di Alisa Lutchenkova e Carlo Martello
fotografie di Alisa Lutchenkova
Qualche tempo fa conosco per caso il lavoro di Alisa Lutchenkova e ne resto folgorato. Le ho chiesto subito se fosse interessata a un approfondimento di un suo lavoro e lei ha scelto Facing myself, un lavoro molto personale che abbiamo provato a dipanare oltre la potenza intrinseca delle fotografie. La piccola chiacchierata che segue è questo tentativo.
Al termine dell’intervista invece, pubblichiamo una successiva interpretazione di una fotografia del progetto Facing myself, frutto della collaborazione tra Alisa Lutchenkova e Roberto Pesando.
Carlo Martello: Ciao Alisa, innanzitutto, sarà banale, ma come nasce il progetto Facing myself? Quali sentimenti hanno dato il via alla pratica fotografica? E poi, eri già sicura di usare questo tipo di fotografia, la doppia esposizione, la ricerca di colori freddi, o sono decisioni che hai preso strada facendo, influenzata magari dal contesto naturalistico?
Alisa Lutchenkova: Facing Myself è nato in un momento di stacco profondo. Avevo lasciato per un attimo tutte le mie routine e mi trovavo in montagna, in trasferta. Era l’estate del 2023, ed erano passati dodici mesi da quando ero diventata mamma single. Faticavo a trovare spazio per me, per capire chi ero diventata e in che direzione volevo andare.
Un anno prima avevo lavorato su Finding Color, un progetto nato dall’esigenza di ritrovare bellezza nel quotidiano, soprattutto nei paesaggi urbani. Ma Facing Myself nasce da un’urgenza diversa: più interiore, più silenziosa.
La tecnica della doppia esposizione mi ha sempre attratta. Mi piace sovrapporre le immagini perché non credo nelle verità uniche: ogni esperienza, ogni identità, è fatta di strati. Cercavo da tempo un modo per portare questa visione anche in ambienti naturali.
E poi, un giorno, dopo un lungo viaggio, tanto lavoro e ancora più pensieri, mi sono ritrovata in silenzio, in montagna. Ho preso la macchina fotografica, l’ho ruotata di 180 gradi e ho fatto due scatti sovrapposti del paesaggio che avevo davanti. Appena li ho visti, ho capito: era quello che stavo cercando. Era il mio volto, ma anche il mio rifugio. Era un modo per affrontarmi.
I colori freddi sono sempre stati parte di me. Da piccola, mia mamma diceva che era perché ero malinconica. Forse è vero. Ma per me quei toni parlano di profondità, di introspezione, di tutto ciò che si muove anche quando fuori è immobile.
C. M.: Nella descrizione del progetto poni l’attenzione al tema dell’identità, il quale si intreccia inevitabilmente con quello dell’identità artistica. Perché la fotografia, nel tuo caso, riesce a esprimere questo sentimento identitario? E quanto è mutevole l’identità nel corso della tua carriera di fotografa? Cosa si muove e cosa invece è più radicato?
A. L.: La fotografia, per me, è sempre stata un modo per entrare in mondi diversi. Mi ha aperto porte che spesso restano chiuse ad altri. Quando scatto, non sto fuori dalla scena — ci sono dentro, completamente. Non uso quasi mai il live view, preferisco guardare nel mirino. È come se mi immergessi davvero in quello che sto vivendo.
I progetti personali, invece, sono una scoperta più recente. E sono anche una sfida diversa. Perché invece di entrare nei mondi degli altri, mi trovo ad affrontare il mio. Non racconto quello che vedo fuori, ma quello che sento dentro.
Una cosa però non è mai cambiata: vado sempre molto a sentimento. Mi lascio guidare dall’intuizione, non da uno schema. Anche nei lavori commerciali, dopo aver scattato “la foto giusta”, cerco sempre un momento in cui posso andare oltre, fare uno scatto solo mio.
C. M.: In Facing myself c’è una costante ricerca della simmetria, in molti casi si avverte la necessità di fotografare un movimento a spirale, che ricorda il famoso intreccio di yin e yang. Allo stesso tempo, in questo progetto, attraverso la simmetria e il movimento, si generano nelle fotografie degli spazi “altri”, mi viene da dire alieni alla realtà fotografata (per quanto manipolata dalla doppia esposizione). Sono spazi che creano profondità nell’occhio dell’osservatore; mi chiedo se è lì, in questa ipotesi di fuga intesa anche come punto di fuga, che va ricercata l’identità della fotografa, che poi saresti tu. Ti va di approfondire questo discorso?
