Foodistribution 2024 – EXAUDI

testi di Manovalanza; fotografie di Tommaso Vitiello

Premessa a cura della redazione di Malgrado le mosche

Circa un anno fa, con Manovalanza, associazione di promozione sociale che si occupa di teatro, fotografia e non solo, ci accordiamo per fare da Media Partner in occasione della preparazione e poi della messa in scena di EXAUDI, lo spettacolo site-specific che si è tenuto ai Bipiani di Ponticelli e che a sua volta fa parte del progetto Foodistribution.

La collaborazione nelle intenzioni sarebbe stata una cosa seria, ma dal momento che il Media Partner eravamo noi, la rivista scansafatiche per definizione, si è tradotto nel rilanciare, con enorme piacere e affetto, questo va detto, il materiale prodotto da Manovalanza, che invece sono persone che lavorano senza sosta.

All’interno di questa collaborazione, che speriamo e contiamo di poter ripetere in futuro, pubblichiamo, a distanza appunto di circa un anno, i materiali originali dell’Osservatorio critico messo in opera da Manovalanza.
Ricopiamo qui una brevissima descrizione esplicativa: “Un progetto come EXAUDI realizzato per la VI edizione di foodistribution a cura di Manovalanza, per la sua natura complessa, polivalente e site-specific ha meritato che si attivasse un processo di cooperazione allo sguardo, generato e condotto da alcuni osservatori ed osservatrici che hanno potuto condividere le diverse fasi del processo creativo, partecipando attivamente alle giornate di ricerca e creazione, alle prove e allo spettacolo conclusivo”.


Come si diceva all’inizio di questa lunga ma necessaria premessa, questi che pubblichiamo sono i materiali del 2024, relativi a EXAUDI, per la VI edizione di foodistribution, che però va avanti. A luglio, precisamente il 6, il 7 e l’8, andrà in scena INFINITO  ∞ /  LA FOGLIA D’ORO, il nuovo capitolo del progetto di Manovalanza, sempre ai Bipiani di Ponticelli per il Campania Teatro Festival.


EXAUDI – Materiali dall’Osservatorio critico

Non esiste un grado zero dello sguardo; lo stupore davanti a qualcosa che non si conosce potrebbe essere una forma, anche incosciente, di resistenza nei confronti di quello sguardo che non potrà essere al grado zero. Ognuno di noi, nella propria specificità, è una profonda stratificazione Storica: siamo la nostra famiglia e i ricordi che si ripetono, la classe sociale di appartenenza, il luogo in cui si è nati, le esperienze che abbiamo vissuto e quelle che ci è stato concesso di vivere; siamo la nostra relazione e reazione a tutto questo.

È inevitabile che alcune produzioni culturali abbiano uno sguardo lungo, pervasivo. Andare a Via Isidoro Fuortes, ai Bipiani, vuol dire effettivamente arrivarci, mettersi nell’ordine di pensiero di doversi allontanare molto da cosa è proprio.

Mettere il proprio è necessario, per quanto forse sbagliato. Percorrendo in treno la strada per Ponticelli ritrovo il pezzo di famiglia che non ho mai rifiutato; ritrovo mia madre e mio nonno in macchina che parlano a mio fratello e a me, bambini, ma noi due a Gianturco ci distraevamo per guardare le prostitute che non avevamo mai visto; recuperavamo l’attenzione in mezzo al tanfo dell’Agip a San Giovanni a Teduccio e il racconto spaventoso dell’esplosione. Crescendo le storie sono diventate altre: Ponticelli si riduceva a quell’indicazione geografica dei racconti un po’ imprecisi di mia nonna, “abbascio ‘o ponte”; poi gli operai, la cassa integrazione e il rosa sconcertante del Tulip, il femminello Gino Perugino, la zia al manicomio per gravidanza fuori dal matrimonio, la Villa Tropeano dove ha lavorato mia madre da ragazza, i rioni, la strage.

#Foodistribution, il progetto di relazione culturale sostenuto dalla compagnia napoletana Manovalanza, è arrivato al suo settimo anno di vita, il terzo ai Bipiani di Ponticelli.

