testo e foto di Nicole Trevisan
Venezia-Marrakech, 0-2, la città non sogna.
Per prima cosa, K. ci informa che il Marocco si sta preparando per i Mondiali di calcio 2030. Costruiranno uno stadio da centoquindicimila posti a Benslimane, nuovi parchi pubblici nelle città e una linea dell’alta velocità che arriverà fino a Zagora, alle porte del deserto.
K. ama lo sport, soprattutto lo sci – primo momento di smarrimento: la prima persona che incontro a Marrakech è uno sciatore – e non si perde una partita del campionato di calcio. È fiero che il suo Paese stia investendo così tanto, farà bene alla gente, dice.
Siamo arrivati da appena un’ora. Marrakech è l’unica città imperiale che abbiamo programmato di visitare: tra due giorni partiremo verso sud, oltre l’Alto Atlante e l’Anti Atlante, fin quasi al confine con l’Algeria. È un itinerario battuto dai turisti on the road come noi, servito da strade comode e molto sicuro. Siamo qui per le vacanze ma non abbiamo alcuna voglia di riposare, vogliamo scendere di quattrocento chilometri verso l’equatore, assolarci i pensieri e lasciarci dietro un metro per volta le meccaniche quotidiane per addentrarci in un luogo inospitale, dove non cresce niente, eppure vivo.
Per seconda cosa, K. ci dice che non tutti i marocchini sono berberi. Hanno una loro lingua, un alfabeto, una cultura – sono uomini liberi. E le donne berbere non coprono il viso. K. guida attraverso la periferia, preferisce allungare la strada per mostrarci un po’ la città. Non c’è niente di quello che ci aspettavamo. Le palme sono coperte di polvere, ci sono dromedari legati all’ombra, cani liberi e un sole onnipresente che spappola le ossa. Pulsa da terra, nella Jāmaa el-Fnā, “l’assemblea dei morti”, una piazza impastata di odore di sterco di cavallo, sale e corpi. Ci sono scimmie vestite come vecchie bambole, strette al collo da una catenella di ferro, cobra e vipere arrotolate – secondo momento di smarrimento: provo pietà per i serpenti – e donne sedute su cassette di plastica che sperano di disegnare ghirigori sulle nostre mani infedeli. Suonano tamburi, ballano, vendono occhiali da sole, orologi, dentiere, succhi di frutta, pietre, foulard. Un paio di ragazze sono accovacciate a terra con un incarto di biscotti fatti in casa, li vendono con un bicchiere di tè alla menta. Saliamo su una terrazza, ci sono altri turisti, per lo più spagnoli e francesi, fotografiamo il tramonto sopra al chiasso ribollente della festa. Troviamo K. stravaccato su una sedia all’ingresso del caffè. Ci vede frastornati, ride, indica la gente che si ammassa tra le bancarelle, fiottando dalle strade intorno. Volete andare via? È solo l’inizio. La piazza non si addormenta prima delle tre del mattino.

La Marrakech che piace ai social, la Miami d’Africa tutta riad con piscina, viali eleganti ed edifici-gioiello piastrellati, è rimasta sconosciuta fino a poche ore prima del volo di ritorno, quando abbiamo deciso di visitare dei famosi giardini nei pressi di un altrettanto famoso museo dedicato a Yves Saint Laurent. I primi due giorni li abbiamo passati tra la Jāmaa el-Fnā, il suk e la moschea della Kutubyya, sotto al minareto che non ha una faccia uguale all’altra e che svetta come una candela sopra alla città. Marrakech è una città piatta. Ogni edificio è dipinto con un solo colore in sfumature diverse: terra rossa, ocra, argilla cotta. Anche gli edifici governativi, gli hotel e le ville che punteggiano i sobborghi ortogonali, pettinatissimi, affacciati sulle montagne dell’Atlante. L’impressione è che possa dilatarsi fino a divorare l’intera pianura. Da enormi cartelli pubblicitari scopriamo che bastano un paio di milioni di Dirham per procurarci una casa in uno dei quartieri chic. In quelli vecchi, la gente adatta sgabuzzini a negozi di vestiti, siede sulla soglia aspettando un motorino da riparare, allestisce una bancarella di frutta e uova fresche sul carretto; ci spiano, salutano: non li fotografiamo, ricambiamo i saluti. Ricordo la loro quiete nel fracasso intorno.
