Le chiavi – un racconto d’amore

di Andrea Migliorini
copertina di Alisa Lutchenkova


Quella mattina Fabrizio aveva deciso di riprovarci. Quindi andò sullo store online e scaricò l’app di meditazione che gli avevano consigliato qualche sera prima. Il tappetino della Decathlon era già appoggiato per terra. Gambe incrociate. Play. Occhi chiusi. Hello, Fabrizio.

La voce del tipo di Headspace sussurrava che ogni tanto capita: sì, ogni tanto capita di perdere la rotta, ma non bisogna essere duri con se stessi. Smettiamola di punirci, diceva. Smettiamola. Shhh. Le parole stavano cominciando a lasciare spazio a rumori di sottofondo – close your eyes, no need to hurry. Poi la voce fu più chiara e disse che eravamo in acqua. Eravamo sott’acqua. E quello che sentivamo era il rumore della corrente e della volontà delle cose che decidono di adeguarsi alla corrente. We’re under the water. Under the water, sentiva ripetere Fabrizio quando dall’altra stanza arrivò un rumore così forte da non poterlo ignorare. Prima, ante degli armadi che sbattevano, poi cassetti che si aprivano e si chiudevano con una velocità vicina alla violenza. Porco dio, sussurrò Fabrizio. Porco. Dio.

Era sempre così: quando Noemi non riusciva a trovare qualcosa, cominciava a sollevare oggetti da terra, ribaltare i cassetti, aprire le finestre, e in quei gesti di ricerca c’era sempre una forma di fatica che Fabrizio interpretava come rabbia: come se ci fosse qualcosa contro di lui, come se anche lui fosse complice di quel casino, di quelle sparizioni, di quella tendenza che gli oggetti hanno di non restare al proprio posto o dove pensiamo che siano. E anche quella mattina Fabrizio, gli occhi chiusi, il respiro calmo, le gambe incrociate sul tappetino della Decathlon, si chiese le solite questioni: Perché deve sempre fare così, Noemi? Perché anche oggi? Sapeva già come sarebbe andata, Fabrizio, ed era proprio la consapevolezza di sapere come sarebbe andata che lo tratteneva dall’alzarsi: sapeva che i rumori nell’altra stanza sarebbero cresciuti d’intensità fino a che lui non avesse più potuto fare a meno di ignorarli, e allora sapeva che si sarebbe alzato e sarebbe andato da lei e lei lo avrebbe forse guardato – forse no, non lo avrebbe guardato – e sapeva che a quel punto lui le avrebbe detto qualcosa tipo Tutto ok? – e lo avrebbe fatto senza toccarla, a qualche metro di distanza, senza avvicinarsi troppo, perché in quei momenti sentiva di doversi difendere in qualche modo e quello era il suo modo di difendersi – e allora lei non gli avrebbe risposto subito, avrebbe aspettato di aprire gli ultimi cassetti o di rovesciare l’ennesimo contenitore per poi chiedergli come mai glielo chiedesse, se stava bene. Come mai? O forse gli avrebbe detto che non le piaceva quando le faceva quelle domande. E dopo qualche altro scambio sarebbero arrivati alla ragione del tutto, alla radice del litigio che intanto continuava a montare: che Noemi aveva perso qualcosa.
Non trovo il phon.
Non trovo il portafogli.
Non trovo il treppiedi.
Ma quella mattina fu diverso.

Dapprima, come da copione, l’insieme di rumori crebbe in intensità – spille che tintinnavano sul tavolo, zip di maglioni e felpe che sbattevano tra loro per l’inerzia di cassetti aperti troppo velocemente, scatoline che cadevano per terra. E quindi, come da copione, Fabrizio si alzò, indugiando però qualche secondo e approfittandone per stiracchiarsi la schiena. Emise un gemito di rilassamento, come fosse un modo per ritrovare l’energia di affrontare quella situazione già vissuta troppe volte. Poi andò verso la camera. Noemi indossava una tuta larga e una felpa della RayBan che le rendeva gli occhi quasi grigi. La sorpresa più grande fu quando la vide voltarsi verso di lui: non era arrabbiata, Noemi. Non aveva quel taglio di occhi che le si forma quando le sale il nervoso, Noemi.
Sorrideva, Noemi.
