di Angela Angelastro
copertina di Josephine Tomarchio
Quelle labbra sono le più appaganti che io abbia ritoccato negli ultimi mesi.
Angelica. Smaniose, le labbra di Angelica mi vengono incontro, mi girano intorno, si fermano morbide a una spanna dal mio orecchio. «Mi chiamo Angelica». Lo fanno come si fa con uno qualunque, gli getti l’esca del nome. Chiamarsi per nome rende tutto un po’ meno squallido, un po’ più intimo. Qualunque cosa venga dalla bocca è intima, sarà per l’umidità sottile o per il sangue che scorre appena sotto i sapori. E pensi a fartelo intimo, familiare, quello sconosciuto, con la bocca. Gli dici il nome, gli chiedi il nome: siete solo bocca. E intanto pensi a fartelo, dopo. Presto. Con la bocca.
A distanza di ore, nella mia testa vedo ancora quella bocca prendere parola. La carne si muove, lenta, e dice quel nome. La lingua scivola nel palato basso e risale tonica, mentre le cavità nasali vibrano come bassi d’organo in cattedrale, verso i denti, che si socchiudono, e si appoggia poco oltre l’alveolo, le labbra si sporgono e si distendono, lasciando sfilare vocali, e di nuovo la lingua cerca il contatto con il velo del palato e il gesto, ora sordo, di quella bocca finisce allo stesso modo di come è cominciato, spalancato e avvolgente. Il fiato caldo mi arriva addosso, mi scuote, mi risucchia nello spazio umido e socchiuso. Sperimento il contagio, divento io stesso labbra e mi muovo senza poter scegliere di fare altrimenti
A
N
G
E
L
I
C
A
e resto intontito, segnato dalla traccia della lingua che si ritira dietro i denti esposti asciutti e muti, al caldo, mentre in questa stanza come al solito regna un freddo che in certi giorni quasi mi brucia.
Quando ho messo piede qua dentro stamattina, quel corpo mi aspettava, disteso e composto, già nudo. La luce al neon, già accesa, illuminava in pieno il torace e appena un poco il bacino. Le gambe atletiche si allungavano verso di me. Immediatamente ho visto le mie mani arrampicare, esplorare, afferrare e scavare. Mi sono visto immerso nell’ombra del pube, strisciare, scivolare sotto il bianco chimico del neon, assestare bene i gomiti sul petto, affacciarmi oltre il mento e trovare finalmente la bocca. Prendere fiato su quelle labbra. Ho una collezione di labbra nella testa e in questi quaderni, ormai, dovrei esserci abituato. E, invece, oggi le labbra di Angelica mi hanno tolto definitivamente la pace – in questa stanza a temperatura controllata, dopo un’infinità di tempo mi è successo di nuovo di sudare. Quelle labbra sono le più calde che io abbia morso dall’ultima volta in cui ho baciato una donna, viva.
Potrei dire di non averlo fatto di proposito – mordere, intendo. E potrei crederci io stesso, fare finta, immergermi nell’idea che mascella e mandibola abbiano risentito di una contrazione involontaria, uno spasmo del caso, un singhiozzo e abbiano loro malgrado costretto le arcate dentali a stringersi intorno alla carne delle labbra levigate e fredde di Angelica trascinando ogni parte di me nell’illusione che lei potesse avvertire il mio fiato e scuotersi a sua volta. E potrei giurare di sapere con certezza dove fossero le mie mani mentre la mia bocca, coi denti, si prendeva quella di Angelica: aggrappate entrambe, con le dita allacciate strette, al tubolare di metallo della bordatura del lettino. Potrei giurare che la mia mano non abbia spostato i capelli dal collo e dalle spalle, che l’indice non sia scivolato deliberatamente ad esplorare l’incavo disegnato tra la clavicola e la spalla e che non abbia percosso lievemente il capezzolo turgido. Potrei arrivare a sostenere che la mia bocca non abbia farfugliato in faccia alla mia faccia riflessa nell’anta d’acciaio dello strumentario, sfilacciando la mia voce impastata di voglia e di vergogna, che avesse a che fare con me la tensione brunita della pelle di Angelica, lucida di olio idratante. Potrei addirittura spergiurare di non aver lasciato scivolare quella mano verso l’addome, misurando con le prime falangi di pollice e indice il diametro della minuscola coppa dell’ombelico e di non aver affondato le dita di quella mano tra i peli del pube imprecando d’invidia contro la persona che tra quelle labbra avrà trovato almeno una volta umida e sanguigna