida, perché gli stava lasciando dei segni rossi sulla pelle; lo stava lentamente consumando, come i baci di una pecora in una sala di tortura.
Dani non proferiva parola. Rimaneva lì in silenzio, con lo sguardo teso e deformato dal terrore, gli occhi spalancati che cercavano un conforto nello sguardo di Lina, che non riusciva a fare altro se non stare lì a guardarlo, il respiro pesante e le gambe molli. Le pupille di Dani guizzavano. Cercavano Lina. La supplicavano, in un linguaggio silenzioso, con un’intesa che sembrava quasi inadatta a quel posto. Dani non si era mai sentito così vicino a qualcuno come in quel momento. E anche se fosse sopravvissuto, sapeva che niente avrebbe potuto replicare quello che avevano vissuto insieme in quel pomeriggio. Quindi tanto vale morire lì, all’apice della sua connessione empatica col resto del mondo, proprio quando era effettivamente scollegato da tutti.
Lina provò a muoversi, ma le gambe non le rispondevano. Una parte di lei voleva scappare, l’altra restare lì, inchiodata, ad assistere. Ad assisterlo.
Dani tremava. Ma la lingua lo cullava. Le sue braccia cominciarono a rilassarsi, come se finalmente stesse smettendo di resistere. Aveva gli occhi pieni di lacrime e di una dolcezza straniante, quasi grata.
Poi la pelle cominciò a staccarsi, un mandarino perfettamente maturo. La lingua non strappava: sfilava. Portava via pezzi di derma con movimenti lenti, delicati, metodici, come se lo stesse pelando vivo con il tocco di un amante.
La lingua arrivò alla testa.
Quando la punta si infilò al centro della fronte di Dani, per poi staccargli via tutta la pelle e i capelli, lui stava sorridendo.
Il suo viso iniziò a disfarsi in grossi lembi viscidi che la lingua tirava via e inghiottiva subito dopo. Lina vide le guance perdere consistenza, poi le orbite collassare su sé stesse. Quando la lingua gli leccò gli occhi, i bulbi oculari scoppiarono con un suono ovattato, tapioca del bubble tea.
Il cuore di Dani batté una sola volta fuori tempo.
Poi il suo corpo si accasciò, completamente abbandonato alla lingua.
Dani non esisteva più.
Il corpo venne sollevato in aria, sfilacciato ma ancora riconoscibile nei colori. Poi, con una grazia terribile, venne portato verso la parete viva e pulsante.
E lì, senza troppe cerimonie, fu inglobato.
Braccia, gambe e testa sparirono tra i lembi di carne e si riaggiustarono in quell’amalgamo mostruoso. La parete si richiuse con un rumore vischioso, come una ferita che si lecca da sola. Un occhio si aprì nella nuova carne. Era azzurro.
Lina rimase immobile, con la bocca serrata. Sentiva che se avesse stretto la mascella un altro po’ le si sarebbero spezzati i denti.
Lei respirava a fatica. Guardò i resti di quello che poteva essere un nuovo amico. Poi il soffitto. Una goccia cadde sulla guancia. Una lacrima di Dani? No. Non era acqua. Sapeva di ferro.
Fece un passo. E poi un altro. Il corridoio sembrava non finire mai.
Il suo riflesso apparve su un fascio di pelle stranamente lucido, e a malapena si riconobbe. Il viso era deformato dalla stanchezza. Era cresciuta, sì, ma onestamente irriconoscibile. I capelli umidi, il viso contratto in un’espressione che non aveva mai avuto. In quei minuti finalmente il suo corpo dimostrava la sua età.
Rimase in piedi a lungo, senza rendersi conto di quanto tempo passasse. I suoi pensieri si erano congelati. Ma là dentro adesso faceva davvero un caldo tremendo, come se i corpi stessero riscaldando l’ambiente. Si aprì la giacca di pelle, e la maglietta bianca era totalmente appiccicata alle sue clavicole, il collo sudato. Il caldo sembrava aver assorbito ogni altro rumore. Rimaneva solo la pulsazione del treno, unita alla sua, come due tamburi lenti nel petto. Il suo cuore non si muoveva per vivere. Batteva per ricordare.
Poi qualcosa si mosse, lontano.
Un suono familiare. Un ansimare. Un grattare leggero.
Il suo sguardo si rianimò con un brivido d’adrenalina.
