La lingua di chi non ha diritto alla letteratura – Intervista con Luca Tosi

di Amanda Rosso
con Luca Tosi
copertina di Terrarossa Edizioni


Avevo già scritto di Luca Tosi in occasione del suo esordio, Ragazza senza prefazione (TerraRossa, 2022), recensito per Marvin. In quel romanzo, il desiderio e l’immaginario maschile venivano scandagliati attraverso una voce che oscillava tra disincanto e ironia, e che finiva per rivelare tutta la propria fragilità.

Con Oppure il diavolo (TerraRossa, 2025), Tosi torna a quei territori ma li attraversa con una consapevolezza diversa – più cupa, più radicale, e in un certo modo più coraggiosa. Se in Ragazza senza prefazione Marcello Travaglini talvolta poteva irritare per la sua arrendevolezza un po’ vittimista, rimaneva pur sempre un personaggio positivo, ancora capace di immaginare la possibilità di un incontro. Natale, invece, il protagonista trentunenne di Oppure il diavolo, si fa portatore di una mascolinità incerta e vulnerabile ma pur sempre pericolosa, continuamente in bilico fra gentilezza e rabbia, empatia e crudeltà. In lui la mediocrità non è un difetto da riscattare, ma una condizione morale da interrogare: un modo per situare lo sguardo e la narrazione, rivendicare la prospettiva obliqua e sgraziata di chi di rado è protagonista.

Con Oppure il diavolo, Tosi conferma la propria fedeltà a una lingua viva, deformata e poetica, capace di fondere il dialetto, la bestemmia e la cultura pop. Ma soprattutto continua a indagare le pieghe di un maschile in crisi, senza moralismi né indulgenza, restituendo a chi legge la vertigine di un realismo che è insieme politico e intimo, brutale e tenero.

Amanda: Il titolo Oppure il diavolo apre subito una possibilità sospesa, un’alternativa che non si chiude mai. Cosa rappresenta per te quell’“oppure”? È un dubbio linguistico, un gesto morale, o la condizione stessa dei tuoi personaggi, sempre in bilico tra colpa e salvezza?

Luca: Nel libro, il diavolo rappresenta per Natale – il personaggio protagonista e voce narrante – un’alternativa percorribile. Natale comincia a rivolgersi al diavolo perché lo percepisce l’opposto di Dio, l’opposto del bene. Il punto è che, autobiograficamente, rivolgendosi al bene non ha mai ottenuto granché: né attraverso la preghiera, né comportandosi da buono, allora decide di cambiare sponda e, in modo graduale, si spinge verso l’estremo. Si sente escluso dal bene, non meritevole e privato di ogni garanzia. Eppure, in Chiesa, gli avevano insegnato quella strada lì, e in fondo a lui piaceva anche. Insomma, a un certo momento gli scatta l’idea che, forse, potrebbe cavarsela meglio saltando dall’altro lato della barricata. C’è un contrasto fra bene e male in tutto questo, fra il senso di colpa, che per lui è quasi la colpa di esistere, e un’idea di espiazione che passa attraverso la vendetta. Però Natale non ne ha consapevolezza. Trova nel male una forma di espressione, sì, ma è un’espressione temporanea, parziale, comunque si porta dietro i limiti di sempre. Vorrebbe approdare a una sorta di pulizia interiore, e per raggiungerla arriva a scatenare il pandemonio. Resta la domanda: Natale è davvero un buono che diventa cattivo per una serie di circostanze, oppure un lato diavolesco in lui c’è sempre stato? Forse, come in ognuno di noi.

A: Poggio Berni è una provincia che diventa metafisica: non solo un luogo geografico ma una condizione mentale, dove il rancore e l’ignoranza diventano collanti sociali, un paesaggio che è sia politico che umano, la geografia che traccia un’anatomia dell’anima…

L: Come scrive Pavese ne La luna e i falò: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Natale è nato, cresciuto e – a detta sua – marcito a Poggio Berni. Tutto è raccontato dal suo punto di vista, il paesino gli appare come una gabbia, o meglio, come un luogo che gli appartiene e che, dopotutto, sarebbe anche bello, se non fosse infestato dai suoi amici/nemici del bar. È come se loro rappresentassero l’intera popolazione, come se per lui non esistessero altre possibilità di frequentazione. Condividono un passato, dunque resiste un legame sotterraneo; il problema è che, con loro, Natale non è mai riuscito a esprimersi davvero, perciò li accusa. Si sente diverso, discriminato, eppure non ha mai fatto niente di concreto per cambiare la sua condizione. È vero: gli amici del bar lo deridono, hanno una mentalità ristretta, provinciale, ma va anche detto che, in quel gruppo, prima o poi tocca a tutti essere presi di mira. Poggio Berni, per Natale, è anche il pozzo del rapporto con la madre: anche qui convivono rancori, colpe, e radici. Credo che chiunque sia cresciuto in provincia conosca bene questa geografia di sentimenti contrastanti: ci sentiamo di appartenerle, la respingiamo, scappiamo e poi torniamo, è casa nostra e al tempo stesso non lo è mai del tutto. Ho voluto costruire un personaggio infossato fino al collo nella provincia, e immaginare una storia che lo conducesse alla possibilità di fuga. Ma non una fuga per studio o lavoro, bensì come atto estremo, ultimo. Perché, altrimenti, non se ne sarebbe mai andato.

