Sparizioni

di Guendalina Bruni
copertina di Chiara Casetta


Le prime a sparire furono le erre. Poco male, non era mai riuscito a pronunciarle per bene. È perché vieni da Parma, questo gli dicevano, a Parma avete tutti la erre moscia. Prenditela con i belgi, voi li avete accolti e loro hanno contaminato la lingua. Bel ringraziamento! Lui annuiva per non star lì a farla lunga, ma sapeva che non erano stati i belgi. Se c’erano colpe da distribuire, andavano tutte agli antenati pigri. Perché è più facile lasciare che la lingua resti sospesa a mezz’aria e deleghi il lavoro sporco all’ugola, invece che imparare a farla vibrare tra dente e dente. Non era la erre a doversi chiamare moscia, pensava, quando ricominciavano con la tiritera dell’invasione belga. Li aveva sempre lasciati dire, ma un po’ ci rimaneva male.

Ci fu un periodo in cui aveva desiderato disfarsene, di quella pronuncia imbarazzante; si era messo a seguire i consigli del logopedista, irrorando di ramarri marroni gli specchi di casa. Non ottenendo i risultati sperati, aveva contattato uno specialista di dizione; in paese lo conoscevano tutti, sentiva l’urgenza di curare la sua immagine pubblica. E se c’era riuscito Bertie con l’aiuto di Lionel, ne Il discorso del re, ce l’avrebbe fatta anche lui. Dopo innumerevoli iniziative personali andate in fumo, abbandonata la logopedia e messa da parte la tesi degli antenati, si era convinto che, così come il fatto di Bertie, anche il suo fosse un blocco psicologico: traumi dell’infanzia non risolti, un amore non corrisposto, quella volta che gli avevano puntato un coltello addosso. Cose così. Aveva passato tanto di quel tempo ad occuparsene che ora, quando scomparvero, quelle erre ingrate, gridò vittoria. L’impegno premia. Non come quei buoni a nulla, che stan lì ad arrostire gli stinchi a bordo lago, millantando miseria e sparlando dei successi altrui. Che non venissero a piangere da lui, che nella miseria c’era nato. Latente come un herpes sottopelle, ogni tanto tornava in superficie a ricordargli che dalla miseria non si scappa se non si lavora sodo.

Fu ben contento di farne a meno, di quel ronzio laringeo. Niente più erre, finalmente. Non avrebbe più perso tempo ad addestrare la lingua, né tantomeno a sorbirsi le storielle sui belgi. Ora le chiacchiere si sarebbero concentrate su altro, sulla macelleria ad esempio, che aveva tirato su dal niente. Pomeriggi interi passati a studiare i tagli, a strofinarsi la pelle con l’aceto per coprire l’odore acre della carne. Alla gogna le erre, lunga vita a Savino il macellaio! Ma i sogni di gloria durarono fino a che dovette cedere l’attività. Momentaneamente, giusto il tempo che serviva a rimettersi in pista. Un paio di mesi, e le ti sarebbero tornate. Non che ci tenesse particolarmente, avevano deciso di seguire le erre e non stava di certo a lui forzarle a restare. Benché non ne avesse fatto un dramma, la loro scomparsa costituì un impedimento fastidioso, non riuscendo più a parlare ai clienti come si deve: «Ti ho fatto tre etti», provava a formulare, «Quante fette?» insisteva, ma i clienti non capivano, lo guardavano come se parlasse una lingua straniera, e gli affari ne risentivano. Decise allora di tornare in cura, ma i rimedi che gli proponevano erano ridicoli: sciroppi al mirtillo, pillole al riso rosso e fiale all’olio di pesce. Lui solo carne mangiava. Andò avanti per qualche settimana, ma alla fine si stancò di regalare tutti quei soldi al farmacista. Per cosa poi? Intrugli che poteva benissimo confezionare in casa con ingredienti del mercato di piazza. Decise quindi di sedersi ad aspettarle, le ti: così come si erano dileguate, da un giorno all’altro si sarebbero rifatte vive.

