di Maurizio Totaro
treno in partecipazione statale offerto da Julio Armenante
Marianna uscì dal sontuoso portone del centro e si chiuse il cappotto, anche se non riusciva a sentire freddo, l’aria frizzante di metà dicembre che le tonificava il petto come balsamo. Avrebbe raggiunto la stazione a piedi, attraversando la città invasa dal traffico e dai turisti che si affannavano per i familiari saliscendi di fontane, piazze e porticati, con la sensazione che per una volta non ci sarebbe stato bisogno di controllare compulsivamente l᾿orologio per accertarsi di arrivare in orario. Gli edifici sporgevano plasticosi come giocattoli, gli alberi di un verde così saturo da sembrare artificiali, il cielo intonacato di fresco. Indossò gli occhiali da sole e si lasciò guidare da gambe che toccavano a stento l᾿asfalto, tanto le sentiva leggere. La seduta di migrazione onirico-transitiva, così l’aveva definita Rodolfo, si era prolungata per tutta la notte e oltre.
C’erano stati già due ospiti quando era arrivata, una coppia di trentenni di cui dimenticò subito i nomi, studenti del padrone di casa, dottorandi non ancora disillusi. Si era accomodata con loro sul divano mentre Rodolfo preparava un infuso freddo in cucina.
«Marianna, dobbiamo berlo tutti prima di cominciare» l’aveva incoraggiata. «Puoi anche sorseggiarlo, se preferisci. Poi ci spostiamo di là». Aveva un sapore amaro, la consistenza fangosa, le foglioline minuzzate che le rimanevano tra i denti e sulla lingua. La coppia di giovani aveva tentennato, per poi tracannarlo come un cicchetto da bar, tenendosi per mano. Un conato di vomito aveva scosso il ragazzo, e la ragazza le aveva rivolto un sorriso. Marianna aveva ricambiato e buttato giù il resto della tazza.
Lei e Rodolfo si conoscevano da una vita, eppure non era mai stata a casa sua. Scaffali zeppi di libri ricoprivano le pareti del salotto, dalle travi del soffitto pendevano bracieri di rame che effondevano nell’ambiente un vapore lattiginoso. Stranamente, la camera le ricordava il deposito di bevande vicino casa sua, o meglio ex casa sua, a Bari. I soffitti alti, l’ambiente buio, l’odore di polvere, la promessa di un altro mondo a portata di mano, stipata su scaffali che salivano fino al soffitto. Niente casse di vino o birra però, né bottiglie da litro di vodka e gin, ma libri e statuette e ninnoli di ogni tipo, collezionati dal padrone di casa durante la sua brillante carriera accademica. Le ci volle qualche minuto per notare la portafinestra in fondo alla stanza e la tenda che la copriva. L’unica fonte di luce erano dei candelabri in ferro battuto sul pavimento.
Rodolfo aveva invitato gli ospiti a formare un cerchio sul tappeto al centro della stanza, a gambe incrociate. Si era avvicinato agli scaffali, era salito sulla scala, e si era allungato fino a prendere una statuetta da una mensola in acciaio. Proveniva da un’area degli Altai dove Rodolfo aveva trascorso diversi mesi non con uno sciamano – era stato categorico su questo – bensì un mediatore del luogo che si prendeva cura dei tumuli funerari di un’antica popolazione nomade ancora poco conosciuta.
«Chiamarlo sciamano sarebbe riduttivo», disse, il luccichio delle candele negli occhi. «Custode?» ipotizzò il giovane.
«Quasi. Direi più un guardiano».
Marianna aveva afferrato un cuscino, stringendoselo al petto. I motivi geometrici del tappeto si espandevano e contraevano al ritmo delle parole di Rodolfo. L’intruglio iniziava a fare effetto.
Rodolfo posizionò la statuetta al centro del cerchio. Una figura antropomorfa dal busto sottile e gli arti lunghi e affusolati, la testa un vuoto coronato da due cerchi concentrici da cui si irradiavano, alternandosi, delle piccole biglie di rame e argento. Alla luce delle candele i metalli ondeggiavano di riflessi vermigli, le palline che ruotavano come minuscoli pianeti nel raggio d᾿attrazione di un buco nero.
«Lascia andare il cuscino», la mano tesa verso Marianna. Era insolitamente morbida e umida. Al solo contatto una lingua di calore le aveva attraversato il corpo.
Poi Rodolfo aveva intonato una litania, gli occhi che si muovevano convulsamente sotto le palpebre.
