Aisha Kandisha

di Francesca Santi

Un cucchiaio d’acqua calda. Una spruzzata di limone. Dieci milligrammi di euforia in polvere.
Amedeo, chino sul lavabo, fece scattare lo Zippo e la fiamma azzurrata illuminò il suo sguardo bramoso.
“Che ne dici di Aisha Kandisha, Dedo?”
Amedeo saltò su come un giocattolo a molla e la sua dose innaffiò il tappeto spelacchiato sotto i suoi piedi nudi. “No!” ruggì, appiattendosi a terra e strofinando il naso sulla macchia umida “Era l’ultima… L’Ultima! Accidenti a te, Najat.”
La ragazza dagli occhi bistrati non fece una piega: restò appoggiata allo stipite, a braccia conserte. “Buon Natale anche a te! Non credo che così faccia effetto, sai?”
Amedeo le rispose con un grugnito.
“E comunque la cena è pronta: cos’è che dici sempre del mio capitone in umido?”
Amedeo sollevò la testa, restando carponi. “Che è meglio di una pera.”
Lei gli scompigliò i capelli. “Bravo cane! Se ti metti su due zampe, ti do anche un biscottino.”
Najat lo prese per mano e lui si lasciò trascinare in salotto, con l’arrendevolezza di un bimbo assonnato, zigzagando tra i corpi dei suoi amici addormentati. Il fumo del narghilè aleggiava ancora nella stanza e, scontrandosi col bagliore di una lampada a stelo, generava una nebbia rosa zucchero filato: Cesare arrotolato su sé stesso come un onisco, mordeva l’aria come se volesse assaggiarla; Giorgio muoveva le narici con la foga di un coniglio; Roberto apriva e chiudeva la mano, palpando l’invisibile.
Najat entrò in cucina per prima: la tavola era apparecchiata per una persona soltanto.
Amedeo si sedette. “E tu?”
“Lo sai che sono vegetariana.”
Amedeo fece spallucce: infilzò un grosso pezzo d’anguilla grondante di sugo e se lo infilò in bocca, incurante del rivolo di salsa che gli colò lungo il mento, gocciolandogli sul petto nudo.
Najat distolse lo sguardo, ma il suo mugolio di pura estasi le strappò una risata.
Amedeo inghiottì un altro boccone. “Cos’è che mi hai detto prima?”.
Najat si piegò su di lui per asciugarlo con un canovaccio. “Aisha Kandisha. È un’idea per il nome del gruppo: i ragazzi ne hanno parlato tutta la sera, ma non ne sono venuti a capo.”
“E sarebbe?”
“Una specie di genio della lampada, ma di sesso femminile. Nella storia che mi raccontava la mamma da piccola era la moglie di un notaio: se ne andava in giro a capo scoperto, facendo innamorare tutti gli uomini che incrociava.”
Najat fece una pausa e gli accarezzò una guancia col dorso della mano. “Sei tu che mi hai ispirato. Hai le potenzialità di un genio, ma senza qualcuno che ti guida sei bloccato nella tua prigione.”
Amedeo agitò in aria la forchetta con l’energia di un direttore d’orchestra, decorando il muro con un affresco di salsa. “Sei fuori, ma mi piace! Gli Aisha Kandisha: il primo gruppo metal italiano… ma quant’è buono il tuo cap!”
Najat lo guardò pescare nel piatto con le dita e si fece seria: “Sono contenta che ti piaccia: mi sono sentita uno schifo quando l’ho ucciso. Prima che calassi il coltello, si è divincolato e ha emesso uno strano verso, mi è sembrato che dicesse…”

“Ma vaffanculo!”
La voce di Cesare era venata da un’incredula meraviglia. Il van era proprio il suo: un Volkswagen T2 del ’69 con la scritta “Happy Klaus” sulla fiancata; si pizzicò una guancia, certo che si trattasse di uno strano sogno, ma il pino che svettava dal tettuccio restò dov’era.
Giorgio l’affiancò, sfregandosi le mani e soffiando nuvolette di condensa. “Promette neve!” esclamò, ma quando sollevò la testa restò coi palmi giunti come in preghiera e la bocca spalancata a fissare l’albero di Natale germogliato nel furgone.
