Il finto specchio

di Nicola De Zorzi
Copertina: Ritratti #5 – Gerda Taro – Julio Armenante

Parte prima

La consideri una prova, mi dissero.
L’Ufficio mi convocò una notte d’agosto. L’afa estiva era terribile, il fiato si condensava nonostante il caldo, perché i polmoni ingerivano e rigettavano acqua. Le zanzare pungevano in silenzio; anche loro avevano imparato a non far rumore per sopravvivere.
L’Ufficio era piccolo e spartano, secondo il modello di vita che ci avevano insegnato a seguire. Ma era così buio che, al caldo dell’unica lampada al centro del tavolo di legno nero, le ombre rendevano ogni cosa complicata ed esageratamente grande. Il tavolo e le sedie e chi le occupava, i fiori sbiaditi della carta da parati che sembravano tendersi e serpeggiare, carnivori o saprofagi. L’unico a rimanere minuscolo ero io, che ero anche l’unico in piedi. La sola nota di colore che si sottraeva alla luce smunta della lampada era quella dei piccoli triangoli color geranio dei colletti all’altro lato del tavolo. L’aria era immobile, sembrava di respirare vetro, sembrava che ogni respiro fosse un tuono lontano e sembrava che loro non respirassero affatto.
Avrei sostenuto un prova, dissero. Un provino, se vogliamo, per vedere se sarei stato all’altezza del ruolo di finto specchio. Ne sarei stato all’altezza, vero? Pregai che al buio il mio sudore non luccicasse troppo. Mi diedero una lista di nomi, un indirizzo, i luoghi in cui avrei potuto incontrare chi dovevo incontrare, dei profili dettagliati e delle istruzioni su come avvicinarmi a loro. Feci del mio meglio per trattenere la mano che voleva salire fino alla mia fronte e spazzare via il sudore. I miei polpastrelli impregnarono la carta che stringevano.
Ha qualche domanda? Non ne avevo. Non volevo farne.
Non sia timido, dissero con una carezza delle labbra.
Insistetti nel mio silenzio, che rafforzai mantenendo gli occhi spalancati e le labbra sigillate e piatte. Alla fine risero; si scambiarono occhiate d’approvazione, annuirono.
Bravo, bravo! Lei sembra proprio brillante, sveglio davvero. Ora, tenga presente che lei è – ma non se ne faccia una colpa – alle prime armi, quindi non esageri. Non reciti fuori dal copione.
Se dovesse sentire, a qualunque punto, di non farcela, ce lo faccia sapere. La consideri una prova.
Non è una prova, dissi prima di rendermene conto. È la mia missione e la porterò a termine.
Non risero, ora, non dissero più che ero bravo. Ghignarono seri, e ancora non capisco come si possa esser seri mentre si ghigna.
Chiamano quelli come me, quelli come ciò che stavo provando a diventare, finti specchi. Come gli specchi delle case stregate, come gli specchi delle sale interrogatorio. Chi vi sta di fronte vede ciò che si suppone debba vedere; ma, dietro, ci sono loro. Ci siamo noi.
Una volta fuori, cercai il sollievo di un soffio d’aria che, seppur densa e liquida, era brezza rispetto a quella dell’ufficio. Mi resi conto che la camicia mi si appiccicava addosso dal polsino al colletto; dovetti allentare la cravatta, che mi riposava sul petto con la pesantezza di un animale. E, nonostante tutto, ero leggero. Tornai a casa di corsa trattenendo a forza la voglia di fischiettare.
Una zanzara mi si posò, sfacciata o stupida, o più probabilmente disperata, in bella vista sul dorso della mano sinistra. Lasciai che mi pungesse, che godesse un po’ della meravigliosa vita che mi benediceva. Poi, al culmine dell’amplesso ematofago, lesto, la schiacciai.
Quella notte non dormii. Ripassai i nomi e gli indirizzi, imparai le biografie dei sospettati, le loro abitudini, imparai le mie abitudini, quelle che avrei dovuto assumere da quel momento. Mi creai a loro immagine. Il mattino dopo, neppure un po’ stanco o assonnato, iniziai ad infiltrarmi come una goccia d’acqua attraverso strati di terra secca.
Il primo strato fu la macelleria del giovane Vianello. Un bel ragazzo, sorridente, gentile, con modi troppo dolci per tutto quel sangue e mani troppo sottili per coltelli così grossi. Non feci molto. Comprai qualcosa, scambiai due parole. Fui simpatico e cortese, spiritoso ma non invadente. Sarei tornato qualche giorno dopo, e lui si sarebbe ricordato di me.
Il secondo strato fu De’ Palazzi, gestore di un robivecchi che lui si ostinava a chiamare antiquariato. Non ci avevo mai avuto a che fare, non di persona, ma l’avevo visto spesso in giro, sempre in cerca di qualcosa, sempre con quel gilet ridicolo, sempre con un cravattino. La sua bottega mi ricordò, per certi versi, l’ufficio del mio colloquio. Altrettanto scura, altrettanto opprimente. Ma se nell’Ufficio tutto era immobile, nella sua bottega De’ Palazzi si muoveva con grazia, con l’ostentazione di chi impone la vita a qualcosa di imbalsamato. De’ Palazzi possedeva, tra le altre cose, una piccola libreria di volumi – come dire? – sconsigliati. Si andava da testi bollati da aspre critiche di stampo letterario (ma d’intento politico) a libri espressamente censurati. Anche solo quello sarebbe bastato a sbattere De’ Palazzi in carcere abbastanza a lungo da fargli riconsiderare le sue scelte in fatto di merce, ma lui se ne fregava.
Scelsi uno dei volumi più innocui. De’ Palazzi mi squadrò inclinando il capo fra i suoi occhialetti da stronzo e il gilet da pagliaccio, e fece per firmare una ricevuta, ma io, con sguardo limpido e colpevole, gli dissi: No, non lo faccia. Non serve. Lui annuì e, per riconoscenza, mi fece un piccolo sconto. Grazie tante.
Il terzo strato si chiamava Ada Grimaldi, e faceva la cameriera in un caffè del centro. Il locale era piccolo e scuro, come il robivecchi e come l’Ufficio. Veniva da pensare che l’Ufficio fosse ovunque, in ogni palazzo, in ognuno di noi. Cercai la ragazza con lo sguardo. Era piccola, probabilmente graziosa una volta toltasi di dosso il grembiule e la stanchezza. Ora sembrava più che altro insignificante. Quando serviva il caffé, le sue mani un po’ tremanti facevano tintinnare la tazzina. Scriveva poesie, che pubblicava su giornali “rivoluzionari”, ovviamente proibiti ma tenaci come cimici, ovviamente sotto pseudonimo. Come se un nome falso fosse difficile da svelare per chi si muoveva dietro un finto specchio.
Rimasi seduto. Mi feci servire. Il locale era vuoto, così fu facile accertarmi che lei potesse, in futuro, ricordarsi di me. Anche solo ricordarmi come ci si ricorda, una volta svegli, di quell’unico frammento inspiegabilmente integro di un sogno che sta svanendo.
Tornai a casa e appuntai i miei progressi. Non scrissi all’Ufficio perché non mi era stato richiesto di farlo, salvo novità importanti. Preferivo farlo in futuro, dopo aver ottenuto abbastanza materiale da sorprenderli. La mia infiltrazione era iniziata.