Taphos.
In tutto quel casino si era scordata di Taphos.
«Merda. Merda, merda, merda merda.»
Corse con tutte le sue energie verso la sua carrozza.
«Taphos!»
Niente.
«Taphos, andiamo!»
Guardò sotto i sedili senza trovarlo.
«Taphos, amore, andiamo!»
Correva per i vagoni come un’ossessa, gli occhi fuori dalle orbite e i richiami sempre più convulsi; correva come una persona a cui mancava un pezzo di sé; correva come una persona a cui avevano strappato il cuore, correva come una persona che aveva fissi in mente quei due occhi morbidi che la guardavano mentre lei piangeva riversa a terra per l’ennesima delusione che si era auto-inflitta; correva quando improvvisamente inciampò su qualcosa.
Era la testa di Taphos, gli occhi castani spiritati, la bocca aperta in ansimi e guaiti. I versi del cane erano più selvaggi degli abbai. Urlava perché c’era qualcosa sotto quel pavimento viscido che lo stava stritolando, che lo stava lentamente riducendo a pezzi. Le zampe anteriori tremavano nel vuoto, le unghie graffiavano contro il pavimento, cercando appiglio. Lina si gettò a terra, strisciando verso di lui. Il foro sembrava vivo. Intorno al bordo, la carne si contraeva in spasmi ritmici, come se stesse masticando. Un anello muscolare, molle, umido. Il treno lo stava ingoiando. Lei cercò con le sue unghie troppo corte di graffiare quella cazzo di bestia, quell’assassino che si stava mangiando la sua ragione di vita, ma ogni volta che premeva degli aculei sottilissimi le si infilavano nella carne; gridava anche lei, ma soprattutto piangeva, perché il destino di Taphos ormai sembrava segnato.
Le sue mani scivolavano sul pelo bagnato del cane. La saliva del treno lo stava digerendo. Lina afferrò Taphos per la collottola, tirò con tutta la forza che aveva, ma lui guaì. Un suono sottile, straziato, meno rumoroso dei suoi versi di prima. Come se anche lui avesse capito che non c’era via d’uscita. Più tirava più il buco sembrava stringere. Una contrazione muscolare, uno spasmo viscerale. Un rumore umido e sordo, come carne lacerata da denti che non esistono.
Un ultimo sguardo.
Taphos sollevò il muso. I suoi occhi cercavano i suoi. E Lina sentì qualcosa spezzarsi dentro.
Un suono secco. Come un osso rotto.
Non nel corpo. Nell’anima.
Poi —
Il buco si chiuse.
E lui non c’era più.
Lina piangeva.
Piangeva come una persona che aveva conosciuto la pace, e la stava vedendo scomparire sotto i suoi occhi.
Piangeva come una persona che prima aveva davanti il suo cane, e ora aveva tra le mani solo un ciuffo scuro di peli, davanti a una voragine carnosa.
Respinse un conato di vomito, lo stomaco era diventato un’unica poltiglia di orrore e tristezza.
«Tapho…»
Le nocche erano bianche per quanto stava stringendo quel che rimaneva di lui.
Le sembrava di star per esplodere.
Si alzò, la schiena incurvata dalla sofferenza. Adesso era davvero sola. E ora stava ricominciando a fare freddo. Chiuse la zip della giacca di pelle fino al mento.
Le pareti del vagone pulsavano viscide, come un cuore vivo, un diaframma umido di sangue rappreso. Ogni superficie era viva. Ogni elemento integrato — ogni persona morta — si muoveva e respirava a intervalli irregolari; erano tutti uniti a un unico ecosistema, ma ognuno manteneva il proprio ritmo. Il treno ansimava, sussultava, si contraeva, gemeva a intervalli irregolari: non si stava solo muovendo, stava masticando, digeriva tutto: il dolore, il lutto. Lei stessa. Lina deglutì. Aveva la bocca secca e un sapore di ferro addosso, come se avesse morso una ferita. Non riusciva più a distinguere il metallo dalla carne. Non riusciva più a capire dove finiva il treno e dove cominciava lei. E improvvisamente si ricordò una frase che aveva detto alla sua ragazza, a Firenze Santa Maria Novella, quella Firenze che stavolta non era riuscita a raggiungere.
Lo sai che tutto il percorso da Bologna a Firenze è sottoterra?