Le fronde erano cariche di palline glitterate, impreziosite da una ghirlanda di luci intermittenti che si stagliavano sul cielo lattiginoso.
Lo sportello dal lato del guidatore si aprì in un graffiante cigolio, sputando fuori Roberto, che quasi si slogò la mandibola in un rumoroso sbadiglio, si stiracchiò e dopo essersi guardato intorno chiese: “Perché diavolo siete già vestiti da Babbo Natale? E dov’è Dedo?”
La seconda domanda fu come il trillo di una sveglia: i tre scattarono all’unisono, scontrandosi e poi correndo in direzioni opposte senza criterio, come biglie impazzite, accusandosi dello stesso crimine.
“Dovevi sorvegliarlo tu!”
Il parapiglia cessò quando Roberto sbirciò dietro il van: richiamò il gruppo con un semplice “Qui!”, lisciandosi la lunga barba bianca che intrecciava in punta, alla maniera dei vichinghi.
C’erano quattro sacchi a pelo abbandonati sul selciato, disposti a raggiera attorno a un fornello e da un pentolino annerito rovesciato stillavano gocce brune sull’erba brinosa. Al limitare di un piccolo faggeto, attraversato da un fiumiciattolo che gorgogliava fra un serpente di sassi, c’era una casupola scalcinata, con le finestre inchiodate da assi di legno, ma col tetto sfondato e senza porta. Roberto indicò ai compagni il sacco che imbozzolava il loro amico, prima di rivolgere la sua attenzione a una delle ruote del van, dipinta come il tirassegno di un Luna Park e forata da tre freccette.
“Cazzo!” esclamò Cesare.
“Disse la marchesa in un campo di fave.” rispose Amedeo, scalciando via il suo giaciglio.
Indossava solo un paio di mutande slabbrate, oltre a una casacca rossa bordata di pelo bianco in cui il suo corpo emaciato spariva: era sempre stato magro, ma adesso la sua pelle era un guanto per le ossa.
“Che cos’è questa baracconata?” chiese Cesare.
“Ho! Ho! Ho! Non ricordi? È un lavoro di squadra, vecchio mio: dopo la mia tisana dell’allegria persino tu sembravi divertente.”
Cesare si massaggiò le tempie con i pollici: la sera precedente cominciava a prendere forma nella sua mente; rivedeva sé stesso e i suoi compagni come attraverso uno specchio d’acqua: le bocche spalancate che si allungavano e si rimpicciolivano emettendo prima suoni distorti, poi frasi ubriache che iniziarono a riempirsi di significato man mano che la scena diventava sempre più nitida.
Giorgio annuì. “Ha ragione. Siamo andati in città a comprare l’albero, poi siamo tornati indietro e… Niente.  Buio.”
Cesare indicò Amedeo, ma inveì contro gli altri due compagni. “È irrilevante! Parte tutto sempre da lui. Ve lo ricordate che la ruota di scorta l’abbiamo usata la scorsa settimana? Ve lo ricordate che l’Antica Dolceria Moschin ha deciso di cambiare jingle il prossimo anno e che moriremo di fame se si sparge la voce che saltiamo le serate? È dicembre, il nostro mese d’oro, Dio mio! Ditegli qualcosa anche voi.”
Giorgio abbassò gli occhi, disegnando un cerchio con la punta della scarpa nella terra umida, mentre Roberto l’afferrò per la casacca e lo trascinò per qualche metro, prima di sbatterlo a un albero: “Beato te, che riesci ancora ad arrabbiarti con lui dopo quello che ci ha detto il dottore! Portagli rispetto: è il suo giro di basso che ha reso la tua canzone un successo.”
Amedeo mise le mani a coppa. “Ehi, voi! Lo so da me di essere più di qua che di là: non formalizzatevi.”
Cesare si riavviò i ricci brizzolati, guardandolo con aria stanca: “Mi dici cos’avevi in mente?”
 “Volevo solo celebrare il ritorno alle origini.” rispose Amedeo, indicando il rudere alle sue spalle.