accoglienza. Una mano simile alla mia magari, abituata a scomporre e ricomporre dettagli, capace di assecondare il corpo, di ammorbidire certe rigidità, di mascherare e di rivelare con lo stesso gesto misurato e passionale. Forse una mano simile a quelle della donna che ho incrociato all’ingresso – abiti scuri, come si conviene, ma sportivi, spalle aperte e collo sottile, labbra contratte e voce calma. L’ho vista lasciare alla segretaria gli indumenti per Angelica. «Sono i suoi preferiti, c’è anche la biancheria intima, nuova.». L’ho guardata brevemente, perché non si accorgesse di me e non mi facesse una di quelle richieste che sempre mi fanno i vivi che non si arrendono, e l’ho vista tenere la borsa con entrambe le mani, porgerla come ad un offertorio, e allo stesso tempo trattenerla con tutte e dieci le dita e con lo sguardo e con quel no flebile e continuo che fa la testa oscillando di dolore. Ogni volta è così, il corpo dei vivi non vuole lasciar andare, si ribella, si ostina e si agita e soffre di più. Per questo ho scelto di lavorare qua dentro, di non incontrare i parenti, di restare con la meraviglia di un corpo arreso alla natura e alla vita, che la morte è semplicemente l’opposto della nascita. La segretaria è venuta a portarmi i vestiti, consegnandomeli sul solito carrello bianco sterilizzato ad ogni check-out. Li ho guardati, stirati di recente, e potrei dire di non averli immaginati appesi con cura nello spazioso armadio a quattro ante e poi scelti e indossati con naturalezza e, infine, seminati tra il pavimento e il letto, stropicciati da gambe che si intrecciano e dimenticati da schiene che si inarcano. Potrei, è vero, dire questo, dire tutto. Giurarlo, pure. Non so essere certo, però, di quello che è successo davvero.
Mi ricordo di aver preso dal carrello gli slip blu cobalto in microfibra e il reggiseno sportivo under armour e di averli fatti indossare ad Angelica che si lasciava muovere, a tratti abbracciare. Mi ricordo di averla rivestita, scarpe incluse, allacciate con un nodo fermo e piatto, con la stessa frenetica liturgia con la quale le avrei fatto l’amore. Al corso di specializzazione ci insegnano ad avvolgere il corpo con gli abiti avendo cura di evitare frizioni e pressioni, così ho allentato gli elastici dei calzini tagliandoli appena con un paio di lunghe forbici in metallo. Sollevandolo con entrambe le mani, per non fare rumore, che non bisogna scuotere dal sonno l’amante finché questi non lo desideri, ho avvicinato lo sgabello al lettino e mi sono seduto a guardarla, ho studiato le mani e il collo e il viso e non mi ha sorpreso che potesse quasi donarle la lividità che via via le macchiava la pelle. Ho scelto i correttori, le polveri e i pennelli. Li ho usati con parsimonia, tranne che nella cavità giugulare e nelle pieghe tra le dita che si stavano tingendo di rosso e di blu troppo rapidamente e, ormai lo so, ai vivi non piace mai il colore che prende la vita quando si ferma. Di nuovo ho idratato la pelle delle labbra con un balsamo incolore e con una matita ho corretto un segno superficiale eppure intenso, un tratto spezzato e già violaceo sul contorno del labbro inferiore. E mi ricordo di aver raccolto i capelli ai lati del collo e respirato a bocca aperta la pelle dietro il lobo del suo orecchio sinistro. Ho fin perduto l’equilibrio per un momento, sbattendo contro il lettino, e ho desiderato di cadere addosso a lei, dentro il suo corpo, prenderla e mischiarmi, riempirla del mio fiato, scuoterla. Tradire la regola delle regole e svegliarla.
«Dottor…».
Quando la segretaria – per lei io sono il dottore, perché le ricordo un’anestesista che si è portata a letto per qualche mese, dopo uno di quei viaggi-avventura che le piacciono tanto: quella, però, e me lo ripete sempre, non sapeva usare l’eyeliner bene come me – è entrata nella stanza a temperatura controllata, spalancando rumorosamente la porta antipanico, per avvertirmi che l’auto era pronta e i colleghi dovevano portare via la salma per le esequie, le mie labbra stavano un’altra volta affannate e umide tra quelle di Angelica. Le ultime cose che mi ricordo sono l’urlo della donna alle mie spalle e quel sapore di ferro dentro la mia bocca.
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