Parte seconda

Ritratti #12 – Oreste Ristori – Julio Armenante

Durante le settimane successive agii con metodo e pazienza. Le istruzioni consigliavano di non aver fretta, le istruzioni dicevano che fretta non c’era, e a me del resto piaceva lavorare con calma, come un artigiano. Andavo a trovare i miei tre futuri amici a giorni alterni, adottando un calendario diverso per ognuno di loro, scandendo i miei giorni tra l’odore fresco e bagnato del sangue e della carne, quello stantio e polveroso del vecchiume e quello confortante di caffè e velluto. Una volta la settimana, quindi, da Vianello (sempre una confezione di salsicce all’aglio, con l’aggiunta di qualcos’altro a seconda del mio umore; volevo dare un senso di sicurezza abitudinaria, volevo che mi associasse alle salsicce all’aglio, ma non volevo che l’abitudine, da marchio simpaticamente distintivo, potesse passare per qualcosa di inquietante o grottesco, come le manie dei matti); due volte la settimana da Ada, per un caffè e una brioche (latte e zucchero nel primo, cioccolato nella seconda; gusti dolci, rassicuranti). Quando non c’era nessuno parlavamo del più e del meno. Le dicevo del mio lavoro (finto) e parlavo di quanto mi piacesse la vita che mi facevano vivere. Ma stavo attento che, dietro le mie parole meccaniche, impostate come quelle di chiunque altro, ci fosse una nota di timore, di insoddisfazione goffamente dissimulata. Ed ero certo che lei se ne accorgesse. E ogni tanto si sedeva con me, quando non c’era nessuno, e ripeteva parole simili alle mie, con un tono simile, che era diventato un nostro codice segreto. Una punta di sarcasmo qui, un’occhiata fugace lì, al termine di una frase.
Da De’ Palazzi andavo con minor regolarità, ovvero solo dopo il tempo presumibilmente necessario a terminare uno di quei libracci, che ovviamente neanche aprivo. Ogni volta nascondevo il mio acquisto in una tasca della giacca troppo pesante per la stagione, e ogni volta sentivo gli occhi di De’ Palazzi, taglienti dietro gli occhialetti, seguirmi fino a quando uscivo dalla cornice della porta. Solo una volta mi fermò, ed ebbi paura. Ma lui mi portò in un angolo del negozio, indicandomi un baule a cassapanca dall’aria anonima, ricoperto da decine di cianfrusaglie che rimosse cauto, prima di aprire il baule e – guardandosi attorno con finta indifferenza – scoprire un doppio fondo. Mi disse che, se volevo tenere quei libri, era meglio metterli al sicuro. Io sorrisi impacciato. Non me lo posso permettere. Sa, il mio stipendio… non dico sia basso, eh, va benissimo per la vita – come dire –  semplice, che è giusto io conduca… come tutti… ma un baule, eh… uno così… di, di buona fattura direi, no? Non…
Glielo regalo.
Come? Oh, no. No, no, no.
Sì, invece. Tutti i libri che ha comprato ben valgono un piccolo omaggio.
Non…
E valgono il bisogno di nasconderli per bene.
Dovetti accettare. Dovetti anche portarmi il baule fino a casa, da solo.
Passato un mese, divenni impaziente, ma mi controllai. Mi infiltrai piano, piano, piano. Ogni chiacchiera mi avvicinava un po’ di più al nucleo che dovevo contaminare. Al secondo mese, decisi che era il momento di forzare la mano. Nel mio bagno, mi misi davanti al minuscolo specchio pieno di macchie grigie simili a muffa o a marmo. Presi un panno e strofinai via la condensa, quindi arrotolai il panno a cilindro e lo morsi. E mi colpii. Chiusi gli occhi mentre il mio pugno destro volava verso il mio zigomo, tagliandolo. Li chiusi quando mi colpii il naso, una parabola di martello contro la cartilagine che si spaccava, contro il bruciore delle mie mucose come se mi fossi tuffato in acqua salata senza trattenere il respiro, contro le lacrime che non volevano saperne di fermarsi. Contro queste lacrime, poi, contro la cateratta sinistra da cui sgorgavano, tirai un terzo pugno. Morsi il fazzoletto a sangue, poi lo sputai e urlai nell’incavo del mio braccio, mordendo anche quello.
Mi guardai. Sullo specchio che già si stava appannando di nuovo, ero quasi irriconoscibile. Risi, risi forte e con gran dolore, al punto che dovetti fermarmi, imprecare, per poi ridere di nuovo della mia goffaggine. Ci ero andato un po’ troppo pesante. Mi sarei vergognato ad uscire di casa! Risi ancora, e ancora mi fermai. In capo a due o tre giorni, il risultato sarebbe stato perfetto.
Quando mi fui ripreso – dopo notti insonni e pasti saltati per via del dolore, che mi resero ancor più smunto ed emaciato – diedi il via alla seconda fase della mia missione.
Entrai da Vianello di prima mattina, felice di non incontrare nessuno per strada. Quando il giovane mi vide, sgranò gli occhi.
Oddio, signor… che le è successo?
Forzai un sorriso che strappò un gemito alla mia guancia. Niente, niente. Senta, dicono che una bistecca fredda faccia bene ai lividi. Ne ha una?