Sentiva il respiro farsi affannoso, il cuore le smuoveva la pelle, lo avvertiva con la mano.
Perché cazzo sono partita?
Il suo petto era pesante. Voleva piangere, ma un unico triste magma le infiammava la gola e la testa senza sciogliersi.
Mi chiedo come sarebbe il rumore delle mie nocche spezzate sulla parete.
Guardava l’infinità di luci bianche del tunnel che si palesavano con un ritmo incessante e bulimico. Dalla finestra il suo sguardo si librò sulle mani, poi sui polsi, e poi di nuovo sulla finestra.
No, è da tempo che non mi taglio.
E poi non poteva darla vinta al treno.
Cosa avrebbe pensato la sua ragazza? Che era scappata da Bologna, che era scappata da lei? Che voleva uccidersi, che voleva scomparire?
Non voglio morire.
Il pensiero le si palesò cristallino in mente. Come un’epifania dorata. Quella consapevolezza era un’aureola gialla su una tempesta di nuvole. Non voleva morire. Non poteva morire. Si aggrappò alla maniglia di sicurezza del treno, ormai una sorta di arto grumoso, e tirò fortissimo. «Fatemi uscire!» urlando si raschiava la sua stessa gola, «Fateci uscire, cazzo!» Tirava ma la porta sanguigna rimaneva sempre immobile, chiusa e serrata. Nel frattempo, l’aria si faceva sempre più calda. Tirava, cercava di usare tutto il suo corpo per aprire quella dannata porta, i suoi palmi troppo morbidi per gli sforzi erano diventati rossi e gonfi. Col respiro spezzato si fermò.
La cabina di controllo.
Doveva andare alla cabina di controllo e deragliare il treno. Corse verso l’ultima carrozza, verso la porta che tutti scambiavano per il bagno ma che in realtà era il cuore pulsante del treno, o meglio il cervello. Era abbastanza sicura che non avrebbe trovato nessun controllore. Ma magari poteva trovare un modo per ucciderlo dall’interno.
Come tutto il resto, la porta era diventata una massa carnosa e vascolarizzata; infilzò le mani dentro quella che doveva essere la fessura e che era diventata una ruga; per un attimo fu accecata dal dolore, ma spinse, spinse fortissimo; doveva entrare. E la porta si aprì, come se avesse percepito la sua disperazione.
E in quel momento Lina smise di respirare.
Incastrato tra due costole c’era il nucleo del quadro comandi: la cabina si era trasfigurata in un enorme cuore anatomico, grande e deforme. Palpitava al centro dello spazio, agganciato alle pareti da un reticolo di vene che pulsavano gonfiandosi e sgonfiandosi. Il sangue si muoveva sotto la patina traslucida come un’onda nera, irregolare, affannata.
Lina sentì il sangue ghiacciarsi nelle sue vene. Il movimento muscolare del cuore le aveva sempre fatto schifo. Ma questo era terribile e gigante.
Ogni superficie era viva. Le pareti trasudavano muchi e sudori viscosi, colando piano sulle pareti come miele. Quell’organismo continuava a pulsare con una calma predatoria, come se stesse decidendo se riconoscerla o rigettarla. Un ronzio profondo saliva dal pavimento—non un rumore meccanico, ma una vibrazione organica, come il ringhio sommesso di uno stomaco affamato. E poi il solito rumore orrido e bagnato del cuore che batte, il sangue che fluisce.
Doveva arrendersi. Non valeva la pena. Assecondò i suoi istinti, assecondò il desiderio di autodistruzione contro il quale aveva lottato per tutti i ventidue anni della sua vita, e lo superò di gran lunga, perché lì non aveva strumenti con cui farsi del male. Aveva solo il suo corpo. Chiuse gli occhi — non voleva vedere — e con i denti si strappò un lembo di pelle. Il sangue scuro fiottò dai polsi e colò sulla massa organica.
A mano a mano che il suo stesso sangue veniva assorbito da quella roba sentiva la sua pressione scendere sempre di più; il respiro era pesante e percepiva ogni pulsazione del suo cuore, come se fosse un organo staccato da lei, che ogni contrazione le levasse un po’ di linfa vitale; e aveva la netta sensazione che stesse andando all’unisono con il battito del treno. Si sentiva svenire. Vedeva già bianco. E per un istante provò sollievo.
Perché adesso, finalmente, non avrebbe più dovuto guardare quell’abominio. Non avrebbe più visto quel treno assassino.