Roberto strinse gli occhi e poi li sbarrò: “Non ci posso credere, quello è…”

“Il Boschetto? Mai sentito.” disse un Roberto con trent’anni di meno, col volto tinto di bianco e il rossetto nero a dipingergli un ghigno da clown assassino.
“E poi questo posto si chiama San Pio” disse Amedeo, guardandosi nello specchietto mentre si disegnava un pentacolo sulla faccia “Ti sembra adatto a gente come noi?”
Fu Najat a rispondere, sfogliando una guida turistica del luogo. “Qui dice che il nome è dovuto a numerose apparizioni di Padre Pio. L’ultima è del ’69.”
“Ma non è morto nel ‘68?” chiese Cesare, storcendo il naso mentre Giorgio gli fissava una parrucca di lunghi capelli bruni sulla testa.
“Bè, è pur sempre un santo” rispose Najat “Qui parla anche del miracolo della cardiognosi.”
“Cardio che?” chiese Amedeo, facendo le boccacce al suo riflesso.
“Ha confessato dei fedeli, ma loro sostengono che lui sapeva già cosa volevano dirgli prima che aprissero bocca.”
“Puttanate!” disse Amedeo, saltando giù dal van.
Gli Aisha Kandisha barcollarono nella neve sui loro stivali borchiati fino al locale, ma restarono immobili sulla soglia. L’interno era spoglio: le pareti erano tempestate di immagini sacre e gli avventori erano seduti su panche che ricordavano quelle di una chiesa; sul palco si stava esibendo un giovanotto con ali da cherubino, strimpellando una chitarra acustica. Il pubblico era composto da uomini e donne di mezza età e furono in molti a segnarsi quando li videro. Amedeo si voltò speranzoso verso il bancone, ma non vide nessun alcolico esposto, solo una vecchina che serviva cioccolate calde ornate da riccioli di panna.
Un omone dalla testa glabra si parò di fronte ai ragazzi, coi pugni affondati nei fianchi lardosi.
“Se volete suonare qui dovete cambiarvi e lavarvi la faccia. Ho dei costumi da Babbo Natale in magazzino: dovrebbero andarvi bene.”
“Ma siete stati voi a ingaggiarci, noi siamo…”
“Gli Aisha Kandisha, appunto: ci immaginavamo qualcosa di mistico, orientale, uno strappo alla tradizione, sì, ma garbato. Allora, vi preparate o no? Prendere o lasciare: niente esibizione, niente soldi.”
“Abbiamo fatto tanta strada, visto che ci siamo…” azzardò Cesare, lanciando occhiate imploranti agli altri.
 “Fatelo senza di me.” tagliò corto Amedeo, arrancando verso il van, con un solo pensiero in testa: la bustina che aveva lasciato nel cruscotto.
Dedo aveva già una mano sulla maniglia quando una voce gentile gli chiese: “Scusi! È caduto a lei?”
Amedeo si girò e si trovò davanti un frate dalla barba grigia che gli sorrise, porgendogli un volantino e lui lo esaminò, storcendo il naso: era il bando di un concorso che invitava a scrivere una canzone per la pubblicità di Natale dell’Antica Dolceria Moschin.
Amedeo aprì bocca per rispondergli, ma l’uomo lo precedette. “Sta pensando che non è il suo genere, vero?”
Amedeo si grattò la nuca. “E anche…”
“Che la sua compagna si stancherà di questa instabilità perpetua, ma che non può farci nulla. In realtà potrebbe.”
“Come sa…?”
L’uomo indietreggiò, sparendo dietro le fronde di un salice e poco dopo fu Najat a sorgere dall’ombra.
“Con chi parlavi?”
“Con nessuno. Sono sballato prima di farmi.” rispose lui, dirigendosi verso il furgone.
Amedeo prese posto sul sedile del passeggero, aprì il cruscotto e fissò lo smile giallo che gli sorrideva da un panierino d’acciaio.
Najat si dondolava, rivolgendogli un sorriso da monella, consapevole di aver compiuto una bricconata. “Stavolta col capitone ci ho fatto un bel ragù di pesce e l’ho messo su dei crostini: sono buoni anche freddi.”
Amedeo accartocciò il volantino e lo lanciò contro la ragazza, che l’afferrò al volo e lo srotolò.
