di Giovanni Marilli
copertina di Pablo Follieri
Il giorno del mio compleanno mio padre è andato a caccia.
Al mattino ha sparato a due fagiani.
Il pomeriggio si è sparato in faccia.
Il giorno del mio compleanno mio padre non lo abbiamo aspettato. Ho spento le otto candeline tutte da solo e mia madre ha tagliato la torta a fette. Io e gli altri bambini abbiamo bevuto l’aranciata, mia madre ne aveva comprate due bottiglie. I grandi, invece, hanno bevuto lo spumante portato dallo Zio. Mia madre ha detto allo Zio che non avrebbe dovuto disturbarsi. Lo Zio ha risposto che non c’era di che. Lo spumante, ha detto, gli era avanzato dall’ultimo dell’anno.
Terminata la festa, mia madre mi ha detto di andare a letto. Mi ha detto che ero stanco, che il giorno dopo c’era scuola. Ho sentito mia madre tornare di là. Ho sentito che per un po’ ha parlato sottovoce con lo Zio. Mi sono sforzato di capire quello che dicevano, ma mi sono addormentato quasi subito, abbracciato alla confezione da settantadue pennarelli che avevo ricevuto in regalo.
La mattina del giorno dopo il mio compleanno mia madre era di primo turno. Ho trovato la scodella del latte sul tavolo, la fetta del pane sul piatto. Ho mangiato il pane, ho bevuto il latte, mi sono lavato, mi sono vestito. Ho aspettato seduto sul divano che la vicina bussasse alla porta. I settantadue pennarelli nella stanza di là.
Nel pomeriggio sono venuti a cercare mio padre. Mia madre ha detto che non lo vedevamo dal giorno del mio compleanno e io ho fatto sì con la testa. Hanno detto che la nave non poteva aspettare. Naturalmente, ha detto mia madre, e ha chiuso la porta.
La nave è ripartita quella sera stessa e il giorno successivo lo Zio è andato a cercare mio padre. Lo Zio diceva di essere sicuro di sapere dove poteva essersi cacciato. Per arrivare al capanno, diceva lo Zio, doveva lasciare la macchina parcheggiata sul ciglio della strada e camminare tra gli arbusti per quasi un’ora.
La prima volta che mio padre mi ha parlato del capanno eravamo ancora tutti insieme, io, lui, mia madre, e vivevamo ancora nella casa col giardino. Ricordo che stavo dando una foglia di lattuga a Clotilde, quella volta, e ricordo che mio padre mi diceva di avere pazienza, che se avessi avuto pazienza, così diceva mio padre, Clotilde avrebbe tirato fuori dal guscio la testa e le zampe e avrebbe afferrato la foglia di lattuga che le porgevo. Alla fine Clotilde ha fatto come aveva detto mio padre: ha tirato fuori la testa grinzosa e ha preso a divorare la foglia di lattuga, e mentre Clotilde ruminava, mio padre ha preso a raccontare. Nel racconto di mio padre, il nonno avrebbe voluto fare del capanno la casa di campagna, ma è morto prima che cominciassero i lavori. Toccava allo Zio fare i lavori, diceva mio padre. Il capanno e la terra, a lui, diceva, la casa col giardino a me. Diceva mio padre che quando il nonno li portava al capanno, partivano a piedi. Partivamo che l’alba non era nemmeno spuntata, diceva mio padre, il nonno portava i fucili, io portavo il sacco con il pane, il formaggio, le olive, la bottiglia del vino, e lo Zio veniva dietro, con Achille al guinzaglio. Diceva mio padre che si acquattavano nei pressi della salina, che si mettevano sulla rotta dei migratori, e raccontava che ne facevano fuori due o tre e che poi smettevano di sparare. Diceva mio padre che facevano tutti così, e che tutti chiudevano un occhio. Pure il maresciallo faceva così, diceva mio padre, e pure il maresciallo chiudeva un occhio. L’importante è non esagerare, diceva il maresciallo, diceva mio padre.
Al suo ritorno lo Zio era pallido come un fantasma. Mia madre lo ha fatto sedere al divano, gli ha offerto un bicchiere, lui ha farfugliato che intorno al capanno volteggiavano i corvi. Allora mia madre mi ha mandato in camera e ha chiuso la porta. Lei e lo Zio hanno continuato a parlare sottovoce.
Abbiamo vissuto nella casa col giardino fino a quando ho compiuto i cinque anni. Mia madre avrebbe voluto farmi la festa di compleanno in giardino per l’ultima volta e per questo aveva chiesto agli acquirenti se potevano concederci una decina di giorni oltre la data fissata. Aveva spiegato, mia madre, di aver già organizzato tutto, gli invitati, le tovaglie bianche, la torta, lo spumante, per l’occasione, aveva spiegato, sarebbe venuta anche la nonna, dalla città. Ho spento le cinque candeline in casa. Di fronte, mia madre, la nonna e lo Zio. Fuori, pioveva.