Le luci avevano tremolato, la tenda si era gonfiata, le candele spente sul pavimento, i bracieri improvvisamente freddi e bui. Ed erano giunte le voci. Gutturali, sibilanti, sibilline.
Vi informiamo che il treno Frecciargento 4712, diretto a Bari Centrale, partirà tra pochi minuti. Si invitano eventuali accompagnatori a scendere dal treno. Grazie.
Marianna lanciò il mozzicone tra il treno e la banchina e salì a bordo. Il vagone si stava riempendo, i passeggeri ingolfavano il corridoio, i portaoggetti sopraelevati già stipati. Avrebbe poggiato lo zaino sotto al sedile, poco male.
Controllò il biglietto: 9C, lato corridoio. Scompartimento a quattro. Peccato che il suo posto fosse occupato.
«Scusi, questo sarebbe il mio posto», sorrise.
L’uomo continuò a battere sui tasti del laptop. Incurante.
«Signore, scusi, è seduto al mio posto», ripetè.
L’uomo alzò lo sguardo, le mani sospese sulla tastiera.
«Questo è il mio di posto», e tornò a battere sulla tastiera, più forte.
«No, guardi, ho qui il biglietto».
«È sicura? Me lo fa vedere?», un suono sgradevole tra lingua e palato.
Marianna sospirò mostrandogli lo schermo del cellulare. L’uomo tese il collo, la cravatta che pendeva sul suo vicino. Tornò a poggiarsi sullo schienale e tirò fuori anche lui il cellulare. Pigiava lo schermo come faceva con la tastiera, con foga. «È che sto lavorando, sa», disse, senza staccare gli occhi dalla carrellata di icone. Di solito questo tipo di atteggiamento l’avrebbe irritata. Le ricordava il suo ex marito, Carlo, il suo usare la scusa del lavoro per giustificare tutto: le sue assenze, i suoi scatti d’ira, le sue recriminazioni, persino le cattive maniere.
L’uomo era finalmente riuscito a trovare il biglietto. «Ha ragione, mi scusi», disse tenendo gli occhi bassi. «Le dispiace se ci scambiamo di posto? Il mio è l᾿8C». Indicò con la testa il sedile alle spalle.
Marianna prese posto nella fila posteriore, di fianco a una ragazza con le cuffie. Ricordò di non avere con sé le proprie.
Nel sedile davanti riprese lo schiocco incessante dei tasti.
Buonasera, e benvenuti a bordo del treno Frecciargento 4712. Il treno fermerà a Caserta, Benevento, Foggia, Barletta, e arriverà a Bari Centrale alle ore 18:21. Trenitalia vi augura buon viaggio.
Le voci incorporee degli annunci in stazione e a bordo treno, così lontane ed eteree, e allo stesso tempo così familiari. Né giovani né anziane, senza un accento riconoscibile. Marianna non era mai riuscita ad associarci un volto. Ricordava vagamente di aver letto che non provenivano affatto da labbra umane, ma da una combinazione di codici informatici e modulazioni del suono. Forse, come le voci udite a casa di Rodolfo, provenivano anch᾿esse da un altro piano della realtà, dagli spazi tra mondi e molecole, dal nulla che tiene insieme atomi e galassie.
Il treno uscì dalla stazione, solcando la città con il suo solito dondolio. Al suo fianco la ragazza riposava gli occhi sotto gusci di ombretto verde. Non era un caso se molti viaggiatori si addormentavano all᾿inizio del viaggio, anche di giorno, prima che il treno prendesse velocità. Ai lati, i palazzi abbandonavano le pretese per divenire semplici edifici, più bassi e radi, passando dall᾿alternanza di smalti alle divise del cemento. Il cielo si allargava, apparivano le montagne e i campi scorrevano roteando. A quel punto diventava difficile addormentarsi. Meglio farlo prima.
Marianna aveva i sensi acuminati. Il tessuto sintetico del poggiatesta le attraversava i capelli solleticandole la nuca. Era pervasa da una strana lucidità, la sensazione che qualcosa fosse cambiato. Il ronzio nell’orecchio un᾿eco delle rivelazioni nebbiose della notte precedente.
