di Modesta Raimondi
copertina di Josephine Tomarchio
La mia casa ha spazi ampi e insieme angusti.
La mia casa è il luogo della quiete e della guerra.
Quando rientro mi acquieta e mi sconquassa.
Nella casa abitano tutti i miei limiti e vi svolazzano dentro le parole, sempre le stesse, quelle che mi hanno fatto diventare ciò che sono: una donna che si guarda dall’esterno e si compiange, si arrabbia, si chiude, e sperimenta di continuo il suo senso di impotenza.
Quell’impotenza che è alla base di ogni ripiegamento, ogni rinuncia, e che nasce da un vissuto profondo, che negli anni ho analizzato e che è inutile riguardare.
Come tutti ho una famiglia alle spalle, rapporti amorevoli eppure difficili. Le parole che vi hanno abitato dentro sono diverse da quelle che aleggiano oggi tra le mie pareti, eppure vi assomigliano.
Lo sgomento di mia madre, le paure di mio padre, quelle cose rotte che mai venivano aggiustate, e quella mancanza di presa sul reale che mi è rimasta dentro, e che fa di me quella che sono.
La mia casa ha grandi spazi che io abito per la maggior parte del tempo. Al suo interno non trovo pace e non ho una stanza tutta per me.
La mia casa mi chiama e mi asserve, mi riduce a poca cosa mentre mi protegge. Mi toglie il diritto al pianto e mi rende inquieta. Sogno una pace che non riesco a trovare. Sogno un silenzio che una volta trovato mi spaventa.
In quel silenzio ogni cosa mi viene addosso, e così sono costretta a scegliere il frastuono, il movimento, quelle faccende domestiche dentro cui le ore passano, senza che io me ne renda conto.
La mia casa ha spazi ampi e insieme angusti, ha un disordine degli oggetti da cui non riesco a prescindere, perché da sempre condizionano il mio umore. È un disordine di cui parlo di continuo, e che fa di me quello che sono.
La mia casa mi impegna e mi fa sognare sogni che restano irrealizzati. Immagino nuovi spazi che cambierebbero le cose, ma di continuo sperimento la mia impotenza, che mi rende dipendente e nervosa. Nella mia casa ci sono specchi, che restituiscono l’immagine di ciò che sono diventata.
L’immagine che conta è quella che vedo con maggiore frequenza, e così mi resta addosso. Anche quando esco con la gente e vado ad una festa.
Io sono quel che sono e sono quella.
Sono una donna mal vestita dentro una casa.
Nessuno vede cosa sono veramente. Perfino io non riesco più a vederlo. E questo impedisce l’incontro autentico che segue ad ogni riconoscimento.
Mi si valuta pesando dati che non hanno a che fare con me stessa: il volto fine, gli abiti abbinati, il trucco, il sorriso. Un’amica ha parlato di personalità ben strutturata; un conoscente di un carattere che, come l’acqua, prende la forma del luogo in cui si trova. “La tua non è inconsistenza”, si giustificava. “È adattabilità. È importante”. “Sei inutile e dilettevole”, mi hanno ripetuto per anni. “Sei come la donna con la faccia da stronza, quella che si muove nel traffico, con il suo golf color canna di fucile metallizzato”.
Intanto io mi sono nascosta e non so bene dove.
Non mi trovo più neanche io.
Con gli anni e la vita, molte parole importanti si sono svuotate, e con i corpi sgombri faccio fatica a condividere un linguaggio.
La prima a perdere senso è stata la parola “amicizia”. Ho finito col credere a chi mi stava accanto e ripeteva che essa non esiste. “Non alla nostra età”, diceva. Ma io ne sentivo il richiamo ed il rimpianto, ne avvertivo la nostalgia ed il bisogno. Mi si stagliava davanti come un pezzo mancante e luminoso. Un cartello sospeso che ricordava la strada.
Nonostante ciò l’ho messa da parte per lungo tempo.
Il processo è cominciato durante un piccolo comizio, quando il politico di turno chiamava “amici” tutti coloro che lo ascoltavano in platea.
Alla fine del discorso protestai. Ero dentro un luogo che non corrispondeva alle mie esperienze.
Mi venne poi spiegato che amicizia è propensione, benevolenza, apertura all’altro e all’ascolto. L’intimità non c’entra nulla e forse addirittura non esiste.
“L’intimità è solo la famiglia. Poco altro”.