Stava diventando nulla.
E andava bene così.
Finalmente smetteva di resistere. Finalmente poteva lasciarsi andare.
La massa la stava risucchiando, fondendo ogni sua fibra in una nuova architettura fatta di ossa e metallo.
Non era più Lina.
Ma non provava neanche più dolore.
E il treno, sazio, accelerò.
Si svegliò con un sussulto. Provò a muoversi, ma l’aria era pesante, spessa. Quasi liquida. Le palpebre si sollevarono a fatica, squarciando una membrana vischiosa incollata agli occhi.
Ma alla fine riuscì a vedere.
Avrebbe preferito non farlo.
Non era morta.
Non era uscita.
Era dentro.
Ancora più dentro.
Immersa nel liquido amniotico del treno.
Galleggiava come un feto in una placenta. Davanti, pulsava una sfera gigantesca e viva, un ammasso mostruoso di bocche, e tra le fessure delle labbra c’erano degli occhi, e ognuno sembrava ragionare per conto proprio. Nessuno guardava nella stessa direzione. Eppure ne era sicura.
La vedevano.
Le bocche non stavano ferme. Molte si aprivano e chiudevano come per mangiare qualcosa — o qualcuno —, alcune sorridevano, altre mostravano la lingua. L’amalgamo pulsava, vivo e assurdo. Un cuore gigante e deforme ricamato di labbra e iridi.
Poi la vide.
La piccola bocca scura di Taphos.
Aperta e ansimante, con i denti storti e la lingua all’infuori. Qualcosa si spezzò dentro di lei. Trattenne le lacrime e si avvicinò, tese una mano; voleva accarezzarlo un’ultima volta, in mezzo a quella sfera organica e viva, brulicante di altre bocche. Quando appoggiò la mano sul muso si rese conto di quanto sembrasse reale. Sembrava che fosse ancora vivo. Taphos non c’era più, Taphos era morto. Eppure era lì, e lo stava toccando.
Una delle bocche si aprì di scatto, come per inalare il suo odore, come se la sua presenza fosse aria in un universo privo di ossigeno. Riconobbe i baffetti rossi — era Dani.
In quell’esatto momento si rese conto che non poteva, non voleva uccidere più il treno. Perché uccidere il treno voleva dire uccidere anche loro. E anche sé stessa. Quel tumore pieno di persone era il carburante del treno, ma il treno era anche il motivo per cui loro ancora potevano vedere, ancora potevano sentire.
Si avvicinò verso una bocca carnosa e umida. Non voleva più lottare. Una lingua, o forse un grappolo di muscoli, le sfiorò la coscia. Rabbrividì. Ma non si ritrasse.
Lina strinse una bocca, tremando. Sentiva il respiro farsi caldo, bagnato. Si sentiva bollente. Le gambe cedevano piano sotto un desiderio che non aveva nome.
Le bocche si stavano aprendo. Con un suono umido, centinaia di gemiti nelle sue orecchie. Occhi incastonati tra le labbra la scrutavano febbrili, volevano denudarla fino all’anima.
La vedevano.
E la desideravano.
Un fremito le percorse la spina dorsale. Tra le cosce, il calore si fece liquido. Il cuore le martellava le tempie. Sentiva il bisogno crescere, straripare, bagnare.
Si avvicinò.
Sfiorò la bocca di una sconosciuta, o uno sconosciuto; ormai non importava, perché non si conosceva nemmeno più lei stessa.
E poi la lingua la leccò.
Una carezza lenta, consapevole, tra il polso e l’avambraccio. Lina ansimò. In quel tocco c’era tutto: passione, perdita, possesso.
Un’altra lingua le lambì l’interno coscia.
Un invito.
Un’offerta.
Lei lasciò cadere la giacca. Lasciò che il respiro si spezzasse. Lasciò che il treno la spogliasse, lentamente, con bocche affamate e occhi adoranti. Ogni centimetro della sua pelle era adorato, leccato. Assaporato.
Distese il collo; si offrì come carne sacrificale e amante insieme. Un’orgia di dissoluzione la avvolgeva. E mentre varcava le labbra della sfera, li gemito del treno le risuonò nel petto, facendola vibrare fin dentro l’anima.
Lina si fuse.
Nel ventre del mostro, finalmente, non c’era più dolore.
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