Non era un sorriso qualunque o un generico sintomo di felicità, era un sorriso per lui – o almeno così lo interpretò Fabrizio – un sorriso che nasceva dal fatto che erano nello stesso spazio, nello stesso momento. Spiazzato da quella reazione, cercò di seguire la scena che conosceva e le chiese se fosse tutto ok. Certo, disse lei, e si avvicinò prendendolo per le spalle e stampandogli un bacio sulla fronte dopo essersi fermata per qualche secondo a guardarlo negli occhi. L’ho trovato, disse, prendendo dalla tasca un piccolo flacone di profumo. Era in bagno. Vuoi provarlo anche tu? Fabrizio sorrise e si avvicinò a lei che nel mentre si era già mossa verso lo specchio del bagno. La raggiunse e, quando entrambi ebbero il profumo sui polsi e cominciarono a spalmarlo sul collo, prese a muovere i gomiti avanti e indietro, le muoveva come se fossero pinne, come se stesse nuotando, e poi iniziò a fare dei versi che ricordavano quelli di un pesce impazzito, quelli di uno squalo, strabuzzava gli occhi e fingeva di volerla catturare, o magari solo di volerla mordere, e Noemi rideva e non appena capì il gioco anche lei prese a muovere i gomiti a quel modo e finsero di combattere lì, davanti allo specchio, per poi inseguirsi per qualche minuto per gli spazi di tutta la casa, finché non passarono davanti all’orologio e Noemi disse Cazzo.
Che c’è?
Fabrì, devo andare.
Che ore sono?
Le 8 e 10.
Ah, Noemi si fermò sulla porta prima di uscire.
Prima non trovavo le mie chiavi.
E poi?
Poi mi sono persa via e mi sono dimenticata di cercarle.
Quindi?
Quindi prendo le tue, ok? Le mie saranno in una delle borse, mi sa.
Quindi devo cercarle io.
Daiiiii, please, così non devo mettermi a cercarle ora. Va bene?
Fabrizio finse di non voler rispondere.
Please please please!
Ok, Fabrizio era sincero e cercò lo sguardo di Noemi prima che la porta si chiudesse. SMACK, le disse lanciandole un bacio con un’espressione mezza complice mezza arrabbiata.
Chiudo io? Sì, chiudi tu, le rispose Fabrizio senza pensarci, mentre si versava il caffè e con la mano scorreva le pagelle di Inter Udinese sul sito di skysport. Che alla fine era quella la cosa che lo rilassava di più. ‘Fanculo la meditazione. Quasi scoppiò a ridere, a quel pensiero. Perché in realtà, quando gli chiedevano che squadra tifasse, Fabrizio rispondeva solo se obbligato. Ero interista, diceva, sottolineando il passato implicito nell’ero. Ora seguo e basta, diceva – e intendeva il calcio. Che poi non è che lo seguisse davvero: gli piaceva soltanto restare aggiornato, sapere i risultati. E dire che aveva provato ad allontanarsene, a distaccarsene del tutto. Si era detto che era una passione da ragazzini, che era ok e andava bene quando stava a Maranello, quando era un ragazzino, perché comunque a lui della Formula 1 non fregava un cazzo quindi seguire una squadra di Milano come l’Inter era quasi alternativo, ma poi dopo aver cambiato città si era reso conto che del calcio non voleva più saperne nulla. Basta. Il calcio è da consulenti. Da Deloitte, Accenture, PWC. I tifosi? Tutti coglioni. A Bologna, nella facoltà di Design, non c’era spazio per il calcio. Ma forse aveva ragione Noemi quando gli ripeteva: puoi togliere un maschio eterobasic dal pallone, ma non puoi togliere il pallone da un maschio eterobasic. E in effetti fu proprio in quegli anni di università che il calcio, come se fosse dotato di una propria volontà, aveva scoperto come infiltrarsi nella rete degli spazi indifesi della sua quotidianità. Più lui si impegnava a dire NO a proposte di fantacalcio, partite di calcetto, biglietti per lo stadio, silenziando gruppi WhatsApp ed evitando compagnie del genere, più il suo algoritmo di Instagram gli proponeva video di partite storiche, la doppietta del Principe Milito contro il Bayern nel 2012, l’assist in rovesciata di Maicon contro il Milan, i primi gol di Obaoba Martins in nerazzurro e le prime capriole sotto la Sud. E lui doveva forzarsi per non aprirli, per non cominciare a guardarne uno e continuare a scorrere verso il basso.
La sera prima l’Inter aveva perso 2 a 0 in casa contro l’Udinese, e le pagelle di Sky non avevano giustamente pietà. Stava leggendo il commento della partita di Capitan Ranocchia quando comparve un messaggio di Noemi: CAZZO.