Il giorno del mio quinto compleanno mio padre era in mare già da due mesi. O forse erano tre, non ricordo. Aveva telefonato la settimana prima per dire che non ci sarebbe stato. Tanto è tutto sistemato, aveva detto. Mia madre si era lamentata, ma mio padre non aveva voluto sentire ragioni. In fin dei conti è come fare le valigie per andare in vacanza, aveva ribattuto mio padre, nel racconto di mia madre allo Zio. Mia madre aveva chiesto a mio padre se avesse almeno potuto telefonare per farmi gli auguri. Non lo so, aveva riposto lui. Non so dirti dove saremo, aveva detto.
Mia madre aveva fatto i bagagli e lo Zio si era fatto prestare un furgone. La casa nuova era lontana da quella col giardino, l’aveva trovata lo Zio. Per i primi tempi andrà benissimo, aveva detto. Dalle finestre si vede il mare, aveva detto.
La casa nuova era al secondo piano e aveva due stanze. In una stanza avremmo mangiato, nell’altra avremmo dormito. Io non la smettevo di piangere, mia madre troppo impegnata a disfare i bagagli per farmi tacere. Dalla finestra si vede il mare, insisteva lo Zio. Guarda le navi, diceva. Sulla linea dell’orizzonte sagome scure, enormi e piccolissime, solcavano l’azzurro. Sono quelle che trasportano il petrolio, diceva lo Zio. Nel racconto dello Zio, mio padre aveva scelto quella casa proprio perchè dalle finestre si vedeva il mare. Devi affacciarti alla finestra ogni giorno, quando il sole tramonta, diceva lo Zio. Diceva che nello stesso momento mio padre sarebbe salito sul ponte della nave e avrebbe guardato in direzione della finestra. Lo Zio mi aveva mostrato la piccola bussola che teneva stretta nel palmo della mano. Mio padre ne possedeva una uguale, diceva lo Zio, e diceva che gli sarebbe bastato mettersi nella direzione dell’ago per essere nella direzione giusta, quella che puntava dritta alle finestre di casa. Ogni giorno, diceva lo Zio. Quando il sole tramonta, diceva.
La prima notte nella nuova casa non sono riuscito a chiudere occhio. Le ombre delle macchine proiettate attraverso le finestre malchiuse scivolavano sulle pareti come fantasmi. Mi stringevo a mia madre, ma dicevo che non avevo paura. Sono in pensiero per Clotilde, mentivo. Mia madre diceva che la vicina l’avrebbe curata, che nel suo giardino sarebbe stata benone. Un giardino tale e quale a quello che avevamo noi, diceva mia madre, col sedile di pietra e il gelsomino. Diceva mia madre che le persone che avrebbero abitato la casa che era stata la nostra le avevano promesso che avrebbero potato il gelsomino. Tra poco sarà in fiore, diceva mia madre. Ci basterà accostarci al muro per sentirne il profumo, diceva.
Una domenica io e mia madre siamo tornati a casa e abbiamo trovato mio padre seduto al divano. Era abbronzato, aveva la barba. Sei diventato più alto, ha detto. Siediti, ha detto. Mio padre mi ha fatto posto accanto a sé, sul divano, io ho messo sul tavolo i braccioli e mi sono seduto a una sedia. Non hai ancora imparato a nuotare, ha sorriso mio padre. È la mamma che insiste a farmeli mettere, ho risposto io. Abbiamo aspettato in silenzio che mia madre finisse di fare la doccia.
Mio padre è ripartito dopo una settimana. Ho sentito mia madre voltarsi sull’altro fianco. Ho sentito lui scivolare fuori dal letto. Ho sentito la porta chiudersi.
Trascorso un mese mia madre ha detto che avremmo avuto ospiti a cena. Il collega di mia madre però è venuto da solo, ha detto che la moglie si scusava. Aveva portato il pesce, il collega di mia madre, e aveva portato anche una bottiglia di vino, e ha insistito per cucinare lui. Quando mangiava, il collega di mia madre succhiava dal cucchiaio. Quando non mangiava, il collega di mia madre parlava. Quando il collega di mia madre parlava, mia madre rideva.
Quell’estate mia madre mi ha detto che ero diventato grande, che ormai, diceva, potevo andare in spiaggia da solo. L’importante è che attraversi sulle strisce pedonali, diceva mia madre. Guarda prima a destra e poi a sinistra, diceva, se non vedi arrivare le macchine, allora attraversa di corsa.