Era stato Rodolfo a far conoscere Marianna e Carlo tanti anni prima, lei una vecchia amica di scuola, lui l᾿esotico compagno di studi d᾿università. Marianna glielo rinfacciava ancora, tra il serio e il faceto. Aveva accettato il suo invito con titubanza. Non tanto per timore di quello che sarebbe potuto accadere, quanto più per non continuare a prendersi in giro. Tornare a vivere a Roma dopo venticinque anni non era stato semplice. Rodolfo l᾿aveva introdotta al suo giro di accademici, e frequentare quell᾿ambiente non aveva fatto altro che ingigantire i rimpianti per le scelte fatte e le opportunità mancate. Quando Carlo aveva vinto un assegno di ricerca a Bari, la sua città, Marianna lo aveva seguito. All᾿epoca era incinta di cinque mesi e il trasferimento sarebbe stato comunque temporaneo, così come la decisione di Marianna di sospendere il dottorato. Ma si sa come vanno queste cose. Stefano, il loro unico figlio, era nato e cresciuto lì.
Rodolfo aveva cercato di confortarla per un paio di mesi, quando le menzionò della seduta.
«Se non altro per avere un senso di closure», erano seduti a un tavolino su via Tiburtina, sul marciapiede il tipico viavai di studenti e anziani con i carrelli della spesa. «Aprirsi per chiudere».
Marianna aveva annuito con le ciglia mentre sorseggiava il caffè.
«Dimmi un po᾿ se ho ben capito, mi stai dicendo di invocare Stefano. Una seduta spiritica, insomma».
«E-vocare», aveva precisato Rodolfo. «Chiamare fuori», chiuse le mani ad artiglio portandosele al petto, come se impugnasse un attrezzo in palestra.
«Non scherzare su queste cose», si era accigliata.
«Non sto scherzando, affatto. È una cosa che ho già sperimentato in prima persona». Piegato sullo sgabello, la luce del sole gli passava tra i pochi capelli sottili e ostinati, arrossendo la cute. «Senti Marianna», continuò, «non sono qui per dirti come affrontare la perdita di tuo figlio. Lo sai. E poi, scusa, non si dice che i cinquanta sono i nuovi quaranta? Capita spesso di avere una crisi alla nostra età».
«Crisi? Questa non è una cazzo di crisi, Rodolfo. Stefano è morto, porco… non mi far bestemmiare».
«Lo so, lo so, ci mancherebbe. Volevo dire che è un momento di passaggio, e come tale è complesso. Il passare da uno stato all᾿altro richiede la capacità di attraversarsi, la forza di continuare su una strada sconosciuta. Stefano è in viaggio, sai? Non credi che vorrebbe che tu stessi bene?»
Marianna aveva chinato la testa. Certo che lo credeva, ma a che importa ciò che vorrebbe un morto. Rodolfo attendeva in silenzio.
«D᾿accordo proviamo», non le restava molto da perdere.
Siamo in arrivo a Caserta, con un ritardo di dieci minuti. Trenitalia si scusa per il disagio.
Nel corridoio, i turisti in fila indiana sprizzavano di un entusiasmo tanto alieno quanto la loro lingua, i vestiti troppo leggeri per la stagione, gli occhiali da sole in testa. Tenevano gli zaini davanti, o voltavano la testa per controllarli, tastandosi pensierosi le tasche. Dal finestrino gli alberi sul viale della Reggia erano grigi e spogli. Marianna rimase seduta, non c᾿era abbastanza tempo per una sigaretta.
Al suo fianco, la ragazza si svegliò riemergendo da un᾿apnea. La guardò terrorizzata, guardò fuori, si voltò di nuovo verso Marianna. Sembrava non sentirsi ancora al sicuro da qualsiasi cosa la stesse rincorrendo in sogno. Non si tolse le cuffie. Si strofinò gli occhi. Marianna si alzò per lasciarla passare, continuando a osservarla mentre la ragazza si distendeva sulle punte e raggiungeva lo zaino nel portaoggetti. Sfoggiava un piercing color fragola all᾿ombelico. Stefano lo aveva sul labbro superiore. Dovevano avere più o meno la stessa età. La seguì con lo sguardo mentre attraversava di corsa il corridoio ormai sgombro. Prese il suo posto di fianco al finestrino. Sul binario la perse. Doveva essere andata nell᾿altra direzione.
Rimase a fissare la banchina, la gente che sollevava i bagagli, i saluti calorosi, gli abbracci, le carezze. Provò un senso di ingiustizia, quasi di invidia pensando a quanto le fosse stato precluso di fare lo stesso con Stefano. Un sentimento sgradevole di cui si vergognò. Chiuse gli occhi nella speranza di riuscire a visualizzare qualche ricordo, una vacanza al mare quando era bambino, una festa di compleanno, Stefano che chiudeva di scatto la schermata di un videogioco quando Marianna entrava di soppiatto in camera per controllare se stesse facendo i compiti. Ma se serrava gli occhi non c᾿erano altro che aloni fosforici e rivoletti sfarfallanti che balenavano come flash di una fotocamera al buio.