C’erano solo due possibili situazioni in cui Noemi avrebbe usato il capslock: A) si trattava di una stronzata, e nel giro di pochi secondi sarebbe arrivato un meme o la foto di un cane in metropolitana; B) era veramente successo qualcosa di grave. La vedeva scrivere e smettere di scrivere. Che c’è? Le chiese.
Le chiavi.
Cosa?
Le mie.
Possibile che le chiedesse se si era già messo a cercarle? Non poteva almeno finire di fare colazione? Non le ho ancora cercate – le scrisse – dammi un attimo. Sto bevendo il caffè. Poi ho alle 9:30 una call con quelli di Biocups.
No, Fabrì. Ce le ho io. Ce le ho in borsa.
Le hai tu?
Sì.
Quindi hai sia le mie, sia le tue?
Scusami scusami scusami.
‘Fanculo, pensò Fabrizio. ‘Fanculo, sussurrò passandosi la mano sulla testa rasata la sera prima. ‘Fanculo.
Quindi?
Io non riesco a tornare ora, sono già sulla verde. Se scendo ora faccio troppo tardi.
A che ore torni? Sebbene sapesse già che Noemi non sarebbe tornata fino a sera, Fabrizio non provò quello che avrebbe pensato di provare in una situazione del genere. E per farlo capire anche a lei le mandò uno sticker di lui che tagliava le carote. Per ridere, anche se non aveva senso. Lei rispose con un cuore e gli disse quello che già sapeva: che sarebbe tornata per cena, ma che prima non ce l’avrebbe fatta. Posso chiedere a Gaia, però. Magari riesce a portartele in pausa pranzo. La sento e ti dico. Baci. Love u so much.
Me too, le rispose Fabrizio, che si limitò a cliccare sopra il too dopo aver cliccato me, sfruttando l’indizio del suggeritore automatico, che ormai sembrava essersi lentamente adattato a quel loro linguaggio che univa inglese e italiano e in fondo doveva avere una sua logica.
Fabriziò si alzò per andare a prendere del burro d’arachidi dopo aver messo il pane a tostare. Era ancora in pigiama. Mentre spalmava il burro si rese conto che stava ballando, e ogni tanto gli capitava di seguire un ritmo prima di riuscire a intuire quale canzone stesse ballando, e spesso erano ritmi casuali, a volte Katy Perry, a volte Eros Ramazzotti o Tiziano Ferro, a volte i Black Eyed Peas, ma in questa playlist apparentemente senza senso esisteva una costante: in momenti di esasperata felicità, quando Fabrizio non riusciva a togliersi il sorriso dalla faccia, dalla bocca cominciavano a uscirgli le parole dell’inno dell’Inter, e la bocca si muoveva prima che lui se ne accorgesse, era successo il giorno della sua laurea e così successe anche quella mattina mentre spalmava il burro d’arachidi sul pane perché in pochi attimi si ritrovò a canticchiare: Amala – TU DUN – Pazza Inter Amalaaaaa. Perché era così felice? È una gioia infinita, che dura una vita. Pazza Inter Amalaaaaa. Forse per il gioco della mattina? Perché non gliene fregava un cazzo delle chiavi? Di rimanere chiuso in casa sua? – che poi era casa di lei, a dire il vero, perché all’inizio lui stava ad Ortica in un monolocale e poi si erano trasferiti da lei qualche mese fa che c’erano quasi due stanze in più e alla fine la solita storia: pagare due affitti, dormire sempre insieme, tantovale convivere, no? Si ricordò le uniche frasi che si ricordava di aver sentito dalla voce di Headspace: che era ok anche smetterla di farsi domande, quindi smise e finì la sua colazione con un senso di pace e soddisfazione che non provava da settimane, convinto che questa volta non avrebbe nemmeno continuato con la prova gratuita. Erano le 9.12, avrebbe avuto abbastanza tempo per sciacquarsi la faccia, lavarsi i denti, farsi la barba e vestirsi per la call. Controllò il calendario e vide che quella mattina avrebbe avuto solo quella chiamata e ne fu contento. Oggi voleva godersi quella casa. La sua, di casa. Magari farsi un altro caffé, una seconda colazione. Magari ordinare un cornetto. Ah no, cazzo. Ordinare, quello non si poteva fare. Ma va beh. Fece tutto quello che doveva fare e si presentò alla call. Salutò e si mise in ascolto: non aveva ancora capito perché nella startup con cui collaborava ci tenessero, lui che era freelance e sinceramente del futuro di BioCups gliene fregava il giusto, che partecipasse allo standup