di Marco Andrea Radessi
copertina di Chiara Casetta
Sergio è appoggiato al palo del semaforo, aspetta gli altri della band per l’apericena. Tra lui e il bar, la strada da attraversare. Stringe il pugno, nocche bianche, cubetti di ghiaccio. No, ho tenuto per tutto il week-end, un altro blank no. Il primo, durante l’assolo di chitarra, poche settimane fa al ‘cinka blues’, dopo quel maledetto: «venga da me, venga», l’ultimo del team ad essere chiamato. La mente che si fa tabula rasa, le prossime note pensate precipitano nel nulla buio, pixel disintegrati, la mano crocifissa al dodicesimo tasto. In testa, lo stesso nodo che in gola strangola il tentativo di recupero, dissonanze alla Stockausen. Inascoltabili, come il tono minaccioso del nuovo boss, venga, che rimbomba e addio giro finale con la bella sequenza di diminuite. Strada chiusa. Era iniziata l’era della paura, dell’inazione. Bloccato sul divano per i prossimi dieci week-end. Sergio l’aveva pesata quella paura, la chiama paura, ma è più un liquido paralizzante, tipo che si inietta per gli esperimenti su animali. Poco più del peso dell’anima.
Stasera no, è domenica e questo week end è andata bene. Una combinazione di sinapsi anestetizzate novanta per cento benzodiazepine e dieci volontà residua, messaggio positivo trasmesso lungo i gangli, un colpo di culo, la mano si distende, le nocche rosee. Sfila una cartina, pizzica il giusto di tabacco. E’ fatta, fa. Gli occhi fissi sul sottile rettangolo beige stretto tra le dita sinistre. Con le destre sparge tabacco, lo aggiusta perché sia uniforme. Col sapore di merda e amarena del Lexotan, ma mi sono messo in moto, pulito casa, rimpinzato il frigo, jogging gambe toniche da medusa ma sono uscito, prove con la band e tra poco decidiamo i brani da inserire nel prossimo cd, parla alla sigaretta, come alla canna di una pistola rivolta a se stesso. La leccata lungo l’adesivo è delicata, come la prima boccata. Si stacca dal palo, cerca intorno di che distrarsi. Conta quanti veicoli passano nel tempo di un semaforo verde: l’ultimo, rimane intrappolato nello spazio del non colore tra l’arancione ed il rosso. Io no, scongiuri. In questo week-end, no, la linea dei pensieri non si è imbrigliata nelle brutte storie dell’ufficio. Si ricorda di aver salvato il file ‘CLIENTI 1’, per il lavoro inutile di lunedì. Boccata liberatoria.
Ne mancavano due di anni alla pensione, quando il dottor Teschio attraversò per la prima volta l’open space dove sta Sergio e i colleghi. Il sorriso sembrava appunto quello di un teschio: scopriva minuscoli denti bianchi, distanziati tra loro dietro labbra tirate, quasi sparite. Li chiamò uno per uno. Sergio per ultimo, nel tardo pomeriggio. Sulla scrivania del nuovo boss arrivato con la missione di razionalizzare le forze, la cartellina dai bordi ingialliti, con sopra scritto il suo nome cognome data di assunzione: 8 aprile 1984. Mansioni: responsabile assistenza post vendita.
«L’anziano del gruppo», gli aveva detto il boss, carezzandosi l’ordito jacquard, attorno agli incroci senza fuga dello scappino perfetto della Dunhill.
«Eravamo in trecento. L’assistenza ai clienti l’ho progettata io con i programmatori di allora. Conosco i prodotti, le parti di ricambio, ero il riferimento per tutti i clienti. Adesso se la sono portata via quelli che ci hanno comprato. Pensi, dottore, mi telefonano, lamentandosi di dover chiamare il call center in Ungheria per riparare un frigorifero. Io potrei…».