“È fantastico!” esclamò “Perché non mandi la demo di quel pezzo che mi hai fatto sentire?”
Perché è solo per te. Non lo disse: lo scroscio di applausi che si levò dal Boschetto lo frenò.
“Sembra che sia stato un successone: saresti carino vestito da Babbo Natale.”
“Sei fastidiosa, sai? Più fastidiosa di questo profumo di violetta.”
“Quale profumo?”

“Violetta. È dappertutto, non lo sentite! È proprio come quella sera.” disse Amedeo, saltellando sul posto per infilarsi nei pantaloni di pile. Le sue caviglie erano così sottili che a ogni balzo Roberto temeva che si spezzassero come grissini.
Giorgio si accostò a Cesare. “Assecondalo” gli sibilò nell’orecchio “Il dottore l’ha detto che avrebbe sentito odori che non c’erano.”
“Sì, che lo sento! È insopportabile, ma il mio problema più grande al momento è raggiungere il Paradisino.”
Amedeo sbuffò. “Per cantare la tua canzone a quei vecchi rincoglioniti? Non mi scoccia morire, ma se penso che il ritornello di Pupazzo di neve potrebbe essere l’ultima cosa che sento, mi viene voglia di infilzarmi sulla punta di quell’albero.”
“A parte che quei vecchi rincoglioniti – come li chiami tu – hanno la nostra età, se non di meno: i volontari hanno fatto una colletta per allietare il loro Natale… vuoi proprio essere una merda fino alla fine?”
Amedeo mise il broncio, estrasse da una tasca dei calzoni un paio di cuffiette e se le cacciò nelle orecchie, mettendo i Death SS a tutto volume e sollevando il dito medio; Cesare si rimboccò le maniche della giacca e partì alla carica, ma Roberto si mise in mezzo, afferrando Dedo per la casacca troppo larga e Cesare per la barba finta: avrebbe potuto sollevarli entrambi, vista la sua stazza.
“Datevi una calmata! C’è un casolare laggiù: è a meno di un chilometro e una macchina ce l’hanno per forza. Chiediamo di comprare una ruota, la montiamo e ripartiamo: problema risolto… siamo d’accordo?”
Entrambi farfugliarono un “sì”, evitando di guardarsi.
Il casolare sembrava uscito dalla matita di un bambino poco fantasioso: un edificio rettangolare dalle pareti giallognole e col tetto spiovente in mattoni, rossi come una spremuta di ciliegia. Le due finestre e la porta ad arco sulla facciata sembravano formare un volto sorpreso. Il gruppo partì in fila indiana e Giorgio si mise a fischiettare il ritornello di “Pupazzi di neve” proprio quando le batterie dell’iPod di Dedo si scaricarono.
“Non basta suonarla minimo tre volte a serata, devo anche sentirla…”
Nella versione sette nani – avrebbe voluto dire, ma prima di riuscire a completare la frase, gli occhi gli si rovesciarono e pensò a due cose: “Sono diventato cieco!” e “Porta sfiga solo a nominarla quella stramaledetta canzone…”

“La canzone! L’hai mandata, vero? Cesare ha spedito la sua ed è così dozzinale!”
Najat restò ferma sulla soglia: il nero brillante dei suoi occhi perse tutta la sua lucentezza e col suo sguardo opaco fissò Amedeo seduto in terra in fondo alla stanza, appoggiato a una parete dall’intonaco scrostato, con la testa reclinata all’indietro e le pupille rivolte verso l’alto, come in contemplazione di una visione mistica. Dalla finestra schiccherellata sopra il portone filtravano raggi di luce che gli disegnavano una sorta d’aureola attorno alla nuca. Le braccia abbandonate, i palmi rivolti verso l’alto e una siringa piantata nell’incavo del gomito; cocci di una scodella di ceramica colorata e pezzi d’anguilla fritta erano disseminati ovunque.
È morto. Najat non riuscì a dirlo ad alta voce: il labbro le tremava troppo.
Si chinò a raccogliere un pezzo di pesce e se lo rigirò tra le dita, fissandolo con sguardo accusatorio: come se l’accaduto fosse colpa sua, che non aveva saputo sprigionare la sua magia, che non era riuscito a fermarlo.