Il treno riprese la sua marcia, accelerando davanti a sterri polverosi e scavatori fermi. Si chiese se le tombe dei nomadi degli Altai fossero poi così diverse dai cumuli di pietrisco e ghiaia che osservava dal finestrino, ammonticchiati per la costruzione di un altro ramo ferroviario. Entrambi monumenti al viaggio. Sepolture in movimento.
Siamo in arrivo a Benevento, con un ritardo di 40 minuti. Trenitalia si scusa per il disagio.
«È davvero un incubo viaggiare su questa tratta, dico bene?» La donna le sorrideva dal sedile di fianco. Marianna non ricordava di essere tornata a sedersi al suo posto sul corridoio, né di aver lasciato passare la donna, e di certo questa non aveva l᾿età per averla potuta scavalcare. Si raschiò la gola, ricomponendosi sul sedile.
«Guardi qua che roba», la donna le spiattellò davanti agli occhi il cellulare aperto su una mappa. «Roma-Caserta, duecento chilometri: un᾿ora. Caserta-Benevento, quarantacinque chilometri: un᾿ora. Le pare normale? E questo quando va bene, e ovviamente non va mai bene, figuriamoci, sono venti minuti che andiamo a questa velocità, e mica ti dicono qual è il problema, non sia mai, e ci credo che poi uno si addormenta». Ridacchiò e riprese a parlare al ritmo di una macchina da cucire Singer, di quelle che si azionano a pedali. «Altro che freccia, la tratta fino a Foggia è una carovana e noi le pecore. Anzi capre, capre siamo».
La voce le bucherellava le orecchie come un ago. Marianna immaginò i binari delle ferrovie come una serie di enormi cicatrici sul cadavere ricomposto della terra, i cavi elettrici che lo rianimavano come una sorta di Frankenstein planetario.
Non le piaceva viaggiare, a differenza di Carlo che non si era mai, mai degnato di contenere l᾿entusiasmo per una partenza che lo avrebbe portato a stare via per mesi. E quando Marianna glielo faceva notare si metteva sulla difensiva, spiegando con quella sua saccenteria insopportabile quanto non ci andasse mica per divertimento, che era lavoro, e lavoro duro, impegnativo, in un luogo remoto, freddo e solitario. E poi chi è che portava il pane a casa, eh? I genitori di lui l᾿avrebbero aiutata col bambino, non si doveva preoccupare. Quando tornava si chiudeva nel suo studio e lo sentivi battere furiosamente i tasti per buona parte della giornata, mentre Stefano cresceva. Quando gli avevano assegnato la cattedra, aveva smesso di rincorrere le tracce dei nomadi nel deserto del Kyzyl-Kum o di interpretare le pitture rupestri di Tamgaly. Ma la ritrovata stanzialità di Carlo non aveva migliorato le cose con Stefano. Ormai erano due estranei.
Avevano lasciato la stazione di Benevento da un po᾿. La signora continuava a parlare e gesticolare senza che Marianna riuscisse a udire altro se non un gorgoglio ovattato. Portava un trucco pesante, gli zigomi rossi e sodi come mele, i capelli nerissimi tirati in un chignon. Marianna continuò a seguirne i movimenti della bocca, riuscendo a distinguere i grumi di rossetto sulle labbra. Alle sue spalle, un dedalo ravvicinato di alberi spolverati di neve incombeva contro il finestrino.
Il treno rallentò fino a fermarsi con un sibilo flautato.
Buonasera, sono il capotreno. Vi informiamo che siamo fermi tra le stazioni di Benevento e Foggia. Stiamo contattando la sala operativa per conoscere il motivo della sosta. Vi terremo aggiornati.
«Ecco qua, ti pareva, che le dicevo?» Marianna non era sicura se la donna fosse più incazzata per la sosta o contenta di avere ragione. Si limitò a fare spallucce come rassegnata a un destino ineluttabile. Che senso aveva innervosirsi se non potevano comunque scendere? Davanti, l᾿uomo in cravatta si voltò, infilando la testa tra i sedili.
«Perché siamo fermi?»
«E lei lo sa?» rimarcò la donna.
«Avevo le cuffie, sto lavorando», neanche gli avesse fatto un affronto.