Quando cala il buio, le persone si riversano in strada e si sdraiano nei parchi, a gruppi o in coppia, e ci stupiscono per la disinvoltura nell’occupare rotonde e aiuole. Qualcuno apre un tavolo da picnic e raduna gli amici. La notte sembra infinita, insonne e viva come mai. Scopro che il terrore istintivo di essere sveglia mentre tutti dormono si è dissolto, voci sconosciute scacciano l’aura maledetta delle ore lunari e riesco a stare ad occhi aperti senza l’ansia di non riposare abbastanza – per fare che? Non c’è niente da fare, domani. Marrakech non ha voglia di sognare. Le persone parlano, si rilassano, fumano e ascoltano musica. Dalle mie parti lo chiamano degrado e urlano all’appropriazione degli spazi pubblici. Per loro è normale, è abitare la città.
Marrakech-Zagora, 2-3, ruscelli di sabbia
Molti ragazzi indossano magliette di squadre di calcio famose.
M. ci racconta di averne una collezione, anche se non ha mai giocato. Quella mattina ne ha una della nazionale brasiliana. Partiamo, entro sera arriveremo a Zagora, più di trecentocinquanta chilometri più a sud, ci accompagna lui.
La strada scavalla l’Alto Atlante, serpeggia fresca fuori dalle ultime tracce di Marrakech e sale nella quiete della montagna. Gli edifici si diradano, coagulandosi in villaggi minuscoli. Ciascuno ha un campo da calcio, segnato dalle due porte senza rete e nient’altro. Nel sud del Marocco, con l’eccezione di qualche complesso scolastico ben attrezzato, non si gioca su erba e il campo non ha perimetro. Capita di vederne nel mezzo del nulla, tra i fianchi nudi della montagna e avvallamenti disabitati. Mi domando il perché: chi mai andrebbe lassù per tirare quattro calci a un pallone che con ogni probabilità finirebbe in un dirupo? Non sembra esserci nessuno, l’altitudine ammorba l’udito e toglie il fiato. Perché no? risponde M. sorridendo. Capisco di non capire, forse di non saper capire: smarrimento numero tre: la sconfitta della logica.
Ait-Ben-Haddou è uno ksar, una città fortificata. Il terremoto del 2023 ha danneggiato una parte dei vecchi edifici, tradizionalmente costruiti in terra e mattoni di argilla, ed è abitata da poche famiglie; le altre si sono trasferite nel villaggio vicino, più moderno e più solido. Scendiamo nell’avvallo del fiume Ouarzazate e arriviamo ai piedi della collina. Era un punto strategico nella rotta trans-sahariana, dove si cambiavano i dromedari con i cavalli per procedere verso nord. Oggi è una meta turistica spesso usata come set cinematografico. Nolan ha lasciato un sacco di roba in giro, ci dice un ragazzo del posto, indicandoci la sommità della collina. Pare abbia rifiutato di girare alcune scene in studio (la vicina città di Ouarzazate ne conta almeno tre) e abbia preferito lo ksar, più autentico, nonché brulicante di comparse. Il ragazzo è gentile. Mi sfila il foulard, io mi irrigidisco; scuote la testa: è un berbero nomade, non un marocchino delle città imperiali, si difende; lui non chiede soldi. Come K., ci tiene a ribadire il concetto – sono uomini liberi. Mi acconcia il foulard in un tagelmust, il velo dei Tuareg. È così che si rendono felici i turisti.