Fu allora che Amedeo si riscosse, strappandosi il laccio emostatico con rabbia. Najat gli gattonò incontro, piangendo e chiamandolo, ma le lacrime le si prosciugarono all’istante quando lui le disse: “Perdi i colpi. Il cap era insipido stavolta.”
Najat gli tirò addosso una pepita dorata. “E per questo che hai ricominciato a farti?”
Amedeo allargò le braccia. “Non ho mai smesso, dolcezza. Lo facevo quando non c’eri: la favoletta del tuo pesce magico te la raccontavo per tenerti buona.”
Najat raccolse i bocconi di capitone uno a uno e glieli lanciò contro: “Ho smesso di provarci con te. Non ti meriti niente. Sei un…”
“Lo sapevi com’ero: se vuoi un tipo tranquillo, cercati un notaio, come la tua Aisha Kandisha.”
La pioggia di pesce cessò, Najat si chinò a cogliere un coccio appuntito e lo strinse così forte da farsi sanguinare le dita, prima di lanciarglielo contro, mancandolo di parecchio.
“È quello che farò.” disse, indietreggiando fino alla porta. La sbatté e lo schiocco che produsse suonò come uno schiaffo.

Uno schiaffo ben assestato gli torse il collo. Amedeo aprì gli occhi e vide cinque volti chini su di lui: allungò le dita per sfiorare quello femminile, ma la donna si ritrasse.
“Sono in Paradiso?” chiese Dedo.
Roberto lo accarezzò con la stessa mano con cui lo aveva colpito. “Sei a casa Cupiello: la signora Ada è stata gentilissima e si è offerta di aiutarci.”
“Non si chiamava Cupiello anche la tua ex? Quella col padre napoletano che le aveva lasciato in eredità la ricetta del capitone?” chiese Giorgio, senza ottenere risposta.
La signora Ada alzò gli occhi al cielo: “Non parlatemi del capitone. Mia figlia si è impuntata che non devo cucinarlo e mi sta facendo uscire pazza! È vegetariana, lei!”
Cesare non l’ascoltava: era rapito dal grande presepe allestito nel disimpegno. Stelle argentate su un cielo blu elettrico e stropicciato – una carta da regalo riciclata, pensò – giornali accartocciati e malamente dipinti a simulare le montagne; il tappeto di borraccina solcato da un sentiero di sassolini bianchi che conducevano alla capannuccia, dove la culla era ancora vuota.
Giorgio gli si avvicinò e aggrottò la fronte. “È Grande Puffo quello in mezzo ai Re Magi?”
“Sì, ma per l’occasione interpreta Melchiorre: Mao Tse Tung l’ha mangiato.” S’intromise Ada.
“Chi?” chiese Giorgio.
Un miagolio sommesso si levò da un angolo in ombra.
“Ecco! Ha risposto direttamente lui. Era il gatto di mio marito, ma il vero Mao potete ammirarlo anche lì.” disse la donna indicando due cornici affiancate che contenevano rispettivamente il ritratto del rivoluzionario cinese e quello di Stalin.
L’enorme Sacro di Birmania le si strofinò contro il polpaccio prima di dirigersi verso la cucina a coda ritta. Roberto indicò la capannuccia, dove la Vergine era impersonata da una Matrioska e Giuseppe da un Big Jim a torso nudo e senza gambe. “E quelli?”
Ada sospirò: “Il mio Carlo era una gran brava persona, ma era un mangiapreti e non amava il Natale. Permetteva alla nostra Lenina di fare il presepe a patto che fosse…”
“Blasfemo.” finì Giorgio.
“Già e la piccina non ha più perso l’abitudine. Lenina è una bimba difficile: non parla da quando è morto il padre.”
Roberto si voltò, insospettito dal silenzio di Amedeo e tirò Cesare per la giacca: “Dov’è finito Dedo?”
“DEDO! Colpa di Najat se mi chiamano così, colpa sua se…”
Non gli venne in mente nulla per finire la frase, si assicurò di aver chiuso a chiave la porta della lavanderia e – appoggiato all’asciugatrice col laccio emostatico già stretto al braccio, impugnò la siringa, scimmiottando ad alta voce il suo medico: “Quattro mesi, forse sei… neanche un giorno se si buca di nuovo.”