Altro che bistecca fredda. Aspetti un attimo.
Chiuse la porta della bottega, e mi portò sul retro. Ai ganci erano appese bestie sventrate, alcune delle quali ancora gocciolavano sangue.
Spero che la vista non la impressioni, disse Vianello. Del resto, la maggior parte di questi animali ha un aspetto migliore del suo.
La prego, non mi faccia ridere.
Vianello cercò, fra i coltelli, una lama minuscola, simile ad un bisturi.
Un… un attimo, cosa…
Stia fermo. Serri i denti. Stia fermo. Chiuda gli occhi.
Chiusi gli occhi. Sentii un tocco freddo sopra la palpebra sinistra. Poi divenne caldo, il tocco, incandescente. Lottai per non muovermi. Il tocco incandescente si allungò in un tratto di matita, poi si espanse e mi colò lungo la guancia.
Ecco. Ecco. Bravo, bravissimo. Ma lei è un eroe, sa? Non ha fatto una piega. Ora bisogna disinfettare.
L’alcol mi bruciò sulla ferita e nel naso.
Ecco, adesso può anche avere la sua bistecca, se vuole.
Ridemmo entrambi ma, appena ebbi la forza di aprire l’occhio e guardarlo, vidi che Vianello era furibondo. Il suo pugno era talmente stretto da tremare, e non potei che ammirare la ferma precisione con cui mi aveva appena inciso.
Quei bastardi, diceva. Quei bastardi, cani, cani bastardi.
Uscii con una borsa di carne, il doppio delle salsicce che ero solito ordinare, omaggio della casa. Ero estremamente soddisfatto. Avevo voglia di fare colazione. Sarebbe stato forse più prudente portare la carne a casa, ma sapevo che a quel punto era inevitabile che i miei tre amici finissero per parlare di me. Potevo solo sperare che tutto andasse bene.
Ada si portò le mani alla bocca. Ma che le è successo, santo cielo? Per carità, si sieda. Le serve qualcosa?
Il solito, grazie.
Si morse le labbra e, per quanto fosse difficile a dirsi nella penombra del locale, i suoi occhi sembravano lucidi.
Posso sapere, chiese mentre mi serviva, cosa…
Credo sia meglio di no. Se c’è una cosa che ho appena imparato, è che bisogna stare attenti con le parole.
La colazione me la offrì la casa.
De’ Palazzi si dimostrò, con mia sorpresa, il più sconvolto di tutti. Quasi gli cedettero le gambe quando entrai, boccheggiava, era del colore della polvere che ricopriva le sue cianfrusaglie. La mia sorpresa svanì quando mi resi conto che era più preoccupato per sé che per me.
Dio santo! Non l’avranno mica… non sarà per via dei libri, vero?
No, no! lo rassicurai. Nessuno sa niente dei libri. Non c’entra nulla.
A quel punto parve rilassarsi. E allora, se posso chiederle… lasciò la domanda in sospeso, invitandomi a parlare muovendo la mano ad onda.
Non vorrei entrare nei dettagli. Diciamo che una sera potrebbe essermi sfuggita una… un’insinuazione poco corretta, ecco. E quest’insinuazione è giunta alle orecchie di qualcuno le cui… le cui mani poi sono giunte a me.
De’ Palazzi sorrise con una solidarietà che non mi sarei aspettato da lui.
E, insomma, continuai, Beh. Sono stato sciocco, sa. Cose che poi, chissà, mica pensavo davvero, eh! (ma i miei occhi dicevano che le pensavo eccome!) E, così. Me la sono proprio cercata. Me la sono meritata (ma la mia voce diceva che non me l’ero meritata affatto!).
De’ Palazzi sospirò. Non se ne abbia a male, ma credo sia poco prudente che lei continui a venire qui.
Mi sentii vuoto, sentii vuoto il pavimento sotto di me. Non ora, non dopo tutto quello che avevo fatto! Liquidato, fallito, vanificato, non…
Tenga questo. De’ Palazzi mi diede un libro. Lo guardai: non era neppure uno dei volumi sconsigliati. Il più insignificante dei regali d’addio.
Ha ancora la cassapanca, giusto?
Certo.
Bene. Una cassapanca a doppio fondo per libri a doppio fondo.
Tornato a casa, aprii il libro. Passai le dita sulla seconda di copertina e poi sulla quarta, chiusi gli occhi e mi concentrai fino a quando i miei polpastrelli trovarono, sul cartoncino rigido, un’imperfezione, un taglio di bisturi sottile, meno che millimetrico. Presi un coltello, lo infilai nella fessura e sollevai. Nella finestrella così aperta, perfetta se non per i brandelli di colla secca che la frastagliavano, c’era un biglietto. Una data, un’ora, un indirizzo.
Con mia sorpresa, l’indirizzo differiva da quello previsto dall’Ufficio. Provai un certo disprezzo per i miei superiori, che si davano tante arie ma, alla fine, erano umani pure loro; ma soffocai subito questo sentimento, estremamente scorretto e pericoloso, e lo sostituii con la pura gioia di poter dare un contributo veramente nuovo e veramente mio alla missione, un risultato che neppure l’Ufficio aveva previsto. Decisi che era il momento di dar loro mie notizie. Un messaggio brevissimo, ché quelli non amavano i giri di parole: Primo appuntamento, [nuovo indirizzo]. Qualunque altra parola sarebbe stata di troppo. Lasciai il biglietto sul tavolo, sapendo che al mio ritorno non l’avrei trovato.