La porta del vagone si aprì e il controllore sfilò per il corridoio sorridendo. Sembrava in visibile imbarazzo. Marianna non ricordava se le avessero controllato il biglietto; qualsiasi cosa c᾿era stata nell᾿intruglio della notte prima continuava a giocare con la sua memoria. Fuori, il pomeriggio aveva fretta di indossare la vestaglia da notte.
«Scusi? Controllore?» La signora al suo fianco sventolò in alto il braccio. Lo smalto delle unghie rovinato. Il controllore si avvicinò continuando a sorridere. «Beh, allora?»
«Siamo fermi per la presenza di estranei sui binari, signora. Stiamo facendo degli accertamenti».
Il tizio davanti sbuffò.
«Vai a vedere che non sono dei manifestanti, ce ne fosse uno che ha ancora voglia di lavorare in questo paese. Quanto ci vuole?»
«Ancora non lo sappiamo».
«Ma non è possibile, qui è da uscirne pazzi». La voce era salita di tono. «Ho un impegno importante e siamo già in ritardo di non so più quanto».
Il controllore rimase calmo. «Signore, non c᾿è bisogno di agitarsi», disse. Si voltò verso Marianna, il sorriso teso di una bianchezza quasi irreale. «Vede la signora com᾿è tranquilla?» diceva a lei. «Eppure sono sicuro che ha un appuntamento più importante del suo». E le fece l᾿occhiolino.
Una scarica di freddo le schizzò su per la schiena. Le luci della carrozza si spensero, e per un attimo Marianna ebbe l᾿impressione di scorgere qualcosa fuori dal finestrino, con la coda dell᾿occhio. La lite in corso tra il controllore e l᾿uomo sembrava lontana anni luce. Rimase a guardare il vetro come ipnotizzata. Sembrava esserci uno sciame di lucciole che volteggiava fluido nell᾿oscurità, che cercava di assumere una forma, fino ad addensarsi in un volto. Quando tornò la luce una lacrima le scorreva sulla guancia. Si alzò e sfilò dietro al controllore dirigendosi verso il bagno.
Un sadico gioco di luce, nient᾿altro. Conosceva bene i tranelli di una mente in lutto. La prima volta era successo qualche giorno dopo il funerale, quando era scesa di casa con la scusa di prendere un caffè al bar all᾿angolo, poco più avanti il magazzino di bevande. Carlo aveva avuto lo sguardo vuoto per tutto il giorno, lo stesso sguardo con cui continuò a guardarla fino a quando si sarebbero separati. Non aveva versato una lacrima per la morte di Stefano, né l᾿avrebbe fatto in seguito. A metà strada Marianna aveva visto qualcuno che le veniva incontro sul marciapiede, e per poco non si era messa a correre, un tizzone ardente nelle viscere, il cuore in gola. I jeans blu larghi, la felpa viola che gli aveva regalato qualche Natale prima, la zazzera che avrebbe voluto si tagliasse, l᾿andatura dinoccolata. Aveva superato il bar senza accorgersene. Dovevano essere stati a cinque metri di distanza quando si era resa conto di aver preso un abbaglio. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi per aver pensato che quello potesse essere suo figlio. Nei mesi successivi era capitato altre volte, ma da quando era tornata a Roma le visioni si erano interrotte.
Si tenne ai sedili mentre percorreva il corridoio, le gambe di gelatina, una cacofonia di pensieri nella testa. Le voci le avevano detto di far visita alla tomba di Stefano e portargli dei fiori, no? Figurarsi se Carlo aveva tempo di occuparsene, dovevano essere appassiti chissà da quanto tempo. Le avevano detto questo, giusto? Perché non ricordava cosa le avevano sussurrato? D᾿un tratto non sentiva tanta apprensione da quando nel fine settimana restava sveglia ad aspettarlo fino a tarda notte. Aveva bisogno di buttarsi dell᾿acqua in faccia.
Dal rubinetto le gocce stillavano stanche e insufficienti. Marianna strappò della carta igienica e si asciugò il viso. Dalla finestrella del bagno riusciva a scorgere le pale di un parco eolico che ruotavano sospinte dal vento. Le ricordavano la corona della statuetta. Dovevano essersi fermati tra le colline appenniniche che separano Campania e Puglia. Il cielo era spoglio come la steppa.
Il breve jingle di un annuncio irruppe dal soffitto. Poi un miasma di interferenze, una raffica di parole senza senso che sfrecciavano tra le pareti del bagno e quelle del cranio. C᾿era una voce sepolta nel rumore.
«Ciao mamma».