Scendendo lungo la valle del Drâa, comincia a piovere. Il palmeto respira e ai lati della strada i bambini corrono fuori di casa per gettarsi nelle pozzanghere. Il terreno è argilloso, non assorbe niente e in pochi minuti la pioggia gonfia i letti di fiumi vuoti, che esistono solo qualche giorno l’anno e scolano a valle, passando accanto ai villaggi. Un anno fa, a causa di precipitazioni improvvise e intense, le inondazioni hanno devastato interi villaggi e ucciso una ventina di persone tra Errachidia, Tata e Zagora, dove siamo diretti. Anche in agosto, poche settimane fa, il maltempo ha provocato danni pesanti.
I bambini fanno galleggiare le ciabatte nell’acqua, si divertono, è ancora un gioco.

Continua a piovere.
Lo scroscio del temporale ci impedisce di uscire dalla stanza d’hotel. Che odore ha un temporale nel deserto? Provo a cercare una risposta, ma non mi viene. Mi rimprovero di non avere più una goccia di poesia in corpo, dovrei percepire un’immensità di stimoli da questo evento ma riesco solo a contare. A Zagora scendono sessantuno mm di pioggia l’anno: più o meno quanti ne sono scesi stasera in appena un’ora. Cosa sta succedendo a questa terra? La nostra parte sembra ridicola in questo processo di distruzione che sentiamo masticare intorno. Mangiamo parlando di disastri fluviali. Tengo da parte un po’ della cena per i gatti scheletrici che vivono nel cortile interno. I cani hanno detto di non toccarli, spesso sono malati di rabbia.
Zagora-Tamegroute, 3-3, argilla verde
Anche a Tamegroute, alle porte della scuola coranica, c’è un cane. Zoppo. Ci arranca rassegnato alle caviglie, innocuo, poi cambia idea e se ne va barcollando. Deve aver imparato a non oltrepassare quella porta. A noi è permesso e ci aggiriamo nella corte interna, sotto ai portici in ombra; possiamo entrare nella biblioteca ma non nella moschea, e mangiare un po’ di datteri dalle palme, se riusciamo a trovarne di maturi. Bussiamo tre volte alla porta sacra, dicono porti fortuna. Abbiamo sempre bisogno di fortuna.
All’esterno, un altro campetto di sabbia nuda. Una donna ha steso i panni sulla staccionata, siede sulla soglia e si copre la faccia, facendoci capire di non voler essere fotografata. Abbassiamo i cellulari, ci sentiamo colpevoli di rubare persino l’immagine, che ha un valore immenso e opposto tra loro e noi, che ne facciamo una prova esperienziale e delle differenze che ci separano – quanto sono poveri, quanto sono liberi; noi non potremmo mai vivere in quelle condizioni, dirà qualcuno, dando per scontato che loro invece possano, debbano, convertirsi naturalmente alle nostre vite. Il villaggio ha le strade in parte coperte da un solaio in legno che oscura il ghigno perenne del sole; è noto per la lavorazione della ceramica verde, comprese le tegole che placcano gli edifici religiosi. Superiamo stanze prive di porte con decine di vasi allineati contro le pareti. I forni sono all’esterno, in uno spiazzo di cocci e detriti. Questa è la sottrazione estrema, ci diciamo. Piedi nudi sull’argilla, la luce che passa da un solco sul muro e gli occhi gonfi di polvere. Il compito di matematica stropicciato, dimenticato. Nessuna ansia, non esistono sentimenti occidentali, sono preoccupazioni lussuose: il nostro veleno, distillato nei secoli dei secoli. Amen, Inshallah.
Il paesaggio riprende a scorrere oltre il finestrino. Compare qualche pastore in turbante e tunica azzurra. Se le persone vanno via, ci racconta M. guidando verso est, è perché non hanno più soldi, perché il palmeto non rende, perché muoiono gli animali; allora si spostano nelle grandi città, ad esempio a Casablanca, dove c’è più lavoro. Se non funziona, partono per l’Europa.
Il sogno di M., che ha un diploma universitario, è partire per Barcellona e laurearsi in ingegneria meccanica. Per ora, risparmia e ci accompagna nel deserto.