Parte terza

Ritratti #37 – Lou Castel – Julio Armenante

Il luogo dell’appuntamento si trovava al secondo piano di una vecchia casa appena fuori dal centro. L’abitazione sembrava disabitata, con l’eccezione – per l’appunto – di quell’unico piano, le cui imposte erano verniciate decentemente, e sulle cui fioriere crescevano, né folti né sparuti, gerani rossi. Mi resi conto che, nel biglietto datomi da De’ Palazzi, non era specificato un qualche codice per entrare, una bussata segreta o qualcosa del genere. Ma non feci in tempo a considerare seriamente il problema, che il portone si aprì e una mano forte ma delicata, vagamente profumata di sangue, mi prese per la manica e mi tirò dentro. Vianello, spoglio della sua abituale placida
gentilezza, richiuse la porta e salì veloce le scale, senza dire una parola, senza assicurarsi che lo
seguissi. Una volta sul pianerottolo, mi chiese: È sicuro che non l’abbiano seguita, vero?
Sono stato attentissimo.
Lui annuì, e aprì la porta dell’appartamento. L’interno era buio come l’ufficio, ma più ampio, e l’aria non era così soffocante. Penetrava il profumo dei gerani. Un’unica lampada friggeva sul tavolo quadrato al quale erano seduti De’ Palazzi e Ada. Vianello prese posto su uno dei due lati liberi. All’ultimo lato c’era una sedia vuota e, titubante, mi accomodai.
Ero nervoso. Mi aveva colto di sorpresa il fatto che si fossero accorti di me subito. Certo, non mi ero sforzato troppo per non essere notato, perché dar sfoggio delle mie reali capacità li avrebbe insospettiti, ma le loro reali capacità avevano superato le analisi dell’Ufficio, e ciò non era poco.
Mi guardavano tutti, e io mi sforzai di ricambiare i loro sguardi, e mi sforzai di simulare un timore che non era del tutto finto.
Lei ha idea di chi siamo? chiese De’ Palazzi.
Annuii.
E ha idea del perché l’abbiamo convocata qui? chiese Vianello.
Credo… credo che condividiamo gli stessi ideali.
Gli ideali non bastano, disse Ada, dolcemente.
Siamo stanchi, disse De’ Palazzi.
Siamo arrabbiati, disse Vianello, per ciò che accade ogni giorno a gente come lei.
Lei non è arrabbiato? Chiese Ada.
Io… (deglutii) io ho molto male.

Io… io non voglio… non voglio più.
Parlando così abbassai lo sguardo. Poi lo rialzai, e nei miei occhi, quello normale spalancato, quello tumefatto una fessura rettile, splendevano rabbia e odio. Annuirono tutti e tre, non sapendo che il mio odio era rivolto a loro, alla loro ingratitudine, a quella stupidità talmente superficiale che non poteva che provocare rabbia, al fatto che dovevo fingere.
Ada, che sedeva di fronte a me, allungò una mano e la posò sulle mie, incrociate in un unico pugno. Il lieve tremore con cui accompagnava sempre le tazzine era scomparso. La guardai, e notai quanto fosse bella, nelle sue stupide convinzioni. Sentii che un po’ della mia rabbia svaniva, mentre il mio occhio gonfio strizzava lacrime. Dovettero pensare che le lacrime nascessero dalla mia commozione per non essere solo, dal mio sollievo. Il mio occhio piangeva per lei, perché era un peccato. Era proprio un peccato.
Mi riscossi, e mi guardai attorno.
Di chi è l’appartamento?
Della signora Rosa Moroni.
E la signora dov’è?
È morta due anni fa.
Trasalii, e loro ridacchiarono.
L’abbiamo sepolta di nascosto. Il palazzo è disabitato, e i vicini non fanno domande, perché non era una donna di gran compagnia neanche da viva.
Ma…
Ora sembravano un po’ imbarazzati. E ritiriamo noi la pensione al posto suo, confessarono.
Ero sconvolto.
Sì, fece Ada, torcendosi un ciuffo al lato dell’orecchio, Dopo certe giornate di lavoro, è sorprendentemente facile sembrare un po’ più vecchi.
Risero ancora, poi, notando la mia espressione orripilata, De’ Palazzi aggiunse, severo, Usiamo quei soldi per la nostra causa. Causa che la signora Moroni sosteneva di persona, quand’era in vita.
Ma il mio raccapriccio non nasceva dall’ovvia amoralità della cosa; non capivo come una manovra così rischiosa, una strategia così piena di punti deboli, fosse sfuggita agli occhi dell’Ufficio. Questi criminali mi sorprendevano sempre più.
Così non fu una bugia, quando dissi No, no… lo capisco, è solo… è solo che sono stupito, ecco.
Risero di nuovo, con me stavolta, e Vianello mi diede una pacca sulla spalla.
Passarono il resto della serata a parlarmi di loro, della loro minuscola organizzazione che, come previsto, comprendeva solo tre individui. Quattro ora, Vianello mi fece l’occhiolino.
Si attribuirono la responsabilità di tre sabotaggi, quattro furti, due omicidi e due attentati. Sapevo già – l’Ufficio lo sapeva – che otto di questi crimini erano da attribuire a loro, ma i restanti tre erano ancora materia di dubbio. Erano abili, meticolosi, furbi. Mi trovai a pensare che individui del genere, spinti nella giusta direzione, ci avrebbero potuto far comodo. Che peccato, che peccato.
Un solo dettaglio mi lasciava perplesso: come faceva gente del genere, cauta e intelligente (per quanto la loro intelligenza fosse deviata e malriposta) ad accogliere uno come me? Mi rendevo conto, ora, che il piano d’azione che l’Ufficio mi aveva fornito poteva non essere all’altezza di chi mi stava di fronte. Quel dubbio mi rodeva troppo, così glielo chiesi.
Perché vi fidate di me? Non mi conoscete. Sono solo un cretino che si è presentato da voi un po’
pesto. Perché credete che io possa essere uno di voi?
Ada sorrise, e Vianello mi mise una mano sulla spalla, ma fu De’ Palazzi a parlare.
Crede che, quando ci siamo trovati, ci siamo fatti gli interrogatori a vicenda? Crede che ci siamo messi alla prova? No. Semplicemente, noi capiamo subito chi è come noi.
Contenti voi, pensai.
Continuarono a parlare. Parlarono di tutti i loro amici a cui erano successe cose rispetto alle quali il trattamento che avevo “ricevuto” (deglutii) io era uno scherzo da teppisti. Parlarono di come, ogni giorno e più volte al giorno, nella macelleria di Vianello si presentasse qualcuno dal colletto color geranio a ritirare la sua bella borsa di carne a titolo gratuito. Parlarono delle volte in cui un fiammifero acceso era accidentalmente caduto nel negozio di De’ Palazzi. Parlarono di tutte le volte in cui Ada, trovatasi casualmente sola nel locale, avesse ricevuto la visita di uno di loro, due, tre di loro. Porta chiusa, cartellino “torno subito”, stretta in un angolo, presa.
Per me storie simili non erano nuove. Dopotutto, non era stato per salvare mio padre che avevo aderito ai programmi dell’Ufficio? Poi non riuscii a salvarlo, mio padre, certo. Ma a quel punto mi ero reso conto che era colpa sua. Avevo salvato almeno me stesso, perché me l’ero meritato.
Mi chiesero se sapevo che una volta le strade e le piazze avevano nomi diversi, nomi di persone che erano state importanti per noi. Poi quelli dell’Ufficio cambiarono i nomi, sostituendoli con quelli che erano importanti per loro.
Il nostro incontro finì. Speravo che avrei ottenuto qualcosa in più, che entrassimo nei dettagli dei
piani per conoscere i quali l’Ufficio mi aveva scelto. Ma avrei portato pazienza. I dati che avevo
raccolto erano più che soddisfacenti. Quando uscii, Vianello mi diede una pacca sulla spalla, De’ Palazzi mi strinse la mano, e Ada mi diede un bacio sulla guancia gonfia e mi sussurrò una data.
Nonostante fossi all’aperto, l’aria era più opprimente che nell’appartamento della fu signora Moroni. I ciottoli dei vicoli erano scivolosi, i muri sudavano. Sentii, per la prima volta, il ronzio delle zanzare, e affrettai il passo. Nel mio appartamento, come previsto, la lettera che avevo lasciato sul tavolo era scomparsa. Ce n’era un’altra al suo posto. La aprii con mano tremante, rovinando la carta con le mie dita umide. Bravo! c’era scritto, Sapevamo di aver fatto la scelta giusta, con lei. Ci scusiamo per una richiesta tanto assurda, vista l’ora in cui leggerà la presente, ma vorremmo un rapporto pronto per domattina. Non ci deluda.
Sapevo che quelle ultime tre parole non si riferivano al rapporto. Deglutii e trascrissi nei particolari ciò che avevo appreso. Non era poco, ma mi pareva che non fosse abbastanza. Chissà perché, omisi il dettaglio, certo non trascurabile, della defunta sig.ra Moroni. Lasciai la lettera sotto lo stipite. Poi, nonostante il caldo, chiusi le imposte del salotto. Aprii la cassapanca, coperta di anonimi cuscini, e presi uno dei libri comprati da De’ Palazzi. L’Ufficio diceva sempre cosa non andava in questi libri e perché, ma non incoraggiava mai a comprenderli empiricamente. Mi dissi che magari era il caso di farlo.