A: Natale non è un inetto puro, ma un giovane uomo mediocre, disarmato, capace di momenti di incredibile lucidità e sottile crudeltà. È davvero importante, credo, portare nel panorama letterario contemporaneo – che a mio avviso è polarizzato anche nei gusti e nelle aspettative – un personaggio che non è completamente oscuro (e quindi da redimere e vivisezionare) o un uomo fallibile che si redime, ma solo qualcuno che si fa più o meno carico di tutto il suo umanissimo fallimento.

L: Quando scrivo, parto sempre da un’idea di personaggio e dalla sua voce narrante. In questo caso volevo esplorare le opportunità di stratificazione che un personaggio come Natale, carico di un ingarbugliato conflitto interiore, poteva darmi nella scrittura. Ho lavorato scendendo di livello in livello, sempre più in profondità. Al contempo, ho costruito la sua intera biografia, che solo a un certo momento lascia spazio alla trama. Credo infatti, che la miccia del turbamento di Natale si accenda già nella sua infanzia – che lui racconta per frammenti – e che ciò si rifletta poi nell’età adulta e nelle enormi difficoltà che ha di vivere il desiderio. La maternità come eredità è uno dei temi centrali del libro, eppure me ne sono accorto solo a lavoro finito. In un’intervista, Gianni Rodari dice che dove c’è l’errore del figlio, c’è sempre un errore del genitore: nell’aver creato le condizioni di quell’errore, o nel non aver aiutato il figlio a costruirsi gli strumenti morali e intellettuali per affrontarlo. È una riflessione che adatta a Natale: è un uomo che trabocca di precarietà, dentro di sé porta mediocrità e autenticità, oscurità e barlumi di luce, disarmo e vendetta, preghiera e bestemmia, Dio e il diavolo insieme. Si rivolge al diavolo come un’alternativa, una scorciatoia, forse l’ultima spiaggia: dato che comportandosi da buono non ha mai ottenuto granché nella vita, tanto vale diventare cattivo e vendicarsi. Il frammento evangelico “chiedi e ti sarà dato” per Natale non ha funzionato.

A: Di particolare interesse per me sono le relazioni con il femminile che attraversano il romanzo in molte forme: la madre, la bambina rom, la barista, figure di distanza e potere, di tenerezza e colpa. Ogni interazione mi è sembrata rivelare allo stesso tempo la violenza implicita nello sguardo maschile e la sua impotenza…

L: La realtà di Natale è popolata da presenze femminili, e su ciascuna di esse proietta un tema diverso. C’è in lui una timidezza estrema e una dipendenza affettiva nei confronti della madre, che rende inaccessibili tutte le altre donne – in parte per ragioni proprio insite nel rapporto materno, perché il suo desiderio, forse anche a causa di quel legame, si è rivolto fin da ragazzino verso il mondo maschile. Eppure, non si può dire che Natale abbia scelto davvero, si muove a tentoni, con costante soggezione. È inespresso, bloccato, quasi mai i nodi si sciolgono in lui. Di sicuro c’è violenza nel suo sguardo, a tratti goliardia, disprezzo, ma anche l’impotenza e la purezza di un bambino. Dall’innocenza della bambina rom – che per Natale rappresenta il rifugio di un’infanzia mai vissuta – alla figura di Lady Diana, sogno erotico legato al potere e alla sua fallibilità, fino alla madre e a Rossana, la barista, che, volente o nolente, lo traghetta fuori da Poggio Berni: ogni donna del romanzo incarna una sfaccettatura del suo desiderio e della sua perdita. Per quanto il libro si muova in un territorio di grana maschile, il peso specifico dei personaggi femminili è in realtà superiore.

A: Maschilità, relazione con i pari, con le aspettative e il sé…Nei tuoi romanzi la maschilità è qualcosa che si incrina, che si mette in discussione. Non c’è mai un’essenza virile da salvare, da riscoprire, da rivendicare. Ma non c’è nemmeno pretesa di innocenza. Ti riconosci in questa continua messa in crisi del maschile?

Sì, credo che sia il filo conduttore che lega Ragazza senza prefazione a Oppure il diavolo. È un tema che mi interessa molto, perché la contemporaneità sta iniettando nel maschile trasformazioni rapidissime. Sicuramente si tratta di una crisi, ma, come ogni crisi, porta con sé la possibilità di un fermento, di un rinnovamento. Misuro questo nelle relazioni che vivo io e in quelle che mi capita di osservare, è tutto molto complicato, pieno di conflitti. M’interessa questa condizione perché ci vedo uno spaesamento generale, una sorta di analfabetismo emotivo che costringe a ricostruire tutto quasi da capo. Per questo ho voluto privare Natale di una figura paterna: gli ho tolto anche quel riferimento, quel perno. Credo che ciò che attraversa il maschile contemporaneo sia un fenomeno psicologico, oltre che sociale. Non è un lamento senza fondo, è reale, e se da un lato i vecchi modelli sono obsoleti, dall’altro non ce ne sono ancora di nuovi. Il maschio dovrà riuscire ad accogliere la propria vulnerabilità, questo è sicuro, è un percorso tutto da scrivere. Un libro che mi ha aiutato a mettere meglio a fuoco questo tema è Quel che resta degli uomini. Sulla mascolinità di Manolo Farci, edito da Nottetempo.

A: Nel romanzo parlano persone che “non hanno diritto alla letteratura”: il tuo scrivere dà voce a un’umanità che di solito resta muta. E per parlare di loro hai scelto una lingua specifica che si deforma e si amalgama: il dialetto, la bestemmia, il parlato diventano materia poetica. Trovo sia un atto fortemente politico, quello di rivendicare una lingua orale e localizzata.

L: Per me la lingua è l’elemento più decisivo della scrittura, nei miei libri come in quelli altrui. Sono ossessivo in questo, soprattutto quando scrivo in prima persona. Mi piace molto giocare col dialetto, e più in generale con i regionalismi: quando scrivo, penso in dialetto romagnolo e mi auto-traduco battendo sulla tastiera, impegnandomi a non alzare mai il tono, voglio essere il più possibile aderente alla fonte. È un meccanismo che ho affinato col tempo e che oggi mi permette di scorrere sulla pagina come voglio. Dato che considero il dialetto la lingua della pancia, e l’italiano la lingua del cervello, solo in questa maniera posso dar voce a personaggi disperati, semicolti, che si esprimono con un linguaggio autentico, radicato. È un canale espressivo, il mio, che determina una prima persona monologante. L’oralità, inoltre, è il primo filtro che applico nelle riscritture. Rileggo tantissime volte ad alta voce, perché trovo che se qualcosa non è efficace oralmente, allora non lo sarà sulla pagina. La voce che adotto è spesso una voce mentale, quindi si concede anche la libertà di esplorare il mulinello dei pensieri. In fondo scrivere di provincia è scrivere per conservare il contatto con le proprie radici, e nel mio caso sono radici di lingua, soprattutto. Bianciardi lo diceva bene: è possibile ritrovare una verginità espressiva, perché la provincia ti rimanda a una dimensione vergine di ciò che hai da dire, che corrisponde a una necessità, a una sincerità di provenienza da non rinnegare. Mi piacerebbe che dalla voce di Natale di si alzasse un sentimento in particolare, che è quello della pietà, che credo sia da riscoprire e rivalutare.

A: La voce del romanzo sembra scavare da sola, come se parlasse dal fondo di un pozzo. Come hai lavorato sulla sua tenuta, sulla musica interiore che la sorregge? Mi interessano molto le influenze, specialmente quelle non strettamente letterarie, nella produzione di chi scrive. Ci sono sempre voci che risuonano nella letteratura, nel tuo caso mi sembra di percepire un legame con la tradizione Novecentesca di scrittori e poeti emiliani, come Pier Vittorio Tondelli, Paolo Nori e Olindo Guerrini (aka Lorenzo Stecchetti)…

L:Ho voluto rendere esplicito il debito che ho nei confronti di uno scrittore santarcangiolese, Nino Pedretti, inserendo una sua poesia come esergo. Sempre a proposito di Santarcangelo di Romagna, anche Raffaello Baldini è stato per me un autore fondante, così come Tonino Guerra e, a scendere, tutta la tradizione letteraria emiliana, fino a oggi. Per Tondelli, la scrittura doveva essere emotiva, e mi riconosco in questo tipo di approccio. Le mie storie sono storie emotive. Tondelli diceva che “l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale; se dopo due pagine il lettore non avverte il crescendo e si chiede: «Che cazzo sto a leggere?», quello che non capisce niente non è lui, ma lo scrittore”. Distingueva fra letteratura di conoscenza, che insegna, e letteratura di potenza, che commuove. Io aspiro alla seconda, anche perché lo scrittore che insegna invecchia presto, mentre “la scrittura emotiva dura finché dura la lingua, perché ne è connessa, esprime le intensità intime del linguaggio”, diceva sempre Tondelli. M’interessa lavorare sulla catena fonica delle parole, sul ritmo, sugli spigoli e sulla loro densità, affinché i personaggi abbiano la resa di un parlato che finge i modi del discorso orale, come dicevo prima. In Oppure il diavolo, inoltre, Natale mi ha imposto uno stile ancor più accentuato, a tratti sporco. Per esigenze di credibilità ho dovuto inasprire il tono, avvicinandolo ulteriormente al parlato e innervandolo di dialettismi. Anche le numerose troncature ed elisioni delle parole vanno in questa direzione: l’ho immaginato come un uomo che non finisce le frasi, un po’ per fretta, un po’ perché non vuole sentire fino in fondo quel che pensa o dice.


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