Sulla spiaggia mi piaceva giocare con la sabbia. Mi piaceva quando il cielo era chiaro e il vento soffiava dal mare. Il vento che soffiava dal mare parlava lingue sconosciute, spingeva a terra nuvole che apparivano in forma di mostri. Sulla spiaggia venivano a giocare anche altri bambini. Anche loro erano grandi, anche loro venivano da soli. Un giorno uno di loro mi ha chiamato figlio di puttana e gli altri si sono messi a ridere. Io ho continuato a costruire il mio castello di sabbia. Andiamo via, che questo è uno scemo, ho sentito dire a qualcuno di loro. Si sono allontanati, con la coda dell’occhio li ho visti dirigersi verso la riva, quello che mi aveva chiamato figlio di puttana che correva con una canna sguainata sopra la testa. Si sono lasciati dietro una bambina, la bambina indossava un paio di occhiali, una delle lenti era oscurata da una benda. Mi piacerebbe una torre tutta per me, ha detto la bambina guercia. Ho modellato la sabbia umida nel secchiello, l’ho capovolta accanto alle mura, con la punta di un dito ho praticato in cima alla torre un foro, nel foro ho infilato una pietra. Questa è la finestra, ho detto. Da qui si vede il mare, ho detto.
Un giorno che pioveva mia madre mi ha spiegato che il suo collega sarebbe passato a trovarci. Il collega di mia madre ha portato una scatola di matite colorate. Quella del turchese e quella dell’arancione mancavano, quella del rosso e quella del giallo erano lunghe la metà delle altre. Mia madre e il suo collega hanno preso il caffè seduti al divano, io sono rimasto a guardare la pioggia dalla finestra. Ho sentito il collega di mia madre alzarsi e andare di là. Allora anche mia madre si è alzata e mi ha detto di aspettare di qua, di non muovermi, di fare un disegno con le matite colorate. Ce lo fai vedere più tardi, ha detto.
Disegnavo piovre, serpenti marini, disegnavo navi che colavano a picco nel mezzo di oceani che ribollivano. I miei colori preferiti erano il blu e il nero, il giallo lo usavo per squarciare il cielo e il mare. Il collega di mia madre quando guardava i mostri che disegnavo faceva finta di impressionarsi. Mia madre rideva invece, e lo accompagnava alla porta. Io me ne andavo a dormire. Sentivo mia madre andare in bagno. Sentivo l’acqua zampillare contro il telo della doccia.
A un certo punto il collega di mia madre ha smesso di venire a cena. Ha smesso anche di venirci a trovare nelle giornate di pioggia. Ha cominciato a venire un altro, uno che mia madre chiamava Avvocato. Avvocato portava sempre la cravatta. Avvocato non sapeva cucinare. Avvocato non succhiava dal cucchiaio. Mia madre sorrideva appena.
Avvocato è sparito insieme ai miei sei anni. Per un po’, prima che cominciassi ad andare a scuola, è tornato a trovarci il collega di mia madre. Mia madre lo faceva rimanere nella stanza dove si mangiava e mi obbligava a restare, anche se fuori c’era il sole, anche se sarei potuto andare a giocare sulla spiaggia. Tra un po’ va via, diceva mia madre, e allora lui si metteva a piangere, e mia madre cominciava a prenderlo in giro. Ma non ti vergogni, diceva mia madre, un uomo grande e grosso che piange davanti a un bambino.
Quello che vendeva le scarpe, invece, a casa non veniva mai.
Un giorno all’uscita di scuola mi sono accorto di avere dimenticato le chiavi di casa. Ho deciso di andare fino al negozio di scarpe, ho bussato forte per farmi sentire. Quello che vendeva le scarpe ha aperto la saracinesca a metà, mi ha detto di aspettare. Quando è tornato, mi ha messo in mano le chiavi e mi ha detto che mia madre gli aveva detto di dirmi di filare dritto a casa. A casa mia madre mi ha dato due schiaffi, uno per guancia. Mi ha urlato di non farlo mai più.
Mio padre di tanto in tanto tornava a casa, ma restava sempre per pochi giorni. Troppo pochi per sentire addosso gli sguardi, ancora meno per udire le voci. Tornavo da scuola e lo trovavo seduto in poltrona, là dove l’avevo lasciato al mattino. Non usciva mai. Un giorno, però, mia madre è rientrata prima del solito, e allora lui si è alzato di scatto e mi ha chiesto di andare a fare due passi. Ho bisogno di sgranchirmi, ha detto. Abbiamo passeggiato sulla spiaggia, gli ho mostrato l’ultimo castello che avevo costruito, il vento non lo aveva ancora disfatto del tutto. Gli ho mostrato la torre con la pietra in cima, ho spiegato che era una finestra. Da qui si affaccia una principessa guercia e guarda il mare, ho detto. A casa abbiamo trovato gli spaghetti a tavola, mia madre a letto. Lui si è annodato il tovagliolo al collo e ha cominciato a mangiare.
