di Martina Limardi
treno che era ora che arrivasse in stazione di Vargas
Nel coro di dioporco e porcamadonna che gorgheggia dall’intestino al cervello, Samuele guizza come un’anguilla biliosa sul piastrellato scivoloso di Porta Nuova; la sua immagine riflessa nel bianco del piastrellato – lucido e, comunque, marcescente – è uno sciame nero che ribolle, che si lancia in avanti, sempre più vicino al pannello delle partenze e degli arrivi, ma che allo stesso tempo pare girare intorno, inghiottire sé stesso. Le gambe bruciano e il trolley, stretto nel pugno, lo segue come una vecchia carcassa, sbilanciandosi a destra e a sinistra: lo passa velocemente all’altro pugno e alza il polso libero. Sono le 23:28, la partenza è prevista per le 23:45. Quando finalmente si ferma, sta sudando. È giunto alla fine della corsa inchiodando sulle punte delle Vans tenute insieme da spille da balia arrugginite; ha preso in pieno il nastro giallo del traguardo e cerca di regolarizzare il respiro piegato sulle ginocchia: non è un corridore, non lo è mai stato. Quando alza lo sguardo non trova una platea di persone a lanciargli bottigliette d’acqua e dargli pacche sulle spalle, e nemmeno quel che ci si aspetta arrivando in bocca ai binari: il pannello degli arrivi, e anche quello delle partenze, sono spenti. Coperti da uno strato di polvere, sembra non vengano accesi da tempo; due finestre scure e opache a interferire con i binari che sfilano lontani, dove Samuele non riesce a vedere.
Qualche treno viene comunque annunciato, una coppia si lancia verso il binario otto, dopo qualche secondo il personale sale a bordo e la vettura parte.
Samuele ricontrolla l’ora: mancano dieci minuti alla partenza. L’idea di dover controllare il pannello binario per binario in cerca del suo treno è una follia alla quale si sottomette: scatta verso il binario dieci, quello più vicino. Anche gli schermi disposti lungo le strisce gialle sono spenti.
Si dirige verso l’info point, arreso sotto lo spettro della grande scritta che aleggia in cima al box «trenitalia», la n più scrostata e danneggiata rispetto al resto.
Il treno delle 23:45 direzione Bologna, mi sa dire il binario?
Guarda negli occhi la signora in divisa dietro il vetro in plexiglass.
Codice della vettura?
Qualche briciola dei Tuc gusto pomodoro ferma agli angoli della bocca che, insieme al resto del viso, sembrano starsi sciogliendo sopra al collo molle.
Nove-sei-due-otto.
La signora Tuc sbatte i ditoni sulla tastiera del computer, il database per monitorare tutte le vetture in stazione si riflette sugli occhiali da vista.
Nove-sei-due-otto?
Samuele è certo sia quello il codice, ma in uno spasmo della mano ricontrolla la mail riepilogativa.
Sì, nove-sei-due-otto.
Non c’è.
Non può non esserci.
Non esiste nessun nove-sei-due-otto in programma. Provi a dare un occhio al sito, magari la rimborsano.
Magari la rimborsano. Torna verso il binario sette, appoggia la schiena alla colonna di cemento nudo e si lascia cadere a terra. Infila le mani nelle tasche dei cargo corti in cerca del tabacco, ma le dita si impigliano in biglietti su biglietti; dimentica sempre di buttarli via ed escono fuori da ogni foro dei suoi vestiti come il mazzo di carte che il mago sbobina dalle maniche del frac. Gli stessi biglietti che restano appiccicati alla pelle del suo viso sudato – sudore gusto Beck’s da 66 cl – quando torna a casa sbronzo e si butta nel letto senza spogliarsi. Alla fine, trova il tabacco e si rolla una sigaretta dopo l’altra, le 23:45 sono passate da un pezzo, la gente torna a casa e lascia il posto ai veri abitanti di Porta Nuova che, negli angoli meno illuminati, costruiscono la loro casa di cartoni e coperte. Lo guardano con occhi acquosi e incrostati; un paio gli chiedono una sigaretta e Samuele, che non ha mai imparato a dire di no, gliela gira intanto che la pozzanghera di mozziconi intorno a lui si allarga. Scrolla il feed di Instagram sul telefono, si incanta a guardare il video di un’americana tutta codini e leggings rosa che va per cimiteri a ripulire “random graves!” con scopetta e straccetto; riparte in automatico almeno quattro volte, interrotto unicamente dalla chiamata che arriva.