«Deve registrare riga per riga queste schede nel nuovo sistema operativo, così la nuova casa madre legge i dati in tempo reale: un investimento di decine di migliaia di euro. Un costo dal quale dobbiamo rientrare, lei capirà», concluse, consegnandogli due raccoglitori di schede prodotti compilate a mano e coi bordi smangiati dal tempo che scoppiavano dalle custodie.
«Di questo lavoro non so nulla. Era finito all’aiuto magazziniere. I miei compiti e il mio livello sono scritti nel mansionario custodito dall’ufficio del personale», si aggiustò sulla sedia, tirò eretto il busto, proseguì: «in caso di modifica come mi chiede ora, va aggiornato e firmato dal direttore e dal dipendente per accettazione», concluse, ripetendo a memoria la procedura. I palmi bagnati scivolarono sulla custodia del raccoglitore. Teschio se ne accorse, seguì lo scivolìo della mano, emise il sorriso fermo, senza senso, di un baro.
«Non glielo sto chiedendo. Da ora, questo è il suo lavoro, fin quando deciderò di cambiarlo è legale, possiamo farlo. Con me cambiano i ritmi», la voce grave, pastosa, invase l’ufficio, Sergio sentì le cosce sudate, appiccicarsi ai pantaloni. Il sedile caldo. I polsi pulsavano, le tempie tempestavano.
«Non è questione di ritmi. Ma di tempi. Questo ritmo esce dal tempo. Questo lavoro è data entry», sembrava l’inizio di una protesta, ma Sergio era solo, nell’ufficio solo l’odore dei colleghi passati prima di lui, sfilava nello spiraglio della finestra socchiusa.
«Ah, già. Il musicista dell’ufficio», proseguì: «bisogna che lei si adegui alle richieste e si metta nelle condizioni di darmi quei risultati», gli disse, indicando i faldoni.
«Straordinari, non posso, non ne ho mai fatti», rispose. La cura della madre assistita, le prove col gruppo, Sergio sentì qualcosa rompersi dentro: il respiro mescolato a poca saliva insabbiava che a sessantanni non potevano pretendere da lui la velocità di un ventenne e che aveva una vita oltre i cancelli della fabbrica e quella sera doveva passare dal liutaio per ritirare la chitarra. Sergio non sapeva dove l’avrebbe portato tutto quello che gli era rimasto tappato dentro, compresa la spinta per saltare oltre la scrivania, spegnere quello sguardo, silenziare quel tono, dare un senso alla perfezione di quello scappino. Cosa ci avrebbe fatto?
«Non le togliamo nulla, è lei che deve decidere a cosa rinunciare. Io la chiamerò all’ora in cui ne avrò bisogno», queste parole arrivarono come un algoritmo che non lascia scampo. «È in atto la ristrutturazione, lei è vecchio, uno stagista costa un terzo alla società, zero contributi. Se la licenzio, non posso assumere. Se ne deve andare lei. Io sono qui per portare a termine il progetto che mi hanno affidato», una bunker buster raggiunse Sergio fino in fondo, dove custodiva ogni sensazione che lo faceva muovere.
«Non posso più spedire e ricevere mail», disse.
«Non è più previsto che lei abbia una casella. Il suo riferimento sono solo io. Ah, mi porti anche il token. Ho revocato il suo accesso alla banca. Da oggi, ho autorizzato la collega». Tornò alla scrivania prese la tavoletta nera e la consegnò al boss: Sergio si sentì scippato di una fiducia custodita da quindici anni. «Lo tenga lei Sergio», gli aveva detto il vecchio direttore «so in che mani sta». Chiuse l’aggeggio in una busta e scrisse il nome della collega a cui era destinato. Da ultimo, sfogliò il curriculum di Sergio, lo fece scivolare verso l’orlo della scrivania, i fogli rimasero in bilico, sporgendo per metà nel vuoto e Sergio con loro. Li fissò, voleva allungare una mano, come si fa per tirare su uno che penzola sul bilico di un crepaccio.