Parte quarta

Ritratti #3 – Zio Ho – Julio Armenante

Nei giorni seguenti smisi di frequentare la macelleria, il caffè, il robivecchi. Era il comportamento che ci si aspettava da me. Scoprii che, tolti questi appuntamenti, mi avanzava molto tempo libero. Così continuai a leggere. Spesso di nascosto, in casa mia. A volte, però, andavo al parco e, sostituita la copertina dei libri incriminati con quella, innocente, di un libro approvato, leggevo illegalmente, dicendomi che lo stavo facendo per entrare meglio nel ruolo. Camminando per strada, tornando a casa, al mattino o alla sera, vedevo con la coda dell’occhio piccole pennellate color geranio abbozzate su sagome nere che si muovevano nelle ombre dei vicoli.
Arrivò la sera del secondo incontro. Entrambe le porte erano aperte per me. Entrai tranquillo, sereno addirittura! Loro, però, non lo erano affatto. Vianello e De’ Palazzi sorreggevano Ada, che pure seduta non sembrava in grado di mantenere l’equilibrio e minacciava di rovinare sul pavimento di legno in qualunque istante.
Cosa… cos’è…
La mano sinistra di Ada era fasciata, mentre la destra era così ustionata che strati di pelle annerita e giallastra si staccavano dalle nocche, dai palmi, lasciando scoperte chiazza rosse e viscide. Vianello versava a piccole gocce un liquido dall’odore fresco e pungente, e la ragazza cercava di non urlare.
L’hanno ricondotta ad alcuni suoi scritti, spiegò De’ Palazzi senza guardarmi. Il gilet era sbottonato. Il cravattino pendeva al suo collo come una striscia di carne. Ti abbiamo detto che Ada è una poetessa, vero?
Annuii.
È stata molto brava a pubblicare di nascosto, finora. Beh, finora, appunto. Stupida, stupida, stupida.
De’ Palazzi ringhiava, mormorava. Le prese la testa fra le mani e le baciò la nuca. Piangeva.
Ada sorrise. Doveva succedere, mormorò.
Sei stata fortunata che ti abbiano fatto solo questo, disse Vianello, fasciando l’altra mano.
E sei sicura che non ti abbiano seguita? chiese De’ Palazzi, ricomponendosi.
Nessuno si aspetterebbe che esca nelle mie condizioni, no?
Notai che, sul grembo di Ada, c’era un volumetto annerito, la cui copertina ricordava le mani di lei.
Posso… posso leggerlo? Chiesi, senza sapere perché.
Ada rise. Puoi leggere quel che rimane.
Non rimaneva molto, in effetti, ma qualcosa sì. Una o due poesie intere, brandelli di altre, sparsi qui e lì. Un verso a pagina due, una strofa a pagina quattordici, un poemetto integro se non fosse stato per un foro carbonizzato attorno al quale le parole ruotavano come satelliti. Lessi ciò che potevo, e guardai Ada, che mi sorrideva timida, come se fosse la prima volta che qualcuno la leggeva. Non dissi nulla (del resto non sono un esperto di poesia, che valgono le mie parole?). Ma dal mio occhio ormai non più tanto gonfio uscirono, del tutto inaspettate, delle lacrime, e ad Ada tanto bastava.
Dobbiamo discutere il piano, disse De’ Palazzi.
Ada non è certo in condizione di… tentò Vianello, ma lei lo interruppe dolcemente.
Sì, invece. Non abbiamo tempo da perdere. Non per colpa mia.
Mi sedetti, e ascoltai. Sgranai gli occhi, con una sorpresa che per fortuna era perfettamente nel mio personaggio, quando parlarono di far saltare l’Ufficio.