Realizzati frettolosamente nell’ ’80 dopo il terremoto, i fabbricati blu sono stati, e sono, la rappresentazione lampante di una specifica idea politica: la reclusione e la discriminazione di classe.

Tra quelle case, che per più di quarant’anni sono state sperate come provvisorie, la vita si è adattata e ha preso il suo corso normalmente, producendo immagini che, per chi è di Napoli, sono molto familiari.

Sono immagini struggenti e bellissime, soprattutto per chi non vive lì.

Tra quelle case, dove la vita ha preso il suo naturale corso come ovunque, l’amianto è la presenza inquietante che pulsa tra i muri sottili e le macchie verdi di orti comunitari.

La vita ha preso il suo naturale corso, naturalissimo come ovunque, in un vuoto, in una voragine, istituzionale.

Nessuno sguardo può permettersi, a questo punto, di essere al grado zero.

In realtà, ed è terribile, la bellezza che noi vediamo è una costruzione; me lo ha ricordato la giovanissima lei, splendida, l’ultimo giorno di rappresentazione pubblica: era triste, le veniva da piangere, stava per finire quel momento, ma poi i suoi pensieri vanno al futuro e mi dice che non vede l’ora di andare via da lì.

La bellezza è emersa nella realizzazione di uno spazio costruito giorno dopo giorno, nelle relazioni.

Quel lungo cortile, così profondamente significato dai trasformativi disegni di luce di Davide Scognamiglio, si è isolato per mezzo dello sconfinamento nel reale dei pensieri letterari di Adriana Follieri: talmente evidente accanto alle penombre dei cortili vicini, quel lungo fascio di colori e voci diventa un momento di straordinarietà, un segreto da condividere.

Potrebbe tuttavia non essere corretto definire “spettacolo” ciò a cui si è assistito, poiché più giusto sarebbe “avvenimento”: quest’ultimo prevede una trasformazione, laddove il primo nasce e svanisce con la presenza di un pubblico. Ospitare l’estraneo all’interno di un momento privato di formazione e benessere è, di per sé, una forzatura di quel patto di fiducia che è nell’intimità di ciò che ci si scambia. Eppure, anche la forzatura può essere un rinnovamento, per quanto problematico.

Le persone presenti in platea, in virtù del fatto che il loro sguardo non sarà mai al grado zero, che rappresenteranno con le loro reazioni le particelle di cui si compone una materia sociale privilegiata, non dovrebbero sentirsi pubblico passivo. Tantomeno dovrebbero sentirsi a proprio agio con le loro emozioni.

Il sentimentalismo deve essere messo in discussione, per lasciare spazio a un piano di comprensione effettivo e partecipe.

Il gruppo dell’osservatorio critico, nei dieci giorni di trasformazione, si è mosso con discrezione pur essendo un corpo estraneo. Ognuno di noi è il frammento della Storia che porta con sé, ed esprime le peculiarità del proprio percorso lavorativo e di vita. Qui, in casa mia, lontana dai Bipiani, ho raccolto i pensieri che i miei compagni mi hanno gentilmente restituito; li ordino e li cedo come se fossimo ancora tutti lì, ospiti, seduti in cerchio, mentre lo straordinario si realizza tra la vita che ha preso il suo normalissimo corso, come ovunque (V.V.M.).

Siamo Carlotta Campobasso, Mario De Mare, Sara Esposito, Valentina Vittoria Mancini e Noemi Marotta.