Tamegroute-Erfoud, 3-4, mezzaluna rossa
Fino ad ora abbiamo attraversato un deserto sassoso, brullo, punteggiato di acacie spinose e spesso cosparso di rifiuti, calpestati da capre, pecore e dromedari selvatici. L’Erg Chebbi, vicino a Merzouga, è una mezzaluna di deserto sabbioso di circa venticinque chilometri di lunghezza, larga diciassette nel punto più ampio, un gioiello di dune rosse incastrato poco lontano dal confine algerino. Ci arriviamo poco prima del tramonto. Le jeep che trasportano i turisti sono parcheggiate una accanto all’altra e i cammellieri ci aspettano avvolti nei tagelmust – nel Merzouga ha un senso che va oltre l’estetica turistica. Se si alza il vento, spiegano, devi coprire naso e bocca o respirerai sabbia.
Quando il dromedario si accuccia non fa rumore. È un animale cauto. Il mio aveva occhi d’argento e pupille da capra. Ricordo il silenzio. Di averlo ascoltato pensando all’estensione del mondo e alla fiducia nel non poterlo capire e nemmeno spiegare. Ricordo il vento. Sapevo che avrei scritto del Marocco e che non sarebbe servito a niente. Quello che scrivo non è necessario. Pesa, come pesiamo tutti noi, su un mondo che sta collassando e che sovraccarichiamo di bisogni, sempre nuovi, sempre complessi. Anche la scrittura è un bisogno. Anche viaggiare per cercare questa esatta, stupenda sensazione di annullamento. Ho chiuso gli occhi. Nel deserto l’essere umano è scenografia.

La sera, chiacchieriamo stravaccati tra divanetti e bicchierini di tè. Sciolto il velo indaco, torniamo nei nostri panni occidentali. Secondo M. l’Italia non è morta come pensiamo. La sua opinione, forse addolcita dal nostro essere italiani, dunque amici, è che sapremo salvarci perché siamo un popolo del Mediterraneo, resistente agli urti, alle tragedie. Sembra crederci davvero, che sia questo a renderci diversi. Siamo un popolo vecchio, gli diciamo, non abbiamo le forze per una rivoluzione, quasi mancano le idee e la cosa più sovversiva che riusciamo a inventarci è di tornare indietro di sessant’anni. L’Africa è il futuro, diciamo. Nonostante tutto quello che vi abbiamo fatto, pensiamo. E che continuiamo a fare, forse non come nazioni, ma come sistema capitalista.
Gran parte delle miniere africane sono gestite da aziende straniere, soprattutto cinesi, che sfruttano i lavoratori impiegati nell’estrazione di cobalto, rame e litio (fondamentale per produrre auto elettriche, un mercato in cui Cina è più che un’eccellenza).
In Marocco, sembra, sono ancora gestite da società locali.
Erfoud-Alnif, 4-4, un mare coperto di polvere
“Dicevano che il deserto una volta era un grande mare, ma quanto sarebbe stato bello se lo fosse stato anche adesso. C’era la strada per Alnif, eppure non era una strada, bensì uno sfregio superficiale del suolo. Ci sfilavano le jeep che trasportavano i trilobiti e gli uomini in cammino con le greggi, come smarriti.” (L.Osborne, Nella polvere, Adephi, 2021).
Il romanzo di Osborne è ambientato in un antico villaggio marocchino, acquistato da una coppia di cinquantenni gay che ogni anno vi invitano decine di ospiti facoltosi per un weekend di festeggiamenti; sulla strada per raggiungerlo, David e Jo investono un giovane cercatore di fossili del posto, uccidendolo. È un romanzo sulle possibilità della giustizia e del perdono, che indugia sul paesaggio corroso dalla polvere e dall’estrazione di fossili. Lo sguardo colonialista espone la sua prospettiva contrastando il campo lungo, sfocato, dell’occhio di chi vive ai piedi dell’Atlante. Se anni fa non avessi letto questo libro, la presenza ossessiva di bancarelle di geoidi e fossili a Erfoud sarebbe rimasto un dettaglio di colore. Qui (e nella zona di Rissani, Alnif e Merzouga) non si estrae né rame né argento, ma fossili marini, i resti del grande oceano che copriva il Sahara marocchino milioni di anni fa. Vengono scavati a mano e venduti nelle bancarelle lungo la strada, sotto a una tenda strappata, fuori dai ristoranti. Denti di squalo, ammoniti, trilobiti, laste di marmo nero fossilifero sagomate per diventare soprammobili, ma anche tavoli, lavandini e steli decorative che i commercianti si offrono di spedire in ogni parte del mondo. La pietra è splendida, il nero è frammentato da minuscole tracce di fauna marina immortalata nel suo scheletro, lampi di bianco preistorico che intrattengono nella noia da salotto.