settimanale. Ma tant’era e quindi se l’accollava, vedeva se i task assegnati gli tornavano e poi si faceva il piano per la settimana. Quella del marketing gli chiese se potesse anticipare una consegna e lui rispose che non c’erano problemi, ce l’avrebbe fatta per il giorno successivo. Il bello di lavorare con chi di grafica non ci capisce un cazzo è che puoi prenderti tutto il tempo che vuoi anche per fare delle stronzate, e quando gli vai incontro sembra anche che ti sforzi pure. Finita la call, Fabrizio si voltò – ultimamente aveva preso a lavorare in cucina, che era il punto più silenzioso della casa – e guardò la casa vuota. La finestra era aperta e l’aria, entrando, muoveva le foglie delle talee appoggiate sul davanzale, mentre la luce che passava attraverso l’acqua un po’ intorbidita la rendeva più azzurra e piacevole da guardare. Senza lo stendino, lo spazio della cucina si svuotava e sembrava in attesa, un’attesa gentile e comprensiva. Fu in quel momento che sopra la chat con Noemi se ne accese un’altra: Broooooo, stai lavorando? Fabrizio fece una cosa che non faceva mai con le persone che non erano Noemi e rispose subito. Eliiii! Com’è? Ma che cazzo di ore sono lì?
Frate, sono tipo le 5 di notte.
Assurdo.
E io sono tipo appena stato cacciato da un pub.
Tutto tuo, fra.
Tutto mio fra, tutto mio.
Allora, come va giù in Australia?
Va va. Parlarono per qualche minuto e venne fuori che Elia era stato davvero cacciato da un pub e ora stava in una tenda con altre 4 persone e tutti dormivano quindi non poteva parlare ma voleva, parlargli. Perché in effetti era un po’ fatto e gli era tornata in mente quella volta che stavano per entrare di notte nel circuito di Maranello e un tizio li aveva presi per la maglietta e gli aveva dato quattro calci in culo. Dopo la storia di Elia fu il turno di Fabrizio, che nel mentre si era sdraiato sul tappetino in salotto e si era messo a guardare la casa da quella prospettiva e fissava il soffitto e teneva il telefono davanti alla faccia scrivendo velocissimo.
Quindi sei chiuso in casa brooooooooo.
Già.
CAPTIVATEEEEEED.
Ehhhh.
Non è un po’ figo?
In che senso?
Boh, frate. Che sei tipo chiuso in casa tua.
E quindi?
Che è la tua tipa che ti ha chiuso in casa, frate. Stai male.
Mavva.

E invece Fabrizio sorrideva, non ci aveva ancora pensato ma in effetti non gli dispiaceva pensarla così: pensare che Noemi lo volesse così tanto da chiuderlo in casa, da separarlo dal mondo. Che volesse che la aspettasse, lei e solo lei. Che non avesse contatti con nessun altro, in nessun modo. Chiuse un secondo il telefono e lo appoggiò a terra e seguì quel pensiero. Da quanto non scopavano? Da quanto non si sentiva, boh, desiderato? Se lo poteva chiedere? Era ok? Non avrebbe nemmeno saputo dire l’ultima volta, sebbene poi l’ultima volta in sé non fosse così lontana, ma non era quello. Era che mancava altro, altro che non sapeva dire. Così provò, per gioco, perché quella mattina i giochi sembravano avere senso e le cose non sembravano premere dall’alto come nel resto dei lunedì che avevano vissuto insieme, e allora provò a immaginarselo: che Noemi lo avesse chiuso perché lo voleva, voleva tenerlo al sicuro, lo voleva soltanto per sé, come se lui fosse la sua principessa in gabbia, sì, lo voleva così tanto che nessuno avrebbe potuto toccarlo, nemmeno guardarlo, desiderarlo nelle proprie fantasie. MAI. E se una tipa in metropolitana si fosse girata verso di lui? Se una con il fetish per i designer l’avesse visto con il suo fucking cappellino da art director e gli avesse chiesto cosa faceva di lavoro? No, non era possibile. Lui doveva stare a casa, sì, e mentre pensava a quanto fosse giusto che dovesse stare chiuso in casa perché così aveva voluto Noemi, Fabrizio sentì che cominciava a venirgli duro, gli venne duro-ma-duro così in fretta che quasi lo sorprese, non era più abituato a vivere da solo le proprie erezioni, e si rese conto in quel momento di quanto gli fosse mancato – che poi, oltre a scopare, da quant’era che non si faceva una cazzo di sega, lui? da quant’era che non gli capitava? – e allora si alzò tenendosi