«Metta questa cartellina sulla scrivania della segretaria e buon week-end», disse Teschio. Sergio pesò i suoi giorni aziendali nel palmo, li lasciò sulla posta in arrivo, come gli era stato detto. Capì di doversene andare, il colloquio era terminato. Si staccò dalla sedia e infilò il giubbotto. Attraversò l’open space e per la prima volta dal 4 aprile 1984, sentì nemici le mura, i corridoi, le porte degli uffici, ogni angolo un agguato, anche il distributore di caffè. Proseguì verso la guardiania come un intruso che non vuole farsi notare. Non rispose al saluto del portiere e sul marciapiede di via Ripamonti, si sentì solo. Una roba gli strinse il pomo d’Adamo, come un carciofo che va su e giù, rimbalzò fino nei visceri. In cima al cavalcaferrovia guardò i tetti dei vagoni di un treno merci, voglia di saltargli sopra. Non sono costretto a restare. All’incrocio di Porta Romana con Santa Sofia sorrise: il pensiero di essere una pedina nella nuova società, più snella e smart, gli ingombrò la testa per un secondo: forse ha ragione ‘teschio’, sussurrò al manichino nudo e alla commessa che disarticolava testa e braccia per infilarlo in un sacco: dopo la ristrutturazione mi ricollocano e ci scappa un premio. Non entrò da Panarello per comprarsi un paio di kranzini per la sera.
A casa, ricevette un whatsapp: la tua chitarra è pronta, ti abbiamo aspettato.
Il futuro per Sergio era diventato un presente immobile, messo di traverso, cavalli di frisia. Per cena aprì una lattina di sgombro naturale e poca insalata.
Ore 2:27. Un sobbalzo nel letto lo riporta allo stato di veglia. Il battito del cuore un petardo tra le costole. Contro il plafone della sala, proiettati dalla luce del lampione nella strada, vede disegnati due fogli, i profili della porta finestra. Gli occhi scorrono righe immaginarie. Incolonna cifre. Parte dei trentamila a risparmio vanno per la badante di sua mamma. Poi i costi ‘per vivere’, scrive: spese condominiali, riscaldamento al minimo, tabacco e cartine, auto, quota di spesa settimanale per sala prove e vacanze di una settimana all’anno in b&b con bagno in comune. E quelli ‘per vivere meglio’: cancellati, dice, fissando la pagina sul plafone, se mi licenzio e rimango a casa non ci sto con i costi. Il riflesso dei fari di un auto attraversa il plafone, brucia fogli e progetti.
Stasera no, dice, schiaccia il mozzicone, con un calcio separa due tortore che si contendono una crosta di pane a bordo strada. Controlla il bar, loro non ci sono ancora. Il sole estivo allunga la giornata, posticipa la fine. Crea spazi di luce. Illusioni. Tempi vuoti. Arancione rosso. Tre quattro secondi. La linea continua, come nella pubblicità, si interrompe, un crepaccio di pochi millimetri. C’è un saltino da fare. Pochi metri dalla vetta: alza la testa, sfiora la consistenza del panorama mozzafiato, l’ultimo appiglio, il sordo fracasso di un osso che va in frantumi, scivoli in fondo, da dove sei partito. Basta poco per crollare. Anche meno. Sembra che non sei mai partito.
Si regge al palo del semaforo. Lo schermo del computer scivola dai gangli, si allarga sulla retina, gli si para davanti. Io, dice a se stesso, ‘CLIENTI 1’ tra i miei files non lo trovo. Io mi sono dimenticato di salvare. Il cervello come i cavi aggrovigliati delle cuffiette.
Sergio è in piedi, in mezzo alla strada, a cavallo tra le due corsie, come se il traffico non esistesse e neanche il furgone in arrivo a tutta velocità, non sente lo smartphone che gli vibra in tasca né vede i due amici che dalla vetrata del bar gli sorridono gesticolando, per farsi raggiungere. Non vede più nemmeno il bar. Divano e merdamarena.
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