Sei partito?
No.
Coglione.
Sto cercando una soluzione.
Fai quello che ti pare.
Okay.
Il treno non c’è eppure si alza e inizia a cercarlo. Non è che ha tanto di meglio da fare, comunque. E non si sente stanco, quello no. Almeno Marco non gli dà più del coglione-stronzo-maledetto se riesce a prendere il treno.
Cammina lungo il binario ventidue, l’ultimo sulla destra.
Due Senzafissa seduti contro il muro lo guardano liquefatti, lui calpesta un lembo di coperta rancida e uno di questi gli blocca la caviglia e addenta il polpaccio nudo mentre quell’altra ne approfitta e lo tira per le spalle lì in mezzo ai cartoni, le buste di monnezza e le coperte che violentano le narici di Samuele. E allora quello gli fa saltare i tendini, i tendini del polpaccio di Samuele saltano come molle mentre i denti neri del vecchio lacerano il muscolo. Quella intanto sorride sdentata e lercia come una matta mentre con un braccio lo tiene fermo, i suoi capelli sono un unico dread grigio-sacca-dell’aspirapolvere-piena che sbatte sulla faccia di Samuele, ma lui comunque non oppone resistenza, affonda nelle coperte in mezzo a loro. Lei con l’altro braccio recupera una siringa imbrunita, gli recide lo stomaco e allunga il taglio fin sopra al petto incassato, passando per lo sterno leggermente sporgente; schizza tutto fuori e pare lo vogliano svuotare. Raccolgono le viscere a piene mani e se le spalmano sui corpi incrostati coperti da uno strato di pelle cedevole, pare sul punto di aprirsi come il fondo delle buste dell’umido ad agosto. Il vecchio ripulisce le intestina dai liquidi e dalla merda residua e quando non resta più nulla continua a morsi e il succo gli cola lungo il collo andando a impregnare le pezze che lo ricoprono, mentre l’altra si occupa dei polmoni rattrappiti e del cuore, gli ficca qualcosa di bagnaticcio nel culo, qualcosa che Samuele non riesce a capire cos’è e che comunque lo spacca in due.
Continua a immaginare i loro denti da roditori che vanno dappertutto, in ogni angolo del suo corpo asciutto, chiude un attimo gli occhi e qualcosa di simile a un sorriso infossa gli angoli della sua bocca, ma breve, muore subito.
Quando aveva tredici anni e i suoi genitori si chiedevano dove fosse, passava le ore da solo lì dove si stava dirigendo adesso, dove la zona pedonabile finisce e poteva stare ore a guardare i treni partire fumando le prime Chesterfield rosse 100s, se andava abbastanza tardi aveva la fortuna di incontrare pischelle incappucciate con torcette, bombolette spray e un paio di bottiglie di tequila low-cost. Questa notte però non è solo, e nel punto esatto in cui era solito sedersi, c’è una ragazza, a pochi passi un’altra bruna con la coda alta, un signore tondo con in testa un cappello elegante e un signore molto alto; stanno fermi con i bagagli stretti a loro e tutto il resto.
Si rivolge a quella tutta emaciata con i capelli paglierini, appesi alla nuca in ciocche stagne.
Cosa aspettate?
Lei si gratta le braccia magre coperte dalle maniche slabbrate di un cardigan giallo e non si gira manco a guardarlo. Nessuno si gira a guardarlo e gli sembrano tutti parecchio grigi. Si accende la sigaretta appesa alle labbra e decide di aspettare con loro.
Cos’è tipo nove e tre quarti, quella cagata della saga dei maghetti?
Nessuna risposta. Quella bastarda transfobica della Rowling, pensa, quella bastarda, i suoi muri magici e i suoi maghetti di merda dei quali il mondo faceva tranquillamente a meno. A metà sigaretta sente un rumore in lontananza e in pochi secondi spunta la testa di un treno. Dagli altoparlanti non giunge nessun annuncio, lì non ci sono pannelli a indicare gli arrivi, né accesi né spenti. Nove-sei-due-otto. Questo è quello che c’è scritto sopra. È un graffito verde e rosa in realtà, dall’aspetto fresco visti i colori brillanti. Le porte si aprono e lì per lì non esce nessuno. Samuele esita, allunga il collo per cercare un qualsiasi controllore o capotreno a cui chiedere informazioni; nulla. La vettura, da fuori – tolto il graffito e la mancanza di altre affissioni che indichino orario di partenza o i numeri delle carrozze –, sembra conformarsi perfettamente a tutte le sue sorelle Trenitalia; Samuele nota però il numero esiguo di vagoni, saranno cinque o sei al massimo. Cammina avanti e indietro, fa per mettere un piede sulla soglia e poi lo ritira. Un fischio gli squarcia le orecchie, maledice la Rowling e la signora Tuc al gusto pomodoro, sale a bordo seguito dagli altri quattro; non si era reso conto che erano rimasti lì, grigi e in piedi per tutto il tempo, come stessero aspettando un segnale da parte sua.
L’interno del treno è un guscio caldo e lattiginoso, i sedili emanano lo stesso odore che sente ogni volta che passa vicino alla Dora. I quattro hanno aspettato che si sedesse, prima di prendere i loro posti nel vagone. Oltre loro, non c’è nessun altro. Samuele, ora che è seduto con la testa appoggiata al finestrino – e che, soprattutto, nessuno dei suoi compagni di viaggio gli si è attaccato alle calcagna – sente di poter distendere, finalmente, i nervi.
Ha scelto il posto in fondo al vagone, fila destra. Gli auricolari li ha dimenticati a casa ma il silenzio lì dentro è puro e non si lascia turbare. Apre una chiappa da una parte e una dall’altra parte, prova diverse posizioni e cerca di far aderire bene i lombari allo schienale; si rilassa. Guarda fuori dal finestrino e non c’è un lampione, una stella o la lucina accesa nella stanza di un casolare lontano a illuminare la provincia torinese che si lasciano alle spalle; pare il treno sia stato inghiottito da un buco umido nella terra, un po’ di quel buio è come se lui lo inghiottisse a sua volta e quasi si addormenta. Pensa a Marco e quanto il fatto che gli dà del coglione per ogni cosa gli dia fastidio, pensa che adesso va da lui e glielo fa vedere, chi è il coglione – in realtà sa che vorrebbe solo vestire la sua carne, chiudersi sotto la sua pelle come dentro al sacco a pelo verde e azzurro che hanno condiviso cento volte, eliminare la barriera del corpo ed essere un solo mostro a quattro polmoni.
Butta uno sguardo alla bionda emaciata, seduta speculare a lui, nella fila sinistra. Prima di chiudere gli occhi la osserva tossire in un fazzoletto giallastro e per un attimo gli pare di vedere un filo rosa confetto uscire dalla sua bocca e unirsi al muco e alla carta consumata.
È come una mazza ferrata contro la nuca a svegliarlo. Salta sul sedile, nelle sue orecchie esplodono le urla lacerate di un bambino. Ci mette una buona decina di secondi a ricordarsi dov’è. In fondo al vagone, fila destra. La fila di quelli che hanno bisogno di sentirsi al sicuro. Le urla del bambino – o dell’animale squartato – arrivano da qualche parte del treno, chissà quale. Eppure, pare stia urlando proprio in mezzo agli occhi che tiene serrati, facendo pressione sul lobo frontale e provocandogli fitte in tutta la testa non appena sposta lo sguardo. Samuele sogna un vagone riservato ai bambini, delle piccole gabbiette con cibo e giochi che li facciano stare buoni, lontano da lui e la sua cefalea semi-costante. Pian piano le palpebre si alzano e quella che gli si para davanti è la scena che di straforo gli si era già presentata, con il risveglio e il dolore si era fusa alla finzione del sonno. I suoi compagni di viaggio sono tutti in piedi, dal signore tondo allo spilungone dall’aria milanese. Anche l’altra ragazza, non la bionda, una bruna con la coda alta e il seno gonfio. Sono tutti in piedi, fissano lo sguardo nella direzione di marcia del treno. Il bambino-gattosquartato urla e loro stanno fermi, al grido si sovrappone la voce registrata.
Attenzione!-il-treno-in-partenza-da-Torino-delle-ore-23:45-è-in-arrivo-a —
I passeggeri non sbattono le palpebre. La voce registrata ripete il ritornello e quel grido scoppia nei bulbi di Samuele. Si risiedono robotici non appena la porta scorrevole – che, Samuele, si rende conto ora, essere l’oggetto del loro interesse – si apre, e le urla cessano.
Entra nel vagone un uomo che tocca il soffitto con la testa, in divisa Trenitalia. Il grosso uovo che poggia sul collo filiforme, più che una faccia, è il disegno di una faccia in tre dimensioni, fatto da un infante. Eppure, è liscia come la membrana soda dell’uovo; ruota su quel piccolo collo ed esita su ognuno di loro. Samuele si guarda le Vans con la mascella tanto tesa che potrebbe saltare da un momento all’altro, per un solo secondo alza lo sguardo. Gli occhi dell’uomo sono due squarci, le fessure verticali nelle quali la macchinetta fuori dal tabaccaio ingurgita le monete. La carne si rapprende nel mezzo, una piaga scura e incrostata del colore lucido delle formiche. La bocca incide il viso da una parte all’altra.
Attenzione!-il-treno-in-partenza-da-Torino-delle-ore-23:45-è-in-arrivo-a —
Guarda Samuele.
Attenzione!-il-treno-in-partenza-da-Torino-delle-ore-23:45-è-in-arrivo-a —
L’uomo si gira, cammina calmo e scompare dietro la porta scorrevole.
Dove va? Dove va il treno?
Accende il telefono, una notifica da Marco. Gli ha risposto: Fai quello che ti pare, stronzo.
Nessuno in quella merda di vagone gli risponde.
Sei solo uno stronzo.
Dove cazzo va il treno?
Stronzo.
Alza lo sguardo dall’ultima notifica.
Dov’è mio figlio?
Il volto della bruna è a pochi centimetri dal suo, è piegata su di lui, con le dita delle mani che tremano allacciate tra loro.
La sua faccia è una ruga contrita di dolore che assorbe occhi, naso e bocca, da qualche parte sgorgano le lacrime. Samuele lascia cadere il cellulare a terra.
Sai, lo sto cercando, è un bambino piccolo. Tu lo hai visto, dov’è?
Io non —
Il pianto che gli spacca il lobo frontale ricomincia più acuto e lontano.
Dov’è? Mio figlio, dov’è?
Il timbro, da sconsolato, si fa sempre più sgraziato e lamentoso, Samuele cerca con gli occhi la bionda seduta dall’altra parte del corridoio stretto. Ha un sottile ago stretto tra l’indice e il pollice della mano sinistra, lo infila nella trama della manica del cardigan giallo e preme verso il braccio, gratta avanti e indietro. Poi si ferma per tossire, scatarra sul suo ventre e Samuele è convinto di vedere fili rosa confetto uscire dalla sua bocca. Si allontana dalla bruna che cerca di afferrare i lembi della sua giacca; la scansa. Si chiude alle spalle la porta scorrevole in fondo al vagone.
È solo, nella claustrofobica terra di mezzo tra un vagone e l’altro. Prova a guardare nella fessura sul pavimento, quella attraverso la quale di solito vede i fili d’erba che crescono in mezzo ai binari scorrere veloce, ma è lo stesso buio che ha trovato fuori dal finestrino a inghiottirlo.
Entra nel vagone successivo, sospira sollevato dal piccolo quadrato che compare sopra una porta ad angolo: «wc». Scivola dentro il cubicolo.
Il piccolo specchio gli allarga un po’ il viso, mozza Samuele all’altezza del pomo d’Adamo. È incrostato di polvere, impronte e acqua. Nonostante ciò, riesce a distinguere le occhiaie e gli zigomi alti incorniciati dai ricci scuri. Sulle ciglia, il filo di mascara, che ancora gli piace mettere, è un grumo pesante. Preme le dita contro il viso e tira le guance verso il basso, facendo sbucare dalla lima inferiore degli occhi la carne acquosa e i capillari lividi. Si dà due colpetti cercando di isolare le urla del bambino. Lo sporco che sbuca da sotto lo specchio sembra riflettere la lima di carne viva e vulnerabile della palpebra inferiore, una sottile striscia di carne.
Dammi da mangiare.
Un sussurro grumoso si alza dal fondo del cesso. Parte lo sciacquone automatico.
Nutrimi.
Riparte lo sciacquone e questa volta sale una lingua di carne cuneiforme, tumefatta.
Samuele si gira, trattiene il respiro per non far entrare il puzzo che permea le pareti del cesso sudate che gli sembrano gonfie, attraversate da grosse arterie pulsanti. Preme il bottone per sbloccare la bocca di quella pancia che inizia a sgorgare bile.
Svuotati.
Di nuovo lo sciacquone. Samuele preme il pulsante rosso fino a consumarsi i polpastrelli, squarcia le nocche contro il muro e la porta si apre, lancia un ultimo, veloce sguardo allo specchio, e per un attimo gli pare che l’interezza dei suoi bulbi sia carne viva, senza più palpebre né ciglia. Salta fuori da lì con l’acqua gastrica alle caviglie, gli impregna i calzini rendendo ogni passo uno spugnoso vortice verso il basso.
Attenzione!-il-treno-in-partenza-da-Torino-delle-ore-23:45-è-in-arrivo-a —
L’uomo gli sbarra la strada, la testa d’uovo lo fissa dall’alto, la bocca è una cucitura dalla quale esce la voce registrata di sempre. Si piega sulle ginocchia, avvicina il volto abnorme a quello di Samuele che per un attimo sogna di tornare dal cesso a dargli quel che vuole. Poi, l’uomo torna eretto e prosegue verso il vagone camminando lento sulle gambe di bastoni, come se nulla fosse.
Il respiro di Samuele è un vecchio cane mozzato dal caldo. Le sue gambe sono molli ma comunque si muovono veloci attraverso il vagone: non torna verso il suo.
Dal bagno non arriva più alcun suono e anche la melma che fino a pochi secondi prima sgorgava da ogni anfratto e tubatura, sembra essersi ritirata. Supera nuovamente le porte scorrevoli, prosegue verso il capo opposto del treno. Quando sbuca nella nuova carrozza però – i compagni di viaggio, il suo trolley, il cellulare per terra, le urla: sono tutti là.
Non ci sono i normali sedili imbottiti e rivestiti di tela lurida e sintetica. Al loro posto ci sono i water ferrosi e lucidi che gli danno le spalle. Sul retro delle decine di tavolette alzate, decine di scritte rosse nell’inconfondibile font in capslock Italic: «trenitalia».
Indietreggia fino a sbattere contro la porta scorrevole, con la mano tremante prova ad aprirla, senza ottenere risultati. I suoi compagni di viaggio sono girati verso di lui, lo fissano con un sorriso al contempo neutro e conciliante. Vede solo le facce che sporgono dalle tavolette dei cessi sui quali siedono. Lo seguono in ogni suo movimento. Continua a forzare la porta ma sembra murata al resto della vettura. Si avvicina lento, cercando di evitare ogni sguardo, torna verso il suo posto per recuperare il cellulare. Si inginocchia a terra e allunga il braccio per raggiungerlo, ma un fruscio esteso lo fa girare di scatto. Sono in piedi adesso, la prima che vede è la bionda emaciata. Il suo sorriso è largo, gli angoli della bocca tanto tirati da lasciar vedere il buio delle gengive dietro i denti ingialliti. Gli sorride e si gratta con forza le braccia. Si è tirata su le maniche del cardigan e la pelle bianca, quasi trasparente, è percorsa da buchi, ferite aperte e sanguinanti sulle quali le unghie appuntite continuano a sfregare insistenti. Si avvicina, gli porge il braccio livido e aperto.
Non ci siamo presentati, sono Ikea.
Samuele indietreggia sul pavimento, quasi abbracciando il cesso.
Mi chiamano così perché vengo dalla Svezia. Mi aiuti a grattarmi? Qui. Qui mi prude un sacco.
Indica l’interno del gomito squartato, dal quale sbucano fili rosa appiccicati tra loro, in un grumo di sangue. Samuele nota che le giunture delle braccia sono cucite. Non emette un suono, a mala pena respira.