il cazzo in mano e continuando a toccarselo, se lo toccava come se fosse la prima volta e gli sembrava quasi di sentire una spugna all’interno, e la sentiva riempirsi, e allora se lo stringeva sempre più forte, e gli venne l’istinto di spogliarsi e lo fece e l’eccitazione crebbe ancora di più, quindi andò in camera da letto dove Noemi aveva lasciato in giro tutti i suoi vestiti, e sentiva l’odore e il profumo di Noemi nella stanza, vedeva la sua biancheria, le mutande e i reggiseni, e mentre chiudeva gli occhi muoveva la mano sempre più forte e sempre più veloce, e sentiva che stava-per, ma no, no. Non voleva venire così, non voleva venire sdraiato sul letto, quindi si mise in ginocchio sul bordo del letto, nemmeno il rischio di caduta nel movimento gli fece perdere l’eccitazione, e continuò a toccarsi e sentiva che il cazzo si scaldava e cominciava a pulsare, e fu in quel momento che Fabrizio si rese conto che non sapeva su quale immagine venire, e l’immagine su cui venire era la cosa più importante, perché voleva venire su qualcosa di memorabile, qualcosa che valesse la pena di aver aspettato quanto boh un anno dall’ultima cazzo di sega, e allora provava a chiudere gli occhi e immaginare Noemi che glielo succhiava, ma non riusciva, non riusciva a immaginarla, non riusciva nemmeno a unire Noemi e succhiare nella stessa frase, così provava a immaginare le altre tipe con cui era stato, quella che ogni tanto gli piazzava ancora i like nelle storie, ma non riusciva nemmeno con loro, non le ricordava – ma cosa succede ai corpi che conosciamo? perché li dimentichiamo di continuo? perché smettono di esistere? – allora torna in salotto a recuperare il telefono e va su Instagram, chi posso cercare, chi cazzo posso, e intanto passa in rassegna le sue compagne del liceo, poi quelle dell’università, cerca di ricordarsi quelle che postavano le foto delle vacanze estive, perché sì, si rende conto che vorrebbe venire su un bel culo, un gran bel culo, e allora mentre scrolla sulla home e sente che il tempo sta per scadere perché qualcosa è sceso, e il cazzo è ancora duro ma non è più duro come prima, è come se con quel gesto con quel cambio di stanza avesse fatto qualcosa di sbagliato, come se la parte dentro di lui a cui piace la figa gli avesse detto o vieni così o non vieni, e allora si attacca alle foto di una sua compagna di liceo che si chiamava Ludovica che è da un po’ che non pubblica foto del genere, ma basta scendere di un paio di scroll ed eccolo lì, il culo, un gran bel culo, e allora Fabrizio prova a chiudere gli occhi di nuovo con l’immagine di quel gran bel culo stampata in testa, mentre il telefono continua a vibrare – probabilmente per i messaggi di Elia, o forse a scrivergli era stata Noemi che gli doveva dire qualcosa di Gaia, delle chiavi, boh – fatto sta che il telefono continua a vibrare e Fabrizio si immagina Ludovica che entra in quella casa dopo 12 anni che non si vedono, che si spoglia e quasi senza chiedere nulla inizia a toccarglielo, Ludovica che poi si volta e si piega e gli chiede di metterglielo dentro, di entrare e spingere e andare più veloce e di venirgli sulla schiena, e allora a Fabrizio ritorna duro quasi come prima, ritorna a pulsare, ma più tiene chiusi gli occhi più l’immagine di Ludovica si fa meno piena, si scolora, perde confini, il culo sbiadisce, il gran bel culo sbiadisce, e Fabrizio ormai solo nella propria fantasia si rende conto che è in quella casa, che in quella casa che condivide ogni giorno ogni notte con Noemi sta pensando di scoparsi il culo di Ludovica Crini. Non quello di Noemi. Non Noemi. E allora si ferma. Lascia la presa e il cazzo comincia a molleggiare verso il basso. È rosso e la pelle ora gli fa quasi male. Lo guarda ma distoglie lo sguardo dopo pochissimo. Non si guardava il cazzo, soprattutto quel tipo di cazzo, quello che non è né duro né molle, quello che non è riuscito a venire ed era sul punto-punto-di, da boh forse 15 anni, quando si masturbava in bagno e a un certo punto arrivavano sua madre o suo padre che dovevano urgentemente pisciare o cagare e lui doveva fermarsi.
Frate scusami, scrive Fabrizio a Elia dopo essersi rimesso le mutande. Una roba di lavoro. Dovevo fare al volo. No problem fra, no proooobs. In coda vede qualche messaggio di Noemi. Gaia non ce la fa. Non riesce a portargli le chiavi in pausa pranzo. È un problema? È arrabbiato con lei? Fabrì, sei arrabbiato con me? Ti giuro che pensavo fossero a casa! Fabrizio non risponde e decide di farsi una doccia: una lavata all’uccello non sarebbe abbastanza e poi la testa – come sempre, dopo che la rasa – ha cominciato a prudergli e la cosa comincia a farlo sentire un po’ a disagio. Come sempre, quando è sotto la doccia Fabrizio lascia scorrere l’acqua calda sulla schiena fino a provare quella sensazione che somiglia a qualcuno che ti gratta e dà piacere e dolore allo stesso tempo, che però alla fine è la sensazione più vicina al sollievo che Fabrizio abbia mai provato, e quindi alza ancora di poco la temperatura prima di girarla a destra del tutto e lanciare qualche urlo sotto l’acqua gelida. Manda una foto a Elia. Scrive: Ready for being kidnapped by my wife. Brooooo, gli risponde Elia. Ma è la casa nuova? Sì fra, Fabrizio non sapeva come mai ma quando parlava con Elia ricominciava a dire cose come Fra Bro e lo faceva in maniera seria mentre magari sai mentre stava con i suoi amici di Milano o con i giri di Noemi non erano proprio le parole che usavi più spesso. LA CASA NUOVAAAA – Fammi fare un giro torno presto baby. E allora Fabrizio prende il telefono e inizia a filmare dal bagno. Si inquadra i piedi e dice guarda che cazzo di piedi fra e ride, poi si inquadra nello specchio e fa il segno della V con le dita, esce dal bagno ed entra in camera e pensa già al commento di Elia a vedere quel bordello, qualcosa come ma quanto avete scopato frate o qualcosa del genere, e poi torna in cucina e fa vedere anche quello che si vede dalla finestra, indica San Siro, il boscoincittà e poco più lontano le torri di City Life che come cazzo fanno a piacere a qualcuno boh, lui se avesse potuto scegliere sarebbe andato a vivere a Monte Amiata che c’aveva anche un paio di amici lì ma è andata così, quindi poi passa al salotto dove c’è ancora il tappetino e la cintura dei pantaloni lanciata per terra. Cosa c’era di suo in quella stanza? Quando si era sdraiato per terra a fissare il soffitto, poco prima, aveva avvertito una sensazione di pace e di presenza, essere lì era vero ed era un significato. Era giusto. Ma ora che doveva raccontare quella casa a qualcuno che lo conosceva, che lo aveva conosciuto e visto crescere, Fabrizio non riusciva a indicare qualcosa e dire: te lo ricordi? Nulla veniva dalla sua cameretta di quando era bambino. Nulla delle stanze che aveva abitato a Bologna. Nulla del monolocale di Ortica. Era come se ogni nuovo inizio fosse un reset. Punto. Si riparte. Un nuovo te, un nuovo Fabrizio. Nuovi amici. Una nuova storia. Gli unici poster che si era portato dietro – una copia di Kandinskij e una tavola grafica trovata a un mercatino – erano ancora appoggiati per terra, arrotolati dietro il divano. BOMBA scrive Elia. BOOOMBA LA VISTA. E mentre Elia continua a scrivere cose del genere a Fabrizio torna in mente che sì forse oggi è un giorno buono per comprare un microonde. Che fanculo se a Noemi non piace o non è d’accordo lui alla fine con gli avanzi del giorno prima ci campa e in giornate come boh quelle della settimana appena passata un micronde gli avrebbe fatto comodo. Si veste senza nemmeno guardare all’abbinamento, controlla che l’Euronics più vicino sia già aperto, e sì sono ancora le 11 quindi può prendersela con calma, tanto c’ha una roba da fare ma può farla dalle 14 alle 15 quindi scialla. Si infila le scarpe senza nemmeno slacciare e allacciare le stringhe. Appoggia la mano sulla maniglia e fa per girare ma la maniglia non gira. È forse solo in quel momento, un momento in cui il caos e il turbinio dei pensieri lo avevano portato addirittura a dimenticare che la porta fosse chiusa a chiave già da due ore, che Fabrizio realizza per la prima volta di non poter uscire. Realizza che è lì e ci deve restare. Che non ha le chiavi. Che è chiuso in quella casa. In quelle tre stanze. In quella cucina. Che poi – chiede Elia – come va con la Noe, bro?