S.E.: Quando sono arrivata ai Bipiani l’aria era umida e il sole sta già stava facendo la sua spettacolare uscita di scena.
Vi ho osservati da vicino, i visi sono così lontani l’uno dall’altro: ci sono giovani, adulti, anziani e giovanissimi, occhi grandi, occhi piccolissimi, pelli segnate dal tempo e dal sole, sono attori, aspiranti tali e abitanti, qualcuno ride e c’è odore di caffè nell’aria. Ero elettrizzata, ma anche un po’ spaventata.
Ora che posso guardarmi meglio intorno noto le screpolature degli edifici, le pareti di amianto, le scritte tribali che le deturpano, le tapparelle dismesse e lasciate giù a proteggere la privacy degli interni.
Le mie scarpe avvertono il calcestruzzo sdrucito misto a terriccio. Un suolo rovinato, che rende perfettamente l’idea di precarietà di questo luogo.
A pochi passi da noi, in realtà, c’è il centro di Napoli. La sensazione di trovarmi dentro una matrioska è fortissima.
Qualcuno dietro le mie spalle, lo sento, mi scruta guardingo…certo, ovviamente io qui sono un’estranea.
Respiro un po’ impacciata. Per una timida come me sarà una bella palestra, penso.

N.M.: Appena giunta ai Bipiani ho avuto la sensazione che ogni cosa fosse messa lì di proposito, come se lo spazio fosse stato già allestito per lo spettacolo. Sembrava anche che quel luogo stesse aspettando qualcuno o qualcosa. Forse per le cose disposte in un certo modo come le persiane scomposte, il colore delle pareti, il verde delle piante, i fili elettrici, tantissimi, la luce del tramonto, le ombre disegnate sulle superfici. Non ero mai stata a Ponticelli, ma non sentivo di essere in un posto sconosciuto. Le persone che a poco a poco si presentavano avevano dei volti familiari, eppure non le avevo mai viste prima. Questo è un pensiero che si rinnova ogni volta che le guardo.

C.C.: Mi avevano descritto i Bipiani come tutte le periferie del mondo: un posto chiuso, dimenticato da tutti e quindi non abituato a ricevere visite di estranei. Il primo impatto è più positivo di quanto immaginassi.
Queste case sembrano talmente “finte” da diventare bellissime, un set cinematografico.
Mi sembra l’eco di qualcosa che è stato molto tempo prima a cui poter apporre quel velo nostalgico secondo cui il passato è sempre meglio del presente: le tapparelle mezze cadute sono diventate dei reperti, i motorini scassati come fossili da studiare, i colori ormai diventati pastello perché consumati dal tempo; le persone l’unica cosa viva, vera.

N.M.: Era mercoledì, e Adriana inizia a cantare una canzone. Questa canzone viene cantata ogni giorno per tutti i giorni della settimana, e ogni volta ha una strofa diversa. È una sorta di rito.
Paola, propone di fare un training: ognuno può decidere se restare o andare via. Io avevo voglia, ho voglia di esserci. Ci chiede di avere i piedi ben saldi a terra e di immaginare delle radici che nascono dall’asfalto e che salgono lungo le nostre caviglie. Alle caviglie abbiamo delle spugne di acqua calda che innaffiano le stesse. Le radici continuano a crescere fino ad arrivare al diaframma, dietro la schiena e in ultimo ci chiede di portare in alto un filo che collega la nostra testa al cielo.
Sento il qui e ora, sento il peso e la leggerezza del mio corpo, ci sono.

S.E.: Quando iniziamo il riscaldamento pre-prova, Adriana ci trascina a sé con una nenia, un motivo ripetitivo che ricorda tanto i giochi dei bambini. Ci fa disporre in cerchio: gli uni uguali agli altri, nel vecchio patto collettivo del teatro: “Facciamo che io ero”.
Una volta disposti, sento chiamare il mio nome, e Adriana chiede di presentarmi. Ecco, un pizzicore mi prende sulle guance e agli occhi, la gola si secca in un nanosecondo e mi si stampa un sorriso ebete mentre in automatico sento uscire dalla mia bocca “Io sono Sara”.
È diventato l’appuntamento più atteso di queste giornate. Ci si muove ad uno ad uno, all’interno del cerchio mentre si canta, per andare a inchinarsi e salutare tutti gli altri compagni. E qui, avviene una delle mie cose preferite in assoluto, nella vita: guardarsi negli occhi.
Lo ritengo uno degli atti di maggiore fiducia e delicatezza che si possano donare due persone.

C.C.: Grazie al quei metri di distanza, tra il palco e la platea distanza dalle cose siamo più in grado di dare un giudizio imparziale, osservare con la garanzia di non essere guardati.
E se un attimo prima quello che vedevo poteva essere romanticizzato dai miei occhi, un attimo dopo era impossibile farlo.
Il mio sguardo è attraversato dai Bipiani, dai loro abitanti e da tutto il team di Exaudi.
Guardare da così vicino necessita un adattamento. Ma qui, qui è diverso. È talmente diverso da rendermi una scelta così semplice come sedermi sul muretto oppure no, un dilemma irrisolvibile.
Come si sta in un luogo in cui non riconosco coordinate di comportamento già vissute? Cosa resta senza codici? Ne invento uno nuovo? (E come faccio a stabilire se è nuovo?) Copio quello di qualcuno?
Iniziare con degli impulsi. Dire una parola e ascoltare come risuona in quello spazio. Fare un gesto e sentirne l’eco.
Mentre scrivo arriva una signora esile che trema come una foglia. È bella. Una mano ferma l’ha truccata con cura. È la signora Carmela, la mamma di Lillino. Penso al mondo che ci separa. E non mi spiego perché.
La realtà è più forte di qualsiasi astrazione. La filosofia non serve a vedere.

N.M.: Dopo il training, Adriana inizia a leggere e lo spazio inizia a vivere. Gli abitanti e gli attori seguono le parole di Adriana. È un gioco serio. È sera ormai, e c’è un’unica luce direzionata verso il centro che illumina. Tutto prende vita nella finzione. I costruttori di scena portano degli oggetti. In scena questi oggetti perdono il loro significato e la loro utilità, e si trasformano in altro. Gli attori anche.
All’improvviso entra in scena la musica: è il Primo capitolo. Il suono che sento sembra quello di uno scaccia pensieri fatto da conchiglie. Brange distribuisce fogli di giornale agli abitanti e attori che diventano un tutt’uno con le pareti dei bipiani. Sembra sappiano esattamente cosa stiano facendo. Il Sig. Antonio entra in scena con un’aspirapolvere, le attrici sono ancora un tutt’uno con le pareti.
Adriana pronuncia queste parole: “Gli abitanti prendono vita!” ma nessuno ancora si muove.
Il Sig. Antonio ha quasi finito il suo giro di aspirapolvere e sta per uscire di scena. La sua ombra è proiettata sulle pareti, io vedo solo quella mentre va via.
Entrano in scena gli oggetti: gli zerbini, i tavoli, tre tappeti e tre gatti.
“Si sentono le voci degli antenati” dice Adriana, ma non si sente nessuna voce. Alcuni abitanti entrano in scena, si stendono sui tappeti come se fossero morti. Brange porta delle tazzine da caffè ​sul tavolo, una alla volta. Capisco che gli antenati sono gli abitanti e gli attori attaccati al muro insieme ai fogli di giornale. Sono sempre stati lì per tutto questo tempo.
La musica cambia, c’è vento.
“Non c’è più equilibrio” dice Adriana. C’è una tromba d’aria e cambia di nuovo la musica. Gli abitanti immaginano di entrare in una casa nuova. I gatti erano delle persone. La luce si affievolisce.

S.E.: Che sia prova o spettacolo, in questo punto, qui, succede qualcosa, il fermento degli abitanti del luogo è palpabile, gli occhi si accendono come lampadine, colpiti dai riflettori montati per l’occasione.
In un attimo, lo spiazzale rovinato davanti ai miei occhi diventa mille e più luoghi, si creano stanze, giardini, palazzi, treni e navi, ci sono animali che riposano nelle loro case, uomini e donne distinti che ricercano i loro luoghi, amori spezzati, gioia, voglia di riscatto, rabbia, possesso, ricordi, speranze.
Si alza il vento e i corpi, attaccati ai muri come manifesti funebri, si strappano e volano via, inseguendosi, girando su loro stessi, aggrappandosi gli uni agli altri, per non lasciare quel luogo, in nessun modo.
Una voce roca, una presa di coscienza, e mai cosa più vera fu detta: “io insozzo il silenzio”.
Uno dei più giovani chiede “Perché ve ne siete andati?”, e tu non puoi fare altro che avvertire dentro un mondo di delusioni, di speranze spezzate, di richieste inascoltate, e pensi che queste stesse parole dovrebbero essere accompagnate dal “E se restiamo, perché restiamo?”.

C.C.: Davanti a me si palesa un’orchestra di corpi che suonano a volte assieme, a volte ognuno una propria partitura. Visioni atemporali che mi ricordano cose che non ho mai vissuto. Mi aggrappo alle briciole riconoscibili per me per poi ricredermi. Indizi criptici mi mettono subito nelle condizioni di sospendere la voglia di capire.
Una voce all’esterno stabilisce uno spazio e tempo impalpabili. Mi affido all’astrazione.
Penso alle parole di Byung-Chul Han, e tratto ciò che vedo come un rituale magico di cui non è necessario capire le parole, bensì accettarle come segni vuoti grazie al mistero dei quali arrivo alla magia.
Eppure, dopo un po’ fatico ad abbandonarmici.
Dinanzi ad uno spettacolo così simbolico, poetico e per certi versi intellettuale, dove anche io, sebbene faccio questo di mestiere, ho sentito che quello che stavo afferrando non era che una piccola parte del lavoro di regia, drammaturgia e concept del progetto, mi sono seriamente interrogata su cosa ci fosse effettivamente della comunità che avevo davanti in quello spettacolo.

V.V.M: Serena ha avuto, secondo me, un’ottima idea: a fine avvenimento, le persone dovrebbero essere accompagnate all’entrata del cantiere in cui sta avvenendo, con troppa lentezza, la costruzione delle nuove case. Non bisogna mai dimenticare che esiste una realtà dietro la finzione costruita insieme. La bellezza che qui viene realizzata è un’operazione di selezione e manipolazione del reale. È giusto mostrare la preparazione dello spazio come dichiarazione di un processo di trasformazione.
In questi casi due sono gli strumenti a cui adeguarsi: il documentario o la poesia. Il documentario ha in sé una criticità difficile da sciogliere, dal momento che l’evidenza non esiste. Scelta allora la poesia, bisogna essere consapevoli del suo limite strutturale: la vita esiste al di fuori di qualunque giustapposizione poetica, ed è evidente.

N.M.: Il settimo giorno c’è stato un momento di confronto fra tutti noi, Adriana ci ha invitato a porre delle domande nel caso avessimo avuto delle perplessità o delle curiosità.

C.C.: Ho iniziato a fare teatro con dei brechtiani, in quel periodo mi affacciavo alla politica, ascoltavo Il Teatro degli Orrori e le vecchie interviste di Pertini e Berlinguer. Per anni ho praticato e guardato il teatro con la convinzione che se lo spettacolo che vedevo o facevo non era fruibile in modo o nell’altro per tutt3, non aveva motivo di esistere.
Col tempo, le mie convinzioni hanno conosciuto nuove sfumature, e dare risposte nette è diventato più difficile.
Ma torno ancora indietro.
Ho iniziato a fare teatro per puro e semplice caso; avevo bisogno di una scusa che mi permettesse di stare qualche ora fuori da una casa asfissiante. Non ero mai stata a teatro in tredici anni di vita, né ce n’era uno nel mio paese. Quella che doveva essere una cosa passeggera, si è rivelata la mia vocazione.
Negli anni, durante laboratori di ogni tipo, spesso mi veniva posto il quesito fatidico: perché fai teatro? Una domanda, la cui apparente semplicità per me ha significato la necessità di trovare una risposta alta, piena di significato. Non mi sono mai messa nelle condizioni di rispondere sinceramente e a cuore aperto.
Torniamo al presente. Questa domanda, l’abbiamo posta alle e agli abitanti dei Bipiani.
Perché fate teatro? Perché fate questo?
Perché mi fa stare bene
Perché mi fido di loro
Perché mi piacciono le persone con cui lo faccio



I prossimi due testi sono di Mario De Mare (ndr)


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