Parte quinta

Ritratti #25 – Gappisti romani – Julio Armenante

Tornando a casa, rimuginai su tutto ciò che avevo sentito quella sera. Ma i dettagli, perfino quelli più elementari come la data e l’ora, il nascondiglio della dinamite, il punto d’incontro, continuavano a scivolare via come sabbia. Pensavo solo ad Ada, alle sue mani, a lei che si faceva curare da Vianello e accarezzare da De’ Palazzi, come l’icona di una santa. Nella mia testa, davanti ai miei occhi, si stampava il buco nero della pagina bruciata e la parole che, non più ferme, vorticavano. Una volta, da bambino, mentre passeggiavo con mio padre fra le colline fuori città, avevo visto un albero di tiglio, attorno al quale volavano in cerchi e parabole e spirali decine di scarabei dai gusci color smeraldo che, sotto il sole di mezzogiorno, diventavano azzurri come fulmini e, senza più corpo, si riducevano a morbide scie di pura luce. Quell’immagine era rimasta impressa a mio padre che, anni dopo, avrebbe scritto un articolo ispirato all’evento. L’albero di tiglio eravamo tutti noi, gli scarabei erano loro. Ma nelle parole di mio padre noi non eravamo albero, bensì carcassa. E loro non erano scarabei, ma mosche.
Barcollai fino a casa e, ancor prima di entrare, seppi che c’era qualcuno. Forzai, nei miei passi, una tranquilla regolarità che non mi apparteneva. Quando capii che avevo bisogno di deglutire, e che il suono sarebbe stato come una bottiglia stappata, cercai di farlo mentre inserivo la chiave nella serratura.
Nel mio salotto buio, caldo perché avevo lasciato le finestre chiuse, quattro triangolini color geranio erano puntati addosso a me. Un colletto guardava distrattamente dalla finestra, e si finse sorpreso di vedermi. L’altro era seduto sulla cassapanca, e mi sorrise.
Carissimo! Carissimo, carissimo, ma… un colletto mi si avvicinò, preoccupato. Il suo viso, il suo viso! Cosa le è successo?
Come se non lo sapeste, pensai. Raccontai, comunque, di come e perché mi ero ferito.
I colletti spalancarono gli occhi.
Stupefacente! recitarono, ammirevole! Integerrima, meravigliosa abnegazione! Sapevamo di averci visto giusto, con lei.
Sorrisi, più o meno.
Si starà chiedendo perché siamo qui. Avremmo potuto lasciarle una lettera come al solito, giusto?
Non volevo chiedermi nulla. Avete tutto il diritto di entrare in casa mia, se lo ritenete opportuno, dissi.
Annuirono, apparentemente soddisfatti.
Vero! Però non siamo venuti qui per una dimostrazione di autorità. Eravamo solo preoccupati per lei, capisce?
Non ero certo di capire. Una parola quale “preoccupazione”, detta da loro, poteva essere estremamente pericolosa.
La missione che le abbiamo affidato non è delle più semplici. Pensi che alcuni di noi erano contrari! Ma visto come se la sta cavando… beh, ha novità?
Erano venuti perché non si fidavano. Erano venuti perché leggere una persona era più facile che leggere una lettera.
Ad esempio, continuarono, Lei lo sapeva che la sig.ra Moroni è deceduta… vediamo, vediamo… due anni fa?
L’aria si fece più densa. Loro mi parvero più grandi. I gerani dei loro colletti erano in fiore.
Cosa… no! No, com’è possibile?
Lei ha forse incontrato la sig.ra Moroni, proprietaria del piccolo covo dei nostri amici?
No… no, ma…
Allora avrebbe dovuto farsi due domande, no? Che peccato, era partito così bene! Ma cadere in errori simili, suvvia!
Vorticarono in me emozioni e pensieri vertiginosi e contrastanti. Da un lato era un sollievo che loro non implicassero una mia omissione volontaria della defunta signora Moroni; dall’altro lato, il fatto che fossero venuti da me per rinfacciarmi un errore (sebbene non ne sospettassero fino in fondo la gravità) era un motivo sufficiente per essere terrorizzato. Da un lato volevo rimediare ora, subito, con la mia informazione più preziosa, ovvero l’ora e il luogo dell’attentato; dall’altro c’erano la gentilezza naturale di Vianello, la fiducia di De’ Palazzi. Le mani bruciate di Ada. Le parole bruciate di Ada. Mio padre, gli scarabei, le mosche che finirono a ronzare su una carcassa che, alla fine, si rivelò la sua.
Posso rimediare.
Oh! alzarono un sopracciglio. E come?
Deglutii. Dissi loro dell’attentato. Rivelai loro il bersaglio (spalancarono la bocca) e diedi loro la data e l’ora (confabularono agitati, si dissero che bisognava agire).
La data che avevo fornito era sbagliata. Una settimana più avanti di quella effettiva, così avrei avuto il tempo di avvertire gli altri. Avrei dovuto svelare la mia identità, sperare che non mi ammazzassero. Sperare che non mi odiassero, che continuassero a credere in me. Sapevo, specialmente riguardo a quest’ultimo punto, di non aver diritto ad alcuna pretesa. Eventualmente, mi sarei accontentato di saperli salvi.
Mi ringraziarono, si complimentarono. Fecero presente che le informazioni sulla fu sig.ra Moroni (ottenute, capiamoci, da loro e non da me) già valevano una pena bella pesante per i miei tre amici. Ma ciò che avevo rivelato io poteva valere ancora di più, quindi, se non altro per premiare quella parte del mio lavoro che ero riuscito a svolgere in modo soddisfacente…
Il caldo del salotto, il caldo del loro fiato, il colore incandescente dei colletti, mi davano la nausea. Si congedarono. Quello seduto sulla cassapanca, alzandosi, diede due colpetti di palmo sul legno. Quando furono usciti, aprii di botto la cassapanca. Era vuota. Avrei voluto rincorrerli, garantire loro che era solo uno studio, era una cosa anche per il loro bene. Rinunciai. Non serviva più. Presi un profondo respiro, e attesi. Era rischioso, ma sentivo di dover agire subito. Così, contro qualsiasi logica, uscii. Contro la logica, certo, ma non senza cautela. Loro erano bravissimi a nascondersi, ma conoscevo i loro trucchi, e sapevo a mia volta eseguirli alla perfezione.
Faticavo a camminare, eppure mi imposi di correre, con l’aria d’agosto che formava un muro d’acqua e cemento davanti a me e nei miei polmoni, con i miei passi che rintoccavano in un modo talmente esasperante che ad un certo punto mi tolsi le scarpe e proseguii scalzo, sentendo sotto i piedi i ciottoli umidi e tiepidi come non mi capitava da quand’ero bambino. Corsi, mi nascosi, mi acquattai, cambiai direzione in caso mi seguissero. Ogni finestra rifletteva quasi alla perfezione la mia immagine nel buio quasi perfetto della notte, e ogni volta che passavo davanti ad una, pregavo che il mio riflesso fosse solo. Mi trovai sotto casa di Ada.
Seppi senza bisogno di guardare che, sopra la mia testa, una finestra si scostava leggermente, mentre Ada guardava in basso. Potevo quasi sentire la pelle del suo viso corrugarsi, vedendo che ero io. Poco dopo il portone si aprì, con gran difficoltà delle mani bendate di lei, che mi fissò stravolta, guardò lesta a destra e sinistra, e mi fece entrare. Salimmo fino al suo appartamento, che era piccolo e stanco, come lei. Alcuni mobili recavano i segni della perquisizione, ma si vedeva che Ada aveva fatto del suo meglio per rimettere a posto quel che poteva.
Che ci fai qui? Sei stato attento a…
Ti devo parlare.
E le raccontai tutto, e davanti a me il suo viso si deformava nel disgusto e si contraeva di rabbia e si stendeva di tristezza e si accendeva di riluttante speranza. Mi fissò a lungo, muta.
Come faccio a fidarmi di te?
Se anche non vorrai più fidarti, dopo stanotte, mi sta bene. Ma devi credere a ciò che ti ho detto.
Sapeva che avevo ragione. Sapeva che non stavo mentendo perché, viste le informazioni che avevo già fornito all’ufficio, non avevo più bisogno di usare alcun inganno.
D’accordo, annuì. Aspettami.
Andò a vestirsi e, quando tornò, mi portò al piano terra, e alla porta secondaria, ed uscimmo, e corremmo nell’ombra. Facevo fatica a starle dietro. Constatai di nuovo come se la sarebbe cavata bene, a lavorare per l’ufficio. Ma sarebbe stato un peccato.
Dove stiamo…
Gli altri sono al solito posto. Andiamo lì.
Una volta arrivati davanti al portone della fu sig.ra Moroni, Ada si fermò di fronte a me. I suoi occhi, all’altezza del mio mento, si alzavano ad incontrare i miei in una traiettoria che, in altre circostanze, le avrebbe dato un’aria supplice. Ma ora l’angolo di quegli occhi imponeva a me di abbassarmi, di avvicinarmi, di unire i miei occhi ai suoi e la mia bocca alla sua.
Consideralo un regalo d’addio, mi disse.
Con la gola annodata dall’emozione e dal rimpianto, annuii. Era giusto così. Avrei fatto ciò che andava fatto, poi avrei avuto la possibilità di continuare la mia vita, se avessi voluto, inventandomi una scusa con l’Ufficio, forse, dicendo loro che anch’io ero stato ingannato. Ada, Vianello e De’ Palazzi, d’altro canto, che decidessero di anticipare o posticipare o annullare l’attentato, avrebbero avuto addosso gli occhi dell’Ufficio per tutta la vita. Probabilmente sarebbero dovuti fuggire dalla città, dallo Stato. Buona fortuna, e perdonatemi.
Salimmo le scale. Mi ricordai della sensazione avuta poco prima quella notte, quand’ero tornato a casa. Quando avevo saputo, prima ancora di vederli o sentirli, che quelli dell’Ufficio erano dentro.
Ada aprì la porta, e vidi che il piccolo tavolo quadrato era sostituito da uno più grande, rettangolare, di legno nero. Dietro l’unica lampada accesa, disposta su un solo lato del tavolo, c’era una fila di sedie, ognuna delle quali occupata da un colletto color geranio.
La mia bocca era secca, la mascella molle e rigida allo stesso tempo. L’afa era insopportabile nella stanza, eppure avevo freddo, eppure ero fradicio di sudore. Su due sedie stavano Vianello e De’ Palazzi, uno con un sorriso gentile e dispiaciuto, l’altro con una piega di delusione sulle labbra sottili, entrambi con un colletto color geranio. C’era un posto vuoto. Ada lasciò il mio fianco e andò ad occuparlo.
Non ha superato la prova, dissero.

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