Continuai a protestare. Non riuscivo ad essere d’accordo con questa visione delle cose. Ma con gli anni, lentamente, anche io iniziai a chiamare amici coloro verso cui provavo simpatia e benevolenza. Non senza fatica, lo confesso.
Ho barattato un valore con il conformismo.
Ma ho vissuto troppa bellezza e intimità perché questa, che considero un’involuzione, possa consumarsi fino in fondo.
La giovinezza va goduta pienamente affinché il corpo acquisisca, poi e per sempre, la capacità di distinguere i sentimenti.
Ho amato le mie compagne così profondamente, ho aperto così tanto il mio cuore e ospitato il loro, da non poter essere confusa su questo argomento.
Nonostante ciò la casa e la bestia che vi abita mi hanno disillusa. Così ho smesso di cercare. Ho utilizzato un linguaggio condiviso senza smettere di provare malessere.
Oggi so bene di cosa si tratta.
So che la compagnia non è amicizia, anche se può far bene e male allo stesso modo.
La compagnia offre spunti e confronti. Regala suggestioni senza chiarimenti. Ogni cosa ti torna dentro rielaborata attraverso il tuo solitario sentire.
Il confronto è leggero ed imperfetto. E ancora mi domando se sia solo io ad avere bisogno di qualcosa in più.
Poi il lockdown che ha fatto seguito alla pandemia mi ha fatto ritrovare l’amicizia. Grazie alla zona rossa sono stata accanto a chi mi ha ricordato cosa fosse stare insieme per davvero, e quanto nutrimento potesse regalare al mio cuore vuoto.
Bisogna che smetta di obbedire e ricominci con quella rivolta costante che mi teneva in vita da ragazzina, quando ero un’adolescente inquieta e ribelle, che difendeva il suo pensiero e le sue scelte.
Non assomigliavo a nessuno. E quando ho trovato un clan di affini me ne sono allontanata.
Il gruppo condivide opinioni, spesso quelle di un capo. A ragionare sovente è uno solo. E io alle regole non ci sono mai stata. Ancor oggi difendo il mio diritto al dubbio con le unghie e con i denti.
Quando avevo un padre lo rifiutavo. Oggi che lui non c’è, offro il ruolo di guida a chi sa consolarmi come si fa con una bambina.
Mi sento male in qualunque luogo d’incontro e sto peggio se esso è amichevole. Con quell’amicizia allegra io non c’entro nulla. Ma ho imparato a fingere e recitare. Ho imparato a nascondere quella parte vera per cui non esiste una casa.
La mia casa oggi è solo questa. Questo luogo poco luminoso che ordino di continuo. Così come ordino i pensieri e le paure che mi schiacciano ad ogni risveglio e si trasformano in un’onda che mi tiene senza fiato. È come se ospitassi in salotto una bestia esigente a cui devo dare cibo affinché stia buona. Sogno di vederla appisolarsi nel mio prato, dimentica di me e della sua fame del mio corpo.
Ma è sempre lì.
Per nutrirla ho inventato un metodo.
Tento una riduzione del danno e del dolore che mi provocano i suoi morsi.
So che dovrei toglierle spazio, cibo e cure per spingerla a abitare altrove. Ma essa è stabile ormai da anni e fa della mia carne ciò che crede.
La nutro al risveglio del mattino. Le dò poco. Ma lei presto mi chiama mentre sono impegnata a fare altro.
Con lei divento un ruminante con scarso controllo dei pensieri. Lei questo lo sa. Ed è perciò che resta.
In pandemia, quando il mondo è stato fermo, lei pure si è fermata. Mentre le città erano chiuse la sua potenza si è ridotta. Essa si nutre del mio disagio. Della mia tendenza a paragonarmi fa il suo terreno di caccia.
Così quando il mondo si è fermato essa pure si è placata.
Restavano il cielo, la primavera, i fiori. Restava una paura collettiva che ci faceva fratelli. Era una paura con cui io avevo familiarità, a differenza di altri.
Tengo a bada l’angoscia ogni mattina. Temo il futuro con il palpito di chi si sente appesa a un filo. So cosa significhi la solitudine, l’irrilevanza, la riduzione del proprio essere al rango di molecola. Non mi sono estranei i pensieri sulla morte, e possiedo uno sguardo largo, così da apparire distante e riservata, indifferente e viziata.
La realtà è che quella mancanza di presa sul reale, che ho imparato in famiglia, resta stabile dentro di me. Mi limito ad osservare il mondo come farebbe un forestiero, che guarda i profili altrui restando estraneo alla loro lotta. Ho un posto caldo a cui tornare. Ho un grande amore.
Per questo nei mesi in cui il mondo si è chiuso sono stata più brava di altri.
La bestia che vive in salotto prende forza dal sentirmi sola. Così quando tutti erano soli, lei è diventata piccola e trasparente. Si è acquietata. E qualcosa di diverso ha preso a vivere nella mia anima. La forza di chi è abituato al confinamento. Gli altri faticavano? Io già sapevo farlo.
Le guerre appassionano l’immaginazione degli uomini, che vogliono mettere in campo una forza che si misura con il corpo e con le mani. Nella guerra si è fratelli, il nemico è condiviso, e forse gli spettri possono essere messi da parte.
Gli uomini e le donne hanno bisogno delle guerre. A loro servono i nemici ed i confini. Serve la divisione manichea tra bene e male. La complessità è faticosa da gestire: la si azzera, non intuendone la portata.
Io no. Io con la complessità del mondo ci faccio i conti ogni momento. E questo mi isola.
La mia mente dubita e io difendo il suo diritto a dubitare. È un fatto che mi toglie forma e mi rende preda dei mostri e della bestia. Avere anche io una forma, una personalità ben definita, sarebbe più facile.
Guardo intorno a me.
Ognuno costruisce la sua casa collettiva. Uno, due o tre luoghi da condividere con altri: l’ufficio, i centri del convivio, gli appartamenti, gli ombrelloni, angoli qualunque che custodiscono segreti e risate.
I luoghi poi si trasformano, diventano immateriali, e seguono le persone ovunque esse si trovino.
L’intimità, ad esempio, è un luogo. Ed è visibile in mezzo alla gente. Quando due amiche si guardano e si intendono, esse abitano uno spazio inaccessibile agli altri. È uno spazio mobile che si portano dietro, senza farci caso. O forse è lo spazio che le segue e le lega. Sono loro. Sono due. Ed emanano luce.
Accade anche con i gruppi, portano la loro casa insieme ai loro passi. Lacci magici che rendono stuzzicante il mondo.
Io invece resto sola, con i miei falsi diritti intatti. Ne sarà valsa la pena?
Quella della libertà e del diritto al dubbio è una scemenza. È la scusa di chi nasce gregario e informe, e per tenersi in piedi è costretto a stare a distanza se non vuol essere sbranato.
Gli individui senza personalità che hanno una bestia in salotto, quelli che non parlano perché sanno che saranno contraddetti, per rimanere sé stessi hanno bisogno di stare soli. La compagnia a cui devono sorridere di continuo, decreta la morte del bambino interiore, rinnegato perché poco conforme.
Era questo quello che pensavo prima di avere ritrovato l’amicizia.
È questo che faccio quando abito luoghi in cui non posso permettermi una personalità.
So di essere strana e poca cosa, so che parlando finirei con l’essere messa da parte. Così sorrido e annuisco.
La personalità può mostrarla chi ha basi forti e molto carisma. Io sopravvivo solo se accetto di essere nulla.
Nelle vacanze di gruppo al mare ho provato vergogna. Voglio che solo i miei gesti parlino per me, e non le gesta eroiche di chi mi sta accanto. I rumorosi tuffi in piscina, le voci alte che disturbano il vicino, i corpi dei meno numerosi che lentamente arretrano di fronte a questa comitiva caciarona.
Le ho fatte e poi le ho rifiutate.
Eppure quando sono sola guardo ai gruppi come ad una forza. Vorrei esserci dentro ed avere un ruolo al loro interno. Sogno delle amiche con cui ridere mentre i mariti sono di là a chiacchierare. Invece sono sola. So di sceglierlo ogni giorno e di padroneggiare bene le tecniche di sottrazione.
Difendere il diritto a dubitare mi porta anche a questo. Ad un pensiero divergente e laterale che non sa neanche come esprimersi. Resta sospeso sulle teste della gente. Popola il cielo di nuvole parlanti, come quelle dei fumetti. Nuvole con le bolle che partono dal volto di chi pensa, proprio per distinguerle da quelle di chi invece parla.
Sono silenziosa, eppure piena di nuvole che popolano il mio cielo.