E comunque in farmacia non riusciva più ad andarci, né tantomeno in piazza, per via delle gambe che iniziavano a fargli male. I femori pigri, un altro regalo degli antenati? Si riteneva comunque un privilegiato, i femori altrui si lussano, si incrinano, a volte si rompono e non recuperano. I suoi erano solo svogliati: ancora robusti, compatti e affusolati, protagonisti del suo metro e ottantadue, soffrivano probabilmente di apatia da solitudine. La colpa era di Christelle, che di punto in bianco aveva deciso di tornare in val d’Oise. E loro non l’avevano seguita, avevano giocato la carta dell’orgoglio: vai, vai pure, tornatene nella tua terra umida, che qui ce la caviamo anche senza di te, gli affari vanno a gonfie vele, il sole insaporisce il vino e le folate dell’Ora spazzano via l’insonnia. Che anche senza erre e senza ti, mia cara C’his’helle, si campa bene lo stesso; una parola in meno da spruzzare allo specchio. Bisogna lasciarli fare i femori, sanno il fatto loro. Ma con Christelle in val d’Oise se la svignarono anche le prime pi: niente più posate, pentole, portaombrelli, panettoni a Natale, pane e panelle la domenica. Con loro se ne andarono anche posaceneri, piastrelle, piante e pettirossi. Papaveri, pelle, pasticche, non trovavano più posto nella sua bocca, le labbra rifiutavano la contrazione, niente più spruzzi, alla fin fine mica poi così male. I pennelli quelli sì, gli dispiaceva un po’: tutte quelle tele che si era costruito da solo aspettando di poterle riempire, una volta in pensione si era detto, una bella passione da coinvolgere figli e nipoti. Senza pennelli sarebbero rimaste bianche quelle bianche, quelle grezze, grezze, ammucchiate in soffitta a prender polvere.

Poi però i figli non li aveva avuti, e a dirla tutta neanche le mani gli servivano più un granché: prendevano direzioni sghembe quando cercava di compiere movimenti elementari. Non gli riusciva più di portare il bicchiere alla bocca, figurarsi un pennello alla tela. Al fatto del bere aveva rimediato con una bella cannuccia riutilizzabile, e si era tolto anche la pena di uscire a comprarle, visto che non ne aveva più tanta voglia, e comunque coi femori  ancora impantanati nella tristezza, meglio non disturbarli. Aveva trovato una ragazza a modo, che per la metà di quello che aveva speso in ricostituenti, lo aiutava per il mangiare e i servizi. Caterina si chiamava. Una sveglia, che quando le se la filarono anche loro, seppure la pensava Caterina, ma gli usciva a mala pena un A’he’hina, lei comunque capiva e si avvicinava. Ora che azzeccare la pronuncia era diventata una questione di fortuna, si dedicava a quello che prima, quando era un uomo dalle mani in pasta, non gli era mai passato per la testa. Osservava, uno a uno, gli oggetti intorno a sé, ripetendone i nomi nella mente. Pensava l’orchidea secca che faceva sagoma tra le nuvole sui vetri della finestra,  pensava il divano bianco e i poggiagomiti in legno, pensava il tappeto logoro che A’he’hi’ha spazzava quando mancava poco per andare; pensava il televisore appeso alla parete, la lampada da terra, la plafoniera, il deambulatore, il tavolo, la sedia, l’altra sedia di fronte. Pensava, pensava e ripeteva dentro di sé, e quelle parole vagabondavano eterne nei corridoi del labirinto neurale, così rotonde, precise, così come dovevano iniziare e finire. E nella testa sentiva la sua voce come quella di una volta, o forse diversa, non ricordava più: era una voce dal suono limpido, sonoro, gutturale, ma anche sibilante, nasale, vibrante. Avrebbe voluto registrarla, con un microfono, se solo fosse riuscito a chiederlo a A’hi’ha, se solo sapesse ancora che il microfono si chiama microfono. Lo avrebbe fatto di notte, ché come a Bertie in quel film di cui ora non ricorda più il nome, nel sonno le parole escono dal labirinto e riempiono l’aria. E allora avrebbe detto: «Ve lo dico io, Savino il macellaio, nato nella miseria e a un passo dalla gloria, che a Parma i belgi non ci sono, e non ci sono mai stati, a Parma c’è solo gente che si dà da fare, non come voi con gli stinchi al sole».


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