A. L.: Sì, c’è una ricerca della simmetria, anche se in realtà non è una cosa che mi appartiene in modo naturale. Nei paesaggi urbani, molto geometrici, cerco sempre di rompere quell’ordine muovendo la macchina, ruotandola, sovrapponendo più esposizioni — spesso cinque, perché mi piacciono i numeri dispari.
Con la montagna, però, non funzionava. Quel paesaggio non chiedeva controllo, ma ascolto. Così, a un certo punto, ho semplicemente girato la macchina di 180 gradi. E in quella rotazione è nato lo specchio: un doppio che non genera simmetria perfetta, ma una spirale, un occhio, a volte un labirinto.
Per me non è una fuga. È un invito. Un’apertura verso qualcosa che non puoi vedere a prima vista. Uno spazio in cui potersi incontrare davvero, se si ha il coraggio di guardare.
C. M.: Cosa significa per te, come persona e come professionista, utilizzare delle tecniche di fotografia che producono poi una rappresentazione della realtà modificata rispetto alla realtà percepita dall’occhio umano? Trovo molto interessante in Facing myself l’uso della doppia esposizione e allo stesso tempo la ricerca, mi sembra, di una gamma di colori molto specifica. Il risultato trasmette, per me, una ricerca identitaria che muove da una condizione non solo di pressione, come tu racconti nella breve descrizione del progetto, ma anche di chiusura, di freddezza. Facing myself diventa allora anche il tentativo di liberarsi da questa “glaciazione”, non si limita alla ricerca identitaria ma la costruisce.
A. L.: Non credo che esista una sola realtà. Possiamo guardare la stessa scena e vedere cose completamente diverse, a seconda della nostra angolazione, ma anche del nostro vissuto.
E poi, penso che l’opera d’arte non succeda solo quando la si crea. Succede mentre la si cerca. E continua a succedere ogni volta che qualcuno la guarda.
Ad esempio, tu hai letto nei miei colori freddi una forma di distanza o chiusura. Ma per me sono colori di pace. Il blu non urla, non pretende attenzione. Ti lascia il tempo. Ti invita ad ascoltare. E magari a fermarti un attimo per guardarti dentro.
C. M.: In questo progetto e in generale, quanto influisce il paesaggio nel tuo lavoro? Qual è il tuo rapporto con il paesaggio naturalistico e con quello urbano?
A. L.: Per me il paesaggio è sempre stato un frame — il contesto in cui si svolge una storia. Non mi definisco una fotografa di paesaggio in senso classico: nelle mie immagini deve esserci qualcosa in più, una presenza, una narrazione.
La natura, però, è uno spazio in cui mi sento libera. Non mi chiede niente. Non mi giudica. È uno dei pochi luoghi dove posso semplicemente essere. E forse per questo, lì riesco a fotografare in modo più sincero.
Il paesaggio urbano, al contrario, a volte mi limita. Mi affascina, ma richiede più strategia. La natura, invece, è la mia alleata silenziosa. È lì che, spesso, trovo la mia verità.

Il testo che segue è di Alisa Lutchenkova e Roberto Pesando (ndr)
Quest’opera nasce dal mio incontro con Roberto Pesando.
Roberto fa arte generativa, che combina algoritmi, matematica e computer grafica per creare opere visuali.
L’arte di Roberto Pesando si sviluppa attraverso un processo creativo dove l’obiettivo non è creare solo l’opera visuale, ma anche creare gli strumenti per generarla.
Così come un fotografo potrebbe costruire una macchina fotografica e delle lenti speciali per creare effetti unici, Roberto crea e sviluppa i propri strumenti con cui crea i propri lavori, e da lì parte per creare qualcosa di unico, com stile geometrico o assolutamente naturale, come l’aria oggetto di questo lavoro.
Le linee blu sulla fotografia trasformano il vento in segni concreti. Sfruttano formule matematiche, un pennarello e un plotter a doppio asse per rendere visibili flussi d’aria altrimenti impercettibili. Questa collaborazione dà nuova vita al progetto. Perché mi piace l’idea che, dopo aver incontrato se stessa, l’artista incontri anche altre persone, altre realtà. E ognuna lascia tracce, impronte durature.
Ringraziamo Alisa Lutchenkova e Roberto Pesando per la disponibilità e per aver reso fruibili le loro opere.
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