Per il mio ottavo compleanno mio padre è tornato a casa con un giorno di anticipo. L’ho trovato seduto in poltrona, come ogni volta, come ogni volta odorava di nafta e salsedine. Aveva addosso il giubbotto di tela cerata, le mani intrecciate sul ventre. Dormiva, e allora mi sono avvicinato in punta di piedi. Ho guardato i peli bianchi che cominciavano a insinuarsi nel folto della barba nera. Ho guardato le froge che si dilatavano e si contraevano, come se avessero finalmente trovato dimora. All’improvviso lui ha aperto gli occhi. Ha spalancato le braccia per accogliermi, e io mi sono ritratto, e non ricordo perché mi sono ritratto, perché in fondo non avevo paura. Domani è il tuo compleanno, ha fatto finta di niente lui. Io devo aver risposto di sì, oppure non devo aver risposto per niente, non ricordo quello che ho pensato in quel momento. Ricordo però che lui ha tirato fuori la storia di un regalo speciale, di una sorpresa che aveva in serbo, tutta per me, così ha detto. Devono essere trascorsi minuti in cui nessuno dei due ha parlato, allora ci ha pensato lui, di nuovo, a rompere il silenzio. A che ora arriva tua madre, ha chiesto.
Mia madre è arrivata due ore dopo. Ha trovato lui sul divano a sonnecchiare, nella stessa posizione in cui l’avevo trovato io, e ha trovato me in camera. Forse avevo cominciato i compiti. Forse disegnavo. Forse guardavo le illustrazioni del libro che mi aveva regalato quello che vendeva le scarpe. Ricordo di aver teso le orecchie dopo aver udito i passi di mia madre in casa. Sono venuto per il compleanno del ragazzo, ho sentito dire a mio padre, come se avesse risposto a una domanda. Domani lo porto al capanno con me, ha detto. Non se ne parla, ha risposto mia madre. È la mia sorpresa, ha detto mio padre. È il mio regalo speciale, ha detto. Ho sentito il rumore dell’acqua scorrere nel lavabo, un rumore di stoviglie. Lascia almeno che sia lui a decidere, ha detto mio padre.
Mia madre mi ha chiamato. Mi ha chiamato una seconda volta. Ricordo di aver preso con me il libro, oppure l’album da disegno, non ricordo quello che ho preso con me, ma ricordo di essere rimasto sulla cornice della porta. Mia madre di spalle lavava l’insalata, mio padre si è girato di tre quarti sul divano per potermi parlare senza perdere di vista mia madre. Domani ti porto al capanno con me, ha detto mio padre, andiamo a caccia insieme, sei contento? La domanda aveva il tono di una supplica. Mio padre mi supplicava, mi supplicava di schierarmi dalla sua parte, i peli bianchi della barba che sembravano essersi moltiplicati nel giro delle due ore appena trascorse. Ho risposto che la mamma aveva già organizzato tutto, la festa, la torta, gli invitati. Aveva comprato anche due bottiglie di aranciata, la mamma, ricordo di aver detto. Ricordo di aver lasciato cadere per terra il libro, oppure era l’album da disegno, non ricordo. Ricordo di essere corso ad abbracciare mia madre. Mia madre non si è voltata, ha continuato a lavare l’insalata, ma ho sentito il fremito del corpo quando l’ho stretta alle spalle. Mio padre si è alzato, ha messo l’orologio e il portafogli nel primo cassetto e si è trascinato in camera.
La mattina dopo avevo otto anni. Dalla cucina ho sentito arrivare un calpestio di passi misurati, il fruscio che fanno i panni quando vengono indossati. Ho sentito insinuarsi l’aroma del caffè, lo stesso dei giorni di partenza. Mio padre era in piedi, guardava il mare dalla finestra. Teneva la tazza con le due mani e aveva già messo addosso il giubbotto di tela cerata. Si è accorto di me quando si è staccato dal davanzale, quando si è voltato per andare a lavare la tazza. Non mi ha parlato, ha sciacquato la tazza, l’ha lasciata capovolta a gocciolare. Mi sono seduto al suo posto, sul divano, ho aperto la pagina del libro dove avevo lasciato il segno. Sei ancora in tempo, va a vestirti, ha detto mio padre. Ho fatto no con la testa, ho fatto finta di immergermi nella lettura del libro, ho seguito con la coda degli occhi il suo tragitto dal lavabo al primo cassetto. Lui ha tirato fuori il portafogli, lo ha intascato al solito posto, l’orologio, invece, lo ha messo sul tavolo. Meglio se non me lo porto dietro, ha detto, potrei rovinarlo. Ho alzato lo sguardo, l’orologio sul tavolo brillava. Curamelo tu mentre sono via, ha detto mio padre. La porta di casa gli si è chiusa alle spalle.
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