Immagino di acquistare uno di quei lavandini e di sputare dentifricio su una conchiglia fossile tre volte al giorno.

Ci spostiamo verso Alnif. Lungo la strada, cartelli scritti a mano per segnalare magazzini pieni di trilobiti e manufatti di marmo nero. Intorno, le montagne e il deserto sono così immensi che riducono gli affondi del piccone a un graffio. Su questa terra non può crescere niente, c’è solo il passato, sotto metri di pietra rossa e polvere.
Tinghir-Boumalne, 4-5, honey leaves scars
Saliamo a Tinghir. Poco fuori città, sotto alle rovine di una vecchia kasbah, c’è un palmeto dove abbiamo programmato un’escursione. Si scende dalla strada per raggiungere un sentiero che attraversa l’oasi e si prosegue per un breve tratto in salita, tra le rocce nude della montagna; seguendo il sentiero, che si addolcisce tra le pareti di pietra rossa, si torna al livello della strada.
Quando pensiamo a un’oasi, riemerge dalla memoria la lezione delle elementari in cui ci veniva presentata come una sorta di isola verde nel mezzo del deserto, con una pozza d’acqua e un paio di palme che spuntavano dalla sabbia. Camminandoci dentro, scopriamo che è un ecosistema vasto, complesso, che le tribù della zona sanno sfruttare per il benessere del villaggio. L’oasi contiene tre livelli: il più alto è occupato dalle palme da dattero, il medio dagli alberi di fico, olivo e melograno, il più basso dal mais, dall’erba medica, l’hennè e da tutte le piante da orto. Non ci sono dromedari, ma asini, usati per il trasporto del raccolto e degli attrezzi. Niente macchine, si fa tutto a mano o con l’aiuto degli animali. Incontriamo diverse persone al lavoro per dissodare la terra, piantare e raccogliere verdure. Qualcuno brontola, incrociandoci sul sentiero, ma non perdono tempo con noi. Parlano in berbero, in un dialetto che non saprei nominare tra i tanti della regione, un suono molto diverso dall’arabo. Ticchetta sulla lingua e si presta a giochi di parole: l’uomo che ci accompagna prova a tradurci qualcosa dal francese, a insegnarci qualche parola, col risultato che cominciamo tutti a ridere. Gli chiedo di consigliarmi della musica berbera e dal cellulare fa partire un video youtube dei Tinariwen, un gruppo di Tuareg originari del Mali che cantano in Tamasheq, la loro lingua. Alza il volume e finiamo l’escursione tra fiotti di blues psichedelico. Lui balla e canticchia felice. Mi consiglia di andarli a sentire; sono molto famosi, suonano spesso in Europa, dice.
Poco dopo, scopro che i membri fondatori del gruppo erano Tuareg rifugiati o ex-combattenti, cresciuti durante le ribellioni contro i governi di Mali e Niger. Uno di loro, da bambino, ha perso il padre, giustiziato dal governo maliano. Alcuni vivono in esilio e sono stati minacciati dagli estremisti islamici.