Nuvole che giudicano e soppesano, che paragonano e desiderano. Nuvole che portano pensieri a cui è chiaro che manca una via d’uscita.
Ogni tanto dico qualcosa ma nessuno mi sente. Cosi ritorno al pensiero solitario, spesso vano a volte intero, mai descritto e messo in forma. Un pensiero che in qualche modo condivido con la bestia.
La bestia è in casa e resta nei paraggi. La sento alle spalle ma più di tutto nella testa. Ha sempre fame e mi chiede di mangiare. Mi toglie forze e mi ordina gesti che non posso tollerare.
Se non la nutro resto ferma sul divano, dove ogni cosa mi cade addosso con grande forza. Devo camminare, stare in movimento per farla tacere. Ma per farlo occorre cibo e non posso fare a meno di nutrirla.
Essa commenta con sarcasmo ogni mio gesto o parola. Mi guarda con compassione nelle giornate buone.
Nelle parole scritte non sa togliermi la forza. Ma in quelle dette le cose sono assai diverse.
Mi induce a dimenticare i vocaboli che servono per comporre un buon discorso. Scordo i nomi, le frasi, e tutte le cose che ho studiato poco prima. Mi convince a chiedere sempre scusa ed a sorridere timidamente dopo aver detto qualunque cosa.
Mi fa impacciata e barcollante, così nulla di ciò che dico esprime sicurezza.
Dunque resto ai margini, dove abito con lei, da sola.
Io e lei siamo strette da tempo.
Lei è il mio capo. Devo ancora imparare a dominarla.
So che se ci riuscissi costruirei una strada attraverso cui la mia forza saprebbe ritornare.
Ma non so farlo.
«Sei troppo vecchia», mi sussurra all’orecchio. «Resta con me. In fondo abbiamo trovato un equilibrio. Senti che dolcezza il tepore della pancia piena e delle membra stanche? Senti come scorre il piacere di giornate tutte uguali, che non ti allietano ma neanche ti gettano per strada, così come ti accadeva da ragazzina? Hai un’immagine e un decoro adatti alla tua età. Coltiva quelli. Tutto il resto lascialo in pasto a me. In fondo ti faccio compagnia con quella tv accesa e il tuo corpo sul divano. Non lottare. Resta. Ormai il grosso è passato, la vita è andata. Ti rimane quel poco di conformismo che solo io posso darti. Dormi e cucina, metti in ordine le cose ed i pensieri. Fa che questi siano pochi. La gestione della casa in questo può aiutarti».
Quando sono in pace ascolto e sorrido. Rido con familiari che non ricambiano i miei sorrisi. Cerco conversazioni a cui nessuno risponde. Lo spazio si stringe e il respiro si fa corto.
Nel profondo del mio cuore, nascosto in uno degli angoli più luminosi della coscienza, sento la voce di mia madre che ripete: «Ricomincia!».
Con il tempo e gli anni le cose non sono migliorate. Resto la stessa bambina che temeva le ombre. Resto l’adolescente seduta al banco in terza fila che sognava di possedere la stessa imperturbabilità degli dei greci.
So di essere socialmente esclusa e questo condiziona tutto. Fa di me quello che sono, dissolvendo ciò che ero.
Non esiste altro luogo che questo per me. Non esiste altro che una cucina, un tavolo, un divano, un letto da rifare su cui non trovo pace.
Io sono la cucina, il tavolo, il divano. La mia casa sono io. E questi sono i miei pensieri.
In questa casa ho vissuto giorni d’amore e credo che qui sia stato concepito il mio primo figlio. Era un pomeriggio di maggio e ci amammo di corsa, nel letto in cui lui dormiva da che era un ragazzino. Eravamo invitati ad un matrimonio e tra la chiesa e la sala passammo di qui a prendere qualcosa. Avevamo già deciso di sposarci e così ci lasciammo andare, nella speranza che un bambino arrivasse presto e fosse all’altezza del nostro amore.
Io già lo sognavo e ne immaginavo il volto, l’indole, lo sguardo che speravo assomigliassero in tutto a lui. Sentivo che si faceva largo nel mio corpo ancora prima del suo arrivo, coì ne parlavo e lottavo affinché anche lui condividesse il mio desiderio.
Questa casa mi ha riconciliato col Natale, che mai avevo amato, e mi ha fatto sentire protetta, mentre mi introducevo in una nuova famiglia.
Un tempo ci entravo e ci uscivo, mentre intanto vivevo. Oggi ci sono prigioniera. Prigioniera delle mie pause, delle mie scelte, della mia mancanza di speranza che sempre ha condizionato i miei passi.
In questa casa ho coccolato i miei figli, ospitato la famiglia e gli amici, che lentamente si sono ridotti. Ricordo le tavolate e i plaid sui corpi anziani che riposavano dopo i pasti. Il telecomando che diventava un segno di ospitalità e che faceva la differenza. Gli oggetti della casa sono simboli e aprono o chiudono le porte alle relazioni. Le condizionano.
Qui tutti sono stati bene. Ma questa è una tradizione che parte da lontano.
Siamo la seconda famiglia che vi risiede e la prima, quella di mio marito, si è sempre distinta per il gran numero di invitati, per il continuo andirivieni e le tavole, interminabili e caciarone, di rado turbolente.
Le turbolenze arrivavano quando si era in pochi, perché è la famiglia stretta, da sempre, il luogo più difficile. In quelle tavole a sei si sono consumate liti violente, si sono costruite personalità, ci si è riparati dall’autorità con l’obbedienza, la fuga o il dissenso.
Anche nella casa che ho abitato prima di questa la tavola ha definito ogni cosa. La tavola, la cucina, le voci alte ed il silenzio. Quelle tensioni che ci riempivano di spavento e quella voglia furiosa di essere altro da ciò che vedevamo ogni giorno: il primo dei desideri che non si è realizzato.
Mi domando dove inizi e dove termini una casa. E quanta casa si porta dentro chi si muove per lavoro o per piacere. Immagino i viaggiatori come individui dai confini elastici, che modificano di continuo il loro perimetro. Gente adattabile e leggera, che viaggia con bagaglio lieve e ha una testa che pesa meno sul corpo.
La nostra casa comincia dal desiderio, quando viene esaudito o soffocato. Continua con la forza d’animo e la volontà, con la capacità di realizzare i sogni.
Non ne siamo capaci? La casa ci consolerà tenendoci zitti e buoni. Sappiamo spiegare le ali? Essa avrà pareti solide impermeabili all’esterno.
La mia casa è fragile eppure sta sempre in piedi. Si muove nel disordine degli oggetti, che tento invano di ordinare. I pensieri che vi abitano la stringono e non sanno dilatarla. Il mio sguardo perde di continuo l’altezza e la distanza.
Il bisogno di pulire insito in molte donne, l’intolleranza al caos e alla sporcizia, non è altro che bisogno di sgombrarsi dentro, di trovare un luogo puro e ampio da cui saper ripartire. Come la vetta più alta di un monte da cui sporgersi per guardare un orizzonte nitido e chiaro, che ci regali un respiro profondo e ci consenta il riconoscimento.
È un punto di equilibrio difficile da trovare perché altri pongono oggetti inutili sui nostri passi. Oggetti in cui inciampiamo, rallentando di continuo il cammino. Quegli oggetti che sono il disordine dei figli quando siamo in casa e che assomigliano agli sguardi della gente quando la casa è quell’immagine di noi che ci portiamo dietro.
Restiamo quelle donne che rassettando incontrano gli specchi: una pinza nei capelli, uno spuntino fuori orario, quel frigo che, come una droga a buon mercato, riempie il nostro corpo acquietando la mente.
Gli sguardi della gente su di noi, che poi sono i nostri sguardi su di loro, la continua misurazione di ciò che siamo e quanto valiamo.
Quella casa interiore che segna distanze e ci fa distanti, impedendo ad ognuno di capire ciò che siamo.
Nel bel mezzo di una festa, la gente parla, si abbraccia, si sorride e a noi sembra di vedere tutto ciò che non siamo e non abbiamo. La casa in cui trascorriamo la maggior parte del tempo ci resta addosso, e sappiamo di valere poco di fronte al resto del mondo che di luoghi in cui muoversi ne ha ben altri.
Restiamo quelle donne in guerra con sé stesse che stanno tra le mura. Quelle che nessuno vede e che per nessuno contano.
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Bello. E’ un monologo interiore di straordinaria densità, un flusso di coscienza che usa la “casa” come una potente metafora dell’identità, della depressione e della sua resistenza silenziosa.
Conosco bene la bestia, ci convivo tutti i giorni. Da anni.