Fabrizio fissa il messaggio mentre si appoggia con la schiena alla porta, si sente come se fosse una di quelle cose che andavano tanto quando frequentava le elementari, uno pallina skifidol che puzza di petrolio e idrocarburi lanciata contro la parete che lentamente aumenta la propria superficie e cede alla gravità. Va che è tutto ok, dice. Tutto ok. Ma Elia non sembra convinto. Gli chiede in che senso tutto ok. Gli chiede se quelle cose che gli aveva raccontato prima di partire, tipo quella tristezza che lui si sentiva dentro. Quella cosa di fare fatica a svegliarsi la mattina, no? Quella cosa di sentirsi senza fiato, ogni tanto. Di avere paura di tornare a casa. Fabrizio non si ricorda di aver raccontato quelle cose a Elia, non si ricorda quando e soprattutto non si ricorda nemmeno di averle dette di averle pensate quelle parole. Se ha problemi a svegliarsi sono cazzi suoi, e la paura di tornare a casa ci ha riflettuto a fondo e figurati se non è il lavoro. Che lui lavora e mangia e vive negli stessi 60 metri quadri quindi è normale che dopo una nuotata in piscina torni a casa e sembra che ti manca l’aria. Scopare scopate?
Sì, più o meno.
Che cazzo vuol dire più o meno? O scopate o non scopate.
Fabrizio stava quasi per scrivere la verità. Stava quasi per scrivere che sì ogni tanto scopavano ancora ma che qualcosa non c’era. Che la cosa che gli faceva più male forse era ritrovarsi in quelle profezie che senti o vedi nei film e nelle serie tv, che a poco più di trent’anni gli sembrava di essere troppo giovane per fare la vita che alla sua età facevano i suoi genitori e troppo vecchio per fare le cose che non si era concesso di fare quando aveva vent’anni. Ma scrisse solo Scopiamo, scopiamo e ci aggiunse uno sticker di Francesco Totti che fa il segno di quattro sberle e a casa con la mano.
Quindi sborri?
Sborro.
Ma sborri più o meno o sborri sborri.
Sborro, sborro.
Ok, maaaaaaa comunque a me non sembri ok frate. Fabrizio chiude gli occhi e li strizza e come gli succedeva da ragazzo e da bambino la luce catturata e strangolata e soffocata infine si traduce in un’immagine di una stazione, una stazione buia che potrebbe essere Centrale o una qualsiasi stazione della US di Berlino, e i due treni arrivano e le persone salgono e scendono e a Fabrizio sembra di non esistere perché in quegli occhi che sono i suoi vede persone che non conosce e treni che non sa nemmeno da dove arrivano figuriamoci dove andranno. E se provasse a bussare? Magari ce l’hanno un passepartout quelli del condominio, magari il portinaio, no? CAZZO, il portinaio. Lo dice lo pensa lo scrive a Elia che all’inizio non capisce ma poi gli dice minchia sì frate certo che ce l’avrà un passepartout quel coglione. Non è un coglione. Ok scusa. Fabrizio alza la cornetta del citofono e suona al portinaio. Due squilli poi risponde. La voce è graffiata. Dice chi è. Sono Mazzarini. Fabrizio Mazzarini, sì, buongiorno. Quarto piano. Sì, sono io. Senta, guardi è successa una cosa stamattina. Praticamente la mia – ragazza, compagna? fidanzata? – praticamente Noemi questa mattina è uscita con entrambe le chiavi, e io ero in bagno mentre è uscita e, insomma. Eh sì, sono cose che succedono, certo, certo sarà una di quelle cose che ci rideremo su. Ma il portinaio – di cui Fabrizio continuava a scordare il nome anche se ogni volta Noemi gli diceva di stamparselo bene in testa -, sebbene comprensivo, fu categorico: No, non abbiamo un passepartout. Gli dispiaceva, ma era sicuro che sarebbe stato quasi divertente, no?, provare un’esperienza del genere. Eccitante. E per qualunque necessità nei limiti del possibile fino alle 13:30 lui sarebbe stato a completa disposizione. Fabrizio lo ringraziò e abbassò la cornetta. Niente frate, scrisse a Elia. Non si può fare. E non furono tanto le parole del portinaio a trasformare quella che – possiamo dirlo – forse stava cominciando a diventare una sorta di ansia, se non di oppressione, in una sensazione non tanto di abbandono quanto di inerzia. Un’inerzia passiva, il peso del corpo con una gravità più forte del normale. Il peso dei pensieri, soprattutto. Che non solo pesavano ma di colpo si svuotavano delle parole e le parole si svuotavano di immagini. Ma tu non devi lavorare fra? Magari ti aiuta. Non ci pensi. Ti svaghi un po’. Tanto è come stare chiusi in casa senza chiave, lavorare. Fabrizio vede il messaggio dal salvaschermo. Non voleva rispondere. Non voleva fare niente. Voleva solo sdraiarsi per terra e fissare il soffitto. Diventare una stella marina. E allora lo fece e allargò le braccia e le gambe e chiuse gli occhi e vide l’acqua salire e salire e salire. Elia aveva risposto che forse stava crollando, che doveva dormire una minima che il giorno dopo lo cambiavano di farm. E intanto nella stanza l’acqua seguitava a salire e quando finalmente raggiunse il tavolo della cucina il cucchiaino da caffè divenne qualcosa di simile a un’anguilla, o qualcosa di simile a come ti immagini siano i pesciolini che ti mettono nel fritto misto prima che li friggano e li cucinino e li peschino, quando ancora nuotano nel mare. San Siro da lontano sembrava il castello di Atlantide, con alghe che salivano dalle torri e si muovevano a seguire la corrente. Per fortuna Fabrizio aveva imparato a respirare sott’acqua. Si ricordò che sott’acqua sapeva anche aprire gli occhi e allora prese il computer e si sedette sulla sedia della cucina che ormai era diventata uno scoglio e aprì un file Illustrator che si chiamava F o qualcosa del genere e ci rimase immerso tutto il pomeriggio. Non vide i messaggi di Noemi, che gli scrisse a intervalli regolari per tutto il pomeriggio. Ogni pausa del set, un messaggio.

Noemi cercò di tornare il più veloce possibile, forse pensando che Fabrizio questa volta ce l’avesse per davvero con lei, con lei che per davvero ci stava provando a cambiare. E quando entro in casa non vide l’acqua uscire di colpo e inondare il corridoio, come vide invece Fabrizio, che nel momento in cui la porta si aprì, si sentì come devono sentirsi i pesci in un acquario quando gli cambiano l’acqua e allora inspirò l’aria che entrava dalla porta come se non avesse respirato mai. E Noemi si avvicinò perché Fabrizio era al computer e non diceva nulla e la guardava e a lei sembrava strano che fosse ancora al lavoro. Allora si avvicinò ancora di più, con passi brevi e lenti sebbene l’unica cosa che volesse fare fosse abbracciarlo dalla schiena e sentire le sue spalle accoglierle il viso. E si avvicinò e sullo schermo vide qualcosa di azzurro, blu. Vide un’immagine che aveva sentito raccontare a voce tante volte da Fabrizio. Sentì la sua voce recitare le parole che si accorse non tanto di sapere ma di sentire da qualche parte nella memoria, ed era una storia e un’immagine talmente semplice che si vergognò di colpo di averla forse dimenticata o forse rimossa o non ascoltata, ma dopo la vergogna come una freccia venne l’affetto e la vicinanza e un calore: se il mondo si riempirà di acqua e diventerà un grande oceano allora noi saremo due pesci, diceva la voce di Fabrizio, saremo due pesci che respirano sott’acqua e nuotano insieme. Nuoteremo fra le strade di Milano piene d’acqua e andremo a fare la spesa al mercato, costruiremo la nostra casa con la sabbia e sceglieremo dove viaggiare e viaggeremo insieme perché la nostra casa non avrà mura e sarà il mare, o anche una semplice conchiglia. Forse Noemi piangeva. Le sembrò di cadere ma restava in piedi. A cadere fu lo zaino della North Face, la fotocamera. Poi arrivò il silenzio e Fabrizio disse: Nell’amore ci dobbiamo credere, Noemi. Altrimenti non esiste.


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