Ci spostiamo alle gole di Todra, tappa imperdibile per via del canyon che il fiume ha scavato tra le montagne. Incontriamo centinaia di turisti, scesi da auto e pullman per seguire il corso del Todra, gorgogliante per le ultime piogge. Si infila in un passaggio stretto, tra pareti di roccia alte fino a centosessanta metri che eccitano gli alpinisti di tutto il mondo. Non ne vediamo nessuno, ma è ancora troppo caldo per gli sportivi. Qualche turista cammina nell’acqua bassa fino al centro del fiume. Dal lato opposto, una successione di bancarelle che vendono tuniche tradizionali marocchine e veli per il tagelmust. Quando ci avviciniamo al punto più stretto della gola, troviamo le rovine di un ristorante, devastato da una frana o forse dall’ultimo terremoto (settembre 2023). Sul muro, le date di apertura della struttura dipinte in bianco e una frase d’amore in nero, scritta con una bomboletta: honey leaves scars. Poco distante c’è un gregge di capre al pascolo. Ci ignorano, impassibili, col muso chino nell’acqua bassa, come ignorano la tragedia d’amore di una mano sconosciuta.

Boumalne-Ouarzazate, 5-6, casa loro
Torniamo verso nord attraversando la valle delle rose, tra il fiume Dades e le montagne dell’Atlante. A Kelaât M’Gouna i negozi accostano ai geoidi e ai fossili file di saponette, creme, maschere e profumi a base di rosa damascena. È stata portata secoli fa dai pellegrini di ritorno dalla Mecca e piantata intorno agli orti per tenere lontani gli animali selvatici con le sue spine; quando i francesi sono arrivati in Marocco, hanno cominciato a usarla per produrre cosmetici. Adesso la popolazione ne ha fatto un elemento identitario e a maggio la valle si colora di bianco e di rosa, si celebrano feste, si disseminano petali sui vestiti.
Il verde torna un colore persistente e capiamo che stiamo cominciando ad abbandonare il deserto e che il viaggio si sta per concludere. Ci inseguirà ancora qualche centinaio di chilometri, soffiando polvere sulle strade.

Ci fermiamo a Ouarzazate per visitare la kasbah di Taourirt, in ristrutturazione in quanto vittima, come il ristorante di ieri, del terremoto. È coperta di intonaco impastato con terra argillosa e paglia, che quando si asciuga passa dal bruno a un caldo ocra, lo stesso della terra, delle strade, di tutte le case. La città è cresciuta molto negli ultimi dieci anni, complici gli investimenti immobiliari delle tante persone che lavorano all’estero e costruiscono nuove abitazioni per le famiglie. Le completano un poco per volta, quando riescono a mettere da parte abbastanza: a molti edifici mancano le finestre, i pavimenti, il piano superiore.
Accanto all’hotel, l’ennesima cattedrale turistica attrezzata per accogliere centinaia di persone e occupata da appena trenta ospiti, c’è una scuola elementare. Gli schiamazzi proseguono fino alle diciannove; quando una di noi esce per andare a correre viene guardata come un’aliena da un bambino in bicicletta. L’ossessione per il corpo sta risparmiando queste persone, per cultura, per religione, per estromissione (momentanea) dal culto estetico fomentato dal sistema economico. Il calcio è una faccenda diversa, ha ancora a che fare con il gioco e con lo sport – slegato dall’immagine di corpi tonici e belli – e resta onnipresente. Poco lontano dalla scuola, un gruppo di ragazzi tira a raffica in una delle porte vuote del campetto di terra brulla.
Ouarzazate-Marrakech, 6-8, decollo.
Gli ultimi due giorni a Marrakech servono a riposare e a scoprire il suo risvolto glamour, tra locali barocchi, hammam, cocktail troppo cari e un altro genere di turismo, asiatico e bianco, molto alla moda. L’impressione che il viaggio sia finito si concretizza quando togliamo le scarpe da trekking e cerchiamo di svuotarle dalla sabbia. Intorno a noi parlano ancora francese o arabo, continuiamo a mangiare tajine, ma sentiamo di essere di nuovo molto vicini a casa.