Io uso queste quando mi spezzo le unghie, con queste è più facile premere e tirare.
Gli porge due siringhe arrugginite. Samuele prova ad alzarsi, non fa in tempo a tirarsi su che quattro braccia lo fanno per lui.
Ei, ti ha solo chiesto di aiutarla, che problema c’è?
Sono i due uomini, quello alto e quello tondo che gli parlano all’unisono nascosti dai sorrisi aperti. Stringono le dita intorno ai suoi avanbracci e lo trascinano a sedere sul cesso accanto a quello di Ikea che adesso piange, un pianto acufenico che si unisce a quello del bambino perduto. Lo tengono fermo mentre la bionda si toglie il cardigan e alza la maglietta che, solo ora, Samuele nota essere delle Kaelan Mikla. Il pensiero è fugace, schizza subito via sostituito dalla visione di quel ventre spalancato sulla sua faccia, una finestra senza pelle che dà su quelle che non sono solo intestina, ma un intero circuito di lana rosa confetto, che lei inizia a sbobinare con gli aghi delle siringhe. Riversa la massa ai suoi piedi. L’uomo alto gli fruga nelle tasche con il braccio libero, lancia via il tabacco e tira fuori le decine di biglietti dei treni consumati. Lo spogliano. Samuele prova a divincolarsi da quella presa sovrumana, che per un attimo gli ricorda quella di Marco a letto, soffocante. Quando la maggior parte della sua carne è nuda, Ikea afferra i biglietti e con le lacrime ora secche agli angoli degli occhi scuri, ricomincia a sorridere calma. Glieli cuce a uno a uno sulla pelle libera, andando ben a fondo nella carne con l’ago e tirando con cura il filo prima di riaffondare la punta della siringa. Intanto fischietta un motivo che – a Samuele, in un antro scuro della mente, pare familiare, mentre a tratti grida e a tratti butta la testa indietro, gemendo inerme.
Shhh, shhh, piano.
Si avvicina a loro la Bruna, tiene tra le braccia un essere livido e affusolato, che culla muovendo i fianchi al ritmo lento del fischiettare di Ikea. Il seno gonfio è scoperto e sbatte contro la boccuccia del feto in putrefazione. L’ultimo pianto rimasto è quello di Samuele. Il suo sangue si riversa sul pavimento della locomotiva in movimento e, quando Ikea affonda l’ago nel pube coperto dalla peluria scura, e arriva buco dopo buco a lacerargli lo scroto, questo si svuota. Samuele si caga addosso e sente il suo corpo svuotarsi della merda, del piscio e del sangue, direttamente nel buco del cesso sul quale siede. Il corpo è tappezzato dei biglietti pagati negli ultimi mesi, quelli per andare a Bologna che non butterà più. L’ultimo, quello del treno nove-sei-due-otto delle 23:45, cucito nel basso ventre. I due uomini mollano la presa di quello che ora sembra un sacco svuotato. Indietreggiano insieme a Ikea e alla Bruna per osservarlo meglio, vedere nell’insieme l’opera compiuta sul suo corpo, mentre l’intero vagone è scosso da un gorgheggiare che ribolle sotto i loro piedi. Samuele li vede sfocati, sorridono ancora di più e accolgono il capotreno voceregistrata nel loro cerchio. Accarezzano la testa unta di Samuele – sudore gusto tabacco Lucky Strike blu organic, sangue e carta estinta –, premono le dita nelle ferite aperte per fargli il solletico. Il gorgheggiare aumenta di tenore, e pare l’intera terra sia scossa da un terremoto, mentre il treno tira dritto. Dai cessi inizia a sgorgare acqua mista a feci e cordoni intestinali che si accumulano pesanti sul pavimento. Il vagone è un’onda di merda e viscere vive. Samuele si lascia avvolgere e trasportare da quel flusso caldo di autodigestione che lo solleva sempre più in alto; coperto dalla brodaglia che continua a traboccare dai cessi, gli pare di sfondare il tettuccio del treno e di volare.
Sto arrivando, pensa, Bologna è vicina, non c’è dubbio. Sorride e si sente molto meglio. Il treno va dove lui vuole andare.
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