Marianna continuò a voltarsi alla ricerca di una fonte più tangibile, concreta, una fonte fatta di carne e ossa e capelli. Come se la voce non potesse provenire dall᾿altoparlante; ma da qualche parte doveva pur provenire. Guardò fuori dal finestrino, guardo nel cesso, guardò ovunque. «Stefano?»
Nessuna risposta. «Stefano, dove sei?»
«Dove sei tu, mamma. In viaggio».
Le parole le uscirono di bocca come un feto dall᾿ano. Impossibili. «Stai… tornando?»
«Non ce n᾿è stato bisogno, mamma. Sei venuta tu».
«Venuta dove?»
L᾿altoparlante si ammutolì, lasciandola a ridere e piangere di sé stessa. Non sarebbe stata la prima persona a impazzire per un lutto, né l᾿ultima. La gente impazziva per molto meno.
Aprì la porta del bagno e uscì nel corridoio. Si guardò intorno, passò in rassegna le porte d᾿ingresso del treno, prima una e poi l᾿altra, sbirciando fuori con le mani a coppetta. Niente. Solo le colline buie e le pale eoliche che ruotavano veloci come un vortice che risucchiava gli ultimi sprazzi del crepuscolo. Il treno riprese a muoversi, a singhiozzi. Marianna riusciva a sentirne il rumore con tutto il corpo, un frastuono intenso e incoerente che sembrava sovrapporsi al battito del cuore, pompando il sangue in zampilli rochi. Si trascinò verso la sua carrozza.
Al di là della porta scorrevole il vagone era immerso nel silenzio, l᾿aria densa di una camera iperbarica. Marianna faceva fatica a respirare. Lo snervante ticchettio sui tasti dello stakanovista era cessato. Tornò a sedersi al suo posto, la voce – singolare, plurale – continuava a echeggiare mentre il treno acquistava di nuovo velocità. Le pulsavano le tempie.
«Signora mi scusi, sa perché ci eravamo fermati? Le hanno detto qualcosa?» chiese alla vicina. Teneva il viso contro il vetro.
La donna si voltò. Gli occhi opachi come neve sporca. Come il vetro alle sue spalle. Batté le ciglia in quello che Marianna interpretò come un segno d᾿assenso. Le si mozzò il fiato in gola. Dall᾿altoparlante le note sintetiche dell᾿annuncio tuonarono come le trombe del giudizio. Acute, penetranti.
Bastano un sole e una luna a illuminare il vostro mondo. Tra sette soli e sette lune il nostro viaggia nel buio. Siamo diretti alla dimora di ciò che vomita gli astri e rigurgita la nera bile del cosmo, il nulla creatore che viaggia in eterno sui pascoli bui tra le stelle. Benvenuti a bordo. Il treno non farà fermate intermedie. Il tempo di percorrenza è l᾿eternità.
La stessa voce. Distorta, biascicata. La voce di suo… no, un messaggio registrato come tutti gli annunci a bordo treno. Quando sarebbero finiti gli effetti dell᾿intruglio? Sarebbero mai finiti? Marianna scattò in piedi. Gli occhi fissi sulla porta in fondo al vagone. Riusciva a sentire gli sguardi spenti dei passeggeri che la stringevano in un abbraccio di fredda indifferenza. Un puff pneumatico e si ritrovò di nuovo nello spazio tra le carrozze.
Tirò la maniglia e azionò il freno d᾿emergenza.
Il treno sbandò, facendole perdere quel poco di equilibrio che le restava. La porta si aprì.
Si rialzò e sbirciò fuori, tenendosi alle maniglie. In lontananza, le pale eoliche ruotavano furiose, illuminate da una luce violacea che ricopriva con una fine bruma le colline. Piccole biglie luminose erano apparse nel cielo. Stelle improbabili. Le vide muoversi veloci, avvicinandosi alle pale che rallentavano fino a fermarsi, i tre arti spiegati ad accoglierle.
Le biglie si disposero in cerchio e tintinnarono come i campanacci di una mandria cosmica. Nel cielo scodinzolò una cometa, e Marianna udì lo scalpitare cadenzato di zoccoli tanto possenti da poter calpestare mondi.
Indietreggiò e la porta si richiuse. Tornò a sedersi al suo posto. Il vagone di nuovo al buio, i passeggeri che osservavano le luci nel cielo sopra le colline.
Marianna sprofondò nel sedile e chiuse gli occhi. Nessun ritardo possibile dove erano diretti. Le briglie del tempo erano state sciolte.
La donna al suo fianco le strinse la mano. Era gelida.
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