Qui, il caldo è meno sopportabile, più umido. Nel suk penso di svenire e il sudore mi cola lungo la schiena e le gambe, mentre la gente si muove, traffica con galline vive, henné, datteri. Mi volto quando una vecchia alta quanto un bambino mi passa accanto. Ha un bastone e vestiti rosa e arancio; in faccia, tre tatuaggi sbiaditi: fronte, naso, mento – il segno dei berberi del Rif, delle montagne a nord. Ho voglia di andare a nord, dico ridendo, un po’ disidratata. Non ne ho abbastanza di questo Paese e nemmeno gli altri.
Vogliamo continuare a camminare nella polvere.
Ultimo momento di smarrimento: continuo a contare i campi da calcio. Quando l’aereo si gira per uscire dal terminal e raggiungere la pista ne conto tre; uno, dentro a una zona militare, circondata da filo spinato.
Marrakech-Venezia, fischio finale. A porta vuota.
Prima di salutarci, ho chiesto anche a M. che musica ascoltasse e lui, con le sue magliette in acetato, le scarpe Nike e moltissimi anelli alle dita, quasi imbarazzato, ha risposto: «Hip hop?»
Come se non esistesse altro. Ci ha consigliato El Grande Toto, un rapper del ‘96, laureato in economia, da venti milioni di visualizzazioni su YouTube. Le sue canzoni parlano di vita urbana, soldi, droga, rivincita. Non nasconde di fare uso di hashish e l’ex primo ministro del Marocco si è scomodato per definirlo salakoud, feccia. Secondo i conservatori, infatti, la sua musica attaccherebbe i valori morali. Di questo non parliamo con M., che ci promette un weekend a Barcellona. Presto lascerà la famiglia, gli amici, la ragazza e il deserto che riempie le sue storie sui social e quando arriverà non sarà M., non subito: prima, e per molto tempo, sarà solo un immigrato.
La sua generazione, però, potrebbe cambiare il Marocco. Da sabato 27 settembre ci sono proteste ovunque. Sono nate per iniziativa di un gruppo di giovani, GEN212 (212 è il prefisso internazionale del Marocco), che si è organizzato su TikTok e Discord per manifestare contro le spese pubbliche dedicate alle infrastrutture per i Mondiali 2030, anziché all’istruzione e alla sanità. Almeno cinque miliardi di euro, mentre i bambini vanno a scuola a turno per sovraffollamento e nell’ospedale di Agadir in una settimana sono morte otto donne nel reparto di ostetricia: questo è stato l’episodio che ha innescato le manifestazioni, da Agadir stessa a Casablanca, Rabat, Tiznit, Oujda, al confine con l’Algeria. Non solo le città, ma anche i villaggi rurali sono stati occupati dalle più grandi proteste negli ultimi quindici anni. Pacifiche, eccetto qualche episodio di violenza, che difficilmente giustifica l’arresto di più di mille persone e l’uccisione da parte della polizia di due (forse tre) manifestanti. Hanno sparato perché avrebbero cercato di impossessarsi di armi e munizioni, ma i testimoni contrastano questa versione. GEN212 ha chiesto al re di sciogliere il governo di Aziz Akhannouch, ma non ha preso alcuna posizione. Il primo ministro si dice disposto al dialogo. Se non sarà così, è probabile che le proteste continueranno.
Le ragazze e i ragazzi che riempiono le piazze marocchine, come in Nepal, vogliono vivere in una società che crede nella sua gente e chiedono investimenti in scuole e ospedali, che il governo combatta la corruzione e la disoccupazione, che tra i giovani supera il 35%. Tra i laureati è del 19% e capisco perché M. e tanti altri sperano di partire. E poi tornare, forse, quando sarà cambiato qualcosa. Come i loro padri, le zie, i fratelli e le sorelle; come fanno da decenni.
O forse no. Forse riusciranno a cambiare tutto, a fare la rivoluzione prima che si giochi l’ultima partita e il pallone voli oltre confine, impigliato all’orizzonte di un palmeto nero, sopra i fossili addormentati, per atterrare nella sabbia. In una porta senza reti.
Per il futuro.

Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso e mariel.
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