Lo voleva con tutto sé stesso, ma quando alzò lo sguardo e la vide, lasciò cadere la siringa, che rotolò sotto un mobiletto… Affacciata da un oblò poco sopra la sua testa c’era una bambina con grandi occhi scuri dal taglio medio-orientale, frangiati da ciglia lunghissime.
La bimba si ritrasse, ma lui salì sull’asciugatrice, si aggrappò alla finestrella e si sollevò a fatica, ansimando per lo sforzo ma riuscendo a saltare nell’altra stanza.
La bimba era seduta sul bordo della vasca e la tenda di plastica azzurrina che le scendeva sui capelli la faceva sembrare una giovanissima Madonna.
L’uomo sollevò una mano e le sorrise. “Mi chiamo Amedeo. Dedo, se preferisci. E tu?”
La bambina restò zitta e distolse lo sguardo dall’estraneo per guardare dentro la vasca, colma fino all’orlo. Amedeo allungò il collo e quando vide la creatura che increspava l’acqua, guizzando impazzita, gli occhi gli si inumidirono.
La bimba gli rivolse un’occhiata interrogativa e lui si asciugò le lacrime con una manica.
“Non è niente, piccola, mi è solo venuta in mente una persona a cui tenevo.”
La bimba fece scorrere le dita sul pelo dell’acqua, accarezzando il dorso del capitone, che rallentò la sua frenesia. Esitò qualche istante prima di decidersi a rivolgergli la parola.
“Io mi chiamo Lenina… Tu sei il vero Babbo Natale?” gli chiese.
Amedeo balbettò una risposta incomprensibile che lei interpretò come un sì.
“Al funerale del babbo, l’uomo che sapeva di violetta me l’aveva detto che saresti venuto a trovarmi.”
Amedeo si passò una mano nodosa sulla faccia. “Un frate con la barba?”
Lenina annuì con entusiasmo. “Mi ha detto che saresti venuto a trovarmi per portarmi un bel regalo.”
Amedeo si morse il labbro, si frugò in tasca, ma non trovò neppure una caramella stantia e subito bramò la siringa che gli era caduta per sfuggire all’imbarazzo.
“E cos’è che ti piacerebbe?” chiese, grattandosi il collo.
“Un albero pieno di luci tutto mio. Non abbiamo mai festeggiato davvero il Natale: il babbo pensava che fosse una festa capitalista.”
Un sorriso affiorò sulle labbra di Amedeo. “Si può fare, ma dobbiamo camminare un po’.”
“Possiamo portarlo con noi?” chiese Lenina, indicando il capitone “Non voglio che lo friggano.”
Amedeo annuì e uscì dal bagno, furtivo come un ladro provetto con il capitone in un secchio e Lenina sulle spalle, ignorando gli amici che lo chiamavano a gran voce, pattugliando il retro del casolare: ignorò le ginocchia che cedevano, le giunture che scricchiolavano, la voce che gli urlava nella testa di volere una dose e si sorprese nel sentirsi rinvigorito quando liberò il capitone nel fiumiciattolo a pochi metri dall’ex Boschetto.
“Chiudi gli occhi!” disse Amedeo, incamminandosi verso il van.
 Lenina se li coprì con le mani paffute e Dedo, sfinito, la fece sedere su un masso liscio, entrò nel furgone e accese le luci del suo bizzarro albero, illuminando la radura di uno strabiliante fulgore.
“Aprili ora!” le gridò, osservandola dal finestrino. E quando vide riflesso lo stupore nei suoi occhi liquidi si sentì sopraffatto da una dolce stanchezza: prima di chiudere i suoi, gli sembrò che l’aria fosse pregna di un intenso profumo di violetta e si assopì col sorriso, sognando di vomitare in un fiume decine di capitoni interi, tutti vivi: erano quelli che Najat gli aveva cucinato per guarirlo; guizzarono in branco verso sud e lui fu certo che avrebbero raggiunto la donna che lo credeva un genio della lampada per avvertirla che finalmente era riuscito a compiere una piccola magia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *