La Signora Simone

di Dimaco
Copertina: Agguato al sole – Julio Armenante

“Con la presente scrittura privata, io sottoscritto Campanaro Vito, nato a Lucera il… quando sei nato?”
“quindici undici quarantacinque”
“…eh, allora scrivi, scrivi…”
Luigi mi dettava il testo del documento che formalizzava il mio debito mentre passeggiava per la stanza a braccia conserte, e ogni tanto si lisciava i folti baffi alla moda. Il parquet gli scricchiolava sotto le scarpe.
La signora Simone invece stava alla scrivania, all’altro lato della stanza.
In mucchietti precisi per taglio stava riordinando banconote, e in un quaderno scriveva con la stilografica i conteggi, chiudendo ogni rigo con un colpetto di carta assorbente.
“…dichiaro di ricevere in prestito infruttifero la somma di lire cinquecentomila…”
Ne avrei dovute restituire settecentomila, si intendeva. Sono cominciati così i miei casini.

…..

Io lavoravo alla FIAT Mirafiori. Ero un napuli. Un mandarino. Un tera-da-pipe. Stavo in affitto in una casa di ringhiera di Barriera di Milano.
Ho conosciuto Luigi nel bar di via Aosta. Luigi stava qui già da un po’. Era un calabrese, di Vibo.
Luigi faceva, come si usa dire adesso, il tutor. Il tutor dei disgraziati. L’alloggio, per dire, me l’aveva trovato lui. Avevo quasi ventiquattro anni e la licenza elementare. Casa, pullman, fabbrica, pullman, casa, bar. E della vita non sapevo proprio un cazzo.

Ero uno evoluto rispetto agli altri, però. Non avevo moglie, vivevo da solo. Ero partito dal paese appena avevo potuto. Non volevo morire nei campi, qualsiasi altra cosa sembrava meglio.
In queste due stanze col cesso in comune sul balcone mi sentivo un principe. Mi arrangiavo, ero uno tranquillo e beneducato, nessuno mi voleva male, stavo bene con tutti. E le donne qui mi sembravano tutte bellissime.

Io avevo perso dei soldi alle carte. E poi altri ne dovevo indietro a chi mi aveva portato qui e fatto assumere: “Torino mica è aggratis”
Luigi mi aveva fatto conoscere la signora Simone. “È una che fa del bene. Una santa, credimi.”
“Ma che bel fieul!… Lavori in fabbrica?”
La signora Simone era una torinese non più giovane e neanche bella, ma era difficile capire quanti anni avesse. Aveva un viso strano, inespressivo e molto truccato, con un sorrisetto stampato sopra, marcato dal rossetto vistoso, e un mucchio di gioielli addosso. “Bigiotteria”, diceva lei.
“Adesso troviamo una soluzione” mi rassicurò, prendendomi il viso tra le mani. Non ero abituato alle confidenze, e mi ritrassi d’istinto. Poi mi accorsi della mia scortesia e mi scusai.

“Viva Marx Viva Lenin Viva Mao Tse Tung”
Nel palazzo di fronte a casa era apparsa questa scritta, verniciata sul muro. In fabbrica stavamo scioperando tanto. Cioè, io non avrei voluto scioperare, ma c’erano i picchetti e a uno che voleva entrare gli avevano spaccato la testa. Quando non entravo me ne andavo in giro, e lo stipendio si assottigliava. Però era vero, la catena mi sfiancava. Quando tornavo avevo solo voglia di dormire. Forse la fabbrica non era per me. Ma forse non era per nessuno.

….

Rendevo i soldi alla signora Simone quando li avevo, quando potevo, pochi alla volta.
Glieli portavo a casa sua tutti i giovedì. Era sempre molto gentile. Mi offriva un bicchierino di vermouth.
“Più di così non posso stavolta. Mi spiace davvero”
“Ma sagrinte nen, poi ci aggiustiamo…”, mi diceva carezzandomi la guancia.
“Senti, ti faccio una proposta… Luigi mi aiuta nelle faccende ma ha troppo lavoro… se vuoi dargli una mano ogni tanto possiamo mettere a posto il debito”
“Vorrei, ma io le faccende di casa non le so fare”
“Ahahah… non sono le faccende di casa! Ti insegnerà lui, stai tranquillo”
Luigi, il factotum. Non sapevo se fosse davvero così contento che io lo aiutassi.

“Non si chiede l’età di una signora”
“Ma io mica la chiedo a lei. Ha più di cinquant’anni?”
Luigi non rispose, continuava a leggere il giornale. Tracannò la sambuca.
“Ma tu te la fotti anche?”, gli chiesi mentre ci stavamo alzando dal tavolino fuori dal bar.
Non disse nulla. Mi precedette dandomi un lieve scappellotto sulla nuca.
“Andiamo, che c’è da fare”

Luigi mi aveva anche insegnato a guidare. Come guidava lui, si intende. Poi avrei preso pure la patente, magari. Lui non poteva prenderla, diceva. Ma non mi aveva mai spiegato il perché.
Finito il turno, rientrato a casa, mi aspettava con la Centoventicinque bianca.
“Devo andare da uno. Mi servi anche tu”
“Quando?”
“Adesso”

…..

Non conoscevo benissimo Torino per cui non sapevo dove fossimo, ma mi aveva portato in una zona di gente ricca, si vedeva dalle case e dalle macchine.
Parcheggiammo e ci fermammo poco distante davanti a un portone, ad aspettare.
“Alle undici porta sempre fuori il cane”
Uscì un uomo piccolo e grassoccio dall’aspetto mite, ben vestito, con un cane al guinzaglio che un po’ gli assomigliava.
Luigi lo accostò e si misero a confabulare a bassa voce poco lontani da me. Io però non riuscivo a sentire. Ad un certo momento l’uomo provò ad andarsene, ma Luigi lo afferrò per un braccio.
Lui lo spinse via e si mise a correre proprio verso di me.
“Fermalo!” mi urlò Luigi, e io istintivamente lo abbrancai. Luigi arrivò e gli diede due pugni fortissimi sulle costole. Poi ancora lo prese per il collo. Lui gridava “No! No!” ma gliene arrivarono in faccia altri due, che gli frantumarono il naso e i denti davanti.
Cascò a terra che era semi svenuto, con una maschera di sangue sul viso. Sibilava “Perché…? perché…?”
Luigi mi fece segno di sbrigarmi ad andarcene, prima che arrivasse gente. Il cane, nel mentre, ci abbaiava dietro.

“Guida tu, mi sono fatto male alla mano co’ ‘sto pezzodimmerda…” mi diceva Luigi mentre cercava di ripulirsela alla meglio con un fazzoletto.
“Ma che aveva fatto?”
“Si è speso milioni in bagasce e alla roulette… E non li restituiva, perché la moglie non glieli dava, diceva… Ma i debiti si pagano!”
E io pensavo chissà se avrei mai finito di pagare il mio. E come.

….

“Guarda che io non sono capace di picchiare la gente. Cioè, solo per difendermi, altrimenti non riesco…”
“Non c’è nessuno da picchiare. Devi fare una faccenda. Ti spiego io bene, dopo”
Io e Luigi eravamo usciti dalla trattoria. Tornati al bar lui si era messo a giocare a biliardo. Io stavo fuori ai tavolini a fumare.
Poi lui uscì, si sedette di fianco a me, porgendomi un biglietto.
“È a Collegno, l’indirizzo è questo qui. Qui c’è il numero di targa. È una millecento azzurra. Io non posso andare perché lì mi conoscono, sanno chi sono. C’è una tanica piena nel baule della mia macchina, eccoti le chiavi. Mi raccomando fai un bel lavoro, senza fare casino”
Stavo per chiedergli spiegazioni, ma mi trattenni… Tanto, che altro c’era da spiegare?
“E non fumare!”, e tornò al biliardo.

Trovata la macchina, fu tutto molto semplice. E anche rapido. Erano le due di notte.
In venti secondi la millecento stava già bruciando. Mi incamminai a piedi, svoltai l’angolo e partii col Centoventicinque, senza neanche passarci davanti. Faccenda sbrigata.

….

Quel giovedì la signora Simone cambiò totalmente registro.
Mi disse che era contenta di me, che ero uno affidabile. Mi chiese se avessi una fidanzata, o una qualche simpatia. Io facevo no con la testa, e sorridevo senza parlare.
“Non fai mai l’amore, quindi…?”
Io imbarazzato allargai le braccia.
“Ma ti piacciono le donne?!?”
Vide un mio trasalimento sdegnato, evidentemente, per la sua voluta provocazione.
Mi si avvicinò al viso con il suo seno consistente. E mi mise la mano sul cazzo.
Mi disse di aspettarla in camera.

C’era buio in quella stanza. L’unica fonte luminosa era una abat-jour con un paralume verde che attutiva tutti i contorni. La signora Simone profumava tantissimo, probabilmente erano essenze di pregio che io non riuscivo ad apprezzare, non intendendomene.
Portava un velo di tulle nero che però non riusciva a farla apparire sensuale, ma solo come una grossa bambola un po’ flaccida. Per uno come me, un cafone inurbato, senza donne, senza un buco dove metterlo, senza un soldo, forse per quella volta poteva anche andar bene così.
Feci quello che dovevo fare, senza pensare.
Semplicemente mi sfogai, con una rabbia calma, come uno che cerca di correre con un peso addosso. La sentivo ansimare, e poi con un sussulto, con le mani aggrappate al mio sedere, la sentii venire con un piccolo urlo acuto vicino al mio orecchio.
Mi risvegliai poi in piena notte. Lei dormiva su un fianco. Me ne andai in silenzio come un ladro.
“Non parlarne con Luigi” la sentii dire mentre ero sulla soglia.
Il mio debito comunque era ancora lì, lontano dall’essere saldato.

…..

C’erano stati ancora casini in fabbrica.
Mi ero trovato, senza neanche saperlo, dentro un corteo interno. C’erano stati dei morti qualche giorno prima a Battipaglia, durante una manifestazione. La polizia aveva sparato, e c’erano rimasti secchi due che non c’entravano niente. Io tutte queste cose le venivo a sapere dai compagni di reparto.
Non mi piacevano i comunisti, o almeno non ne capivo niente di queste cose. Ma la rabbia si trasmetteva come la corrente in un filo, e io che ci ero attaccato adesso me ne sentivo pieno.
Era stato divertente, sfilavamo gridando slogan davanti ai capi e ai guardioni, coi fischietti, con i cassoni di lamiera a picchiarci sopra coi manici delle ramazze.

Dopo qualche settimana il tran-tran proseguiva sempre allo stesso modo.
La mia vicina di casa mi bussò una sera per darmi una lettera, una raccomandata arrivata la mattina che lei mi aveva ritirato. C’era il marchio della FIAT. La lessi alla veloce, capendoci una parola su tre. Ma il senso invece era chiaro. Mi avevano sospeso.
Telefonai giù, a Lucera. Seppi che avrebbero aperto uno stabilimento a Termoli, ancora non si sapeva quando. Forse sarei potuto tornare. Tornare dove? A fare cosa? E poi, adesso, figurati se avrebbero preso uno come me.
Andai dalla signora Simone. Le spiegai come stavano le cose. Mi disse di non pensarci, che avrebbe provveduto lei. E si fece scopare di nuovo.

…..

Al bar la signora Simone beveva il suo Fernet. Aspettavamo un tale, un altro che si era messo nei guai, spiegava Luigi, e aveva bisogno di “una mano d’aiuto”
La macchina dell’Arma si fermò in doppia fila, vicino ai tavolini. I due in divisa ci raggiunsero.
“Lei è il signor Lo Bianco Luigi?”
“Sono io… E che succede?”
“Favorisca i documenti, prego…”
L’appuntato esaminò rapidamente, e poi notificò.
“Ci deve seguire in centrale. Qui c’è il mandato di arresto.”

“…’Nfame! …Puttana!” disse Luigi verso di noi, mentre il carabiniere, prendendolo a braccetto, lo invitava ad accomodarsi dentro la vettura.
Ripartirono in maniera roboante, cinematografica: sgommando e con le sirene. Il piccolo capannello di persone che si era formato si diradò tra i mormorii.
“Che darmàgi, povero Luigi… ma era troppo ignorante… a l’era propi nen bun a fé sò mestè…
siamo tutti in debito… sempre…”
Mi cinse per un fianco, delicatamente.
“Andiamo, che c’è da fare”

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