Largo ai giovani
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 02/02/2021 0 Comments 12 min read
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di Giulio Iovine
Copertina: Castelnovo – Andrea Herman

– Sofi’, bella di nonna, aprimi.
– Ma sei fuori, nonna? Tra cinque minuti comincio il turno!
– Ma che turno e turno, la coluta non fa turni. Non sei mica un’infermiera.
– Vabbè, nonna, hai capito, non stiamo a sottilizzare.
– Ma che problema hai se entro e sto in casa con te mentre fai le cose tue?
– Che, conoscendoti, metterai becco in tutto.
– Se devo…! Dai, fammi entrare.
M’è toccato aprirle la porta. L’ho fatta entrare in fretta e poi mi sono guardata intorno. Sai mai che ci avesse viste qualcuno. La coluta, si sa, è sempre sola in casa.
Ma per fortuna era l’ora sbagliata per vedere qualcuno per strada. L’angusto vicolo, fatto di case basse e porticine al piano terra, solo da pochi minuti non era più esposto al sole mortale di luglio, e poteva essere nuovamente percorso. Cominciava il tardo pomeriggio e con lui le visite alla coluta; spesso fatte di nascosto, quando la maggior parte del paese ancora dormiva, stremata dalla controra. Mi spinsi con lo sguardo fino all’incrocio con via Filangieri. Tra le persiane socchiuse, di là dal balconcino di metallo, mi pareva di vedere il profilo della panciona di zio Genny, che rantolava nel sonno per via dell’enfisema. Fuori dalla sua porta, sulle scale, le cime dei cactus della cugina Annalena oscillavano delicatamente, dal che mi parve di capire che almeno un filo di vento stava tirando.
– Sofi’, tua madre ha sbagliato ancora la cremolata. Ma quando la imparerà?
– Nonna, va bene lo stesso, andremo a prendercela al bar in piazza.
Nonna mi ignorò e cominciò a ispezionare casa mia. Che poi fino a un mese prima era casa sua. Me l’aveva ceduta perché ormai avevo diciannove anni e la coluta doveva vivere per i fatti suoi, non con i genitori. Lei si era sistemata a casa nostra in via Ancinale, più precisamente nella mia ex-cameretta. Mamma e papà erano contenti fino a un certo punto, ma vuoi dire tu no a mia nonna? È stata la coluta di San Violento per cinquant’anni, e va dove le pare.
Ho fatto finta di non notarla mentre andava in giro per il bilocale di pietra dove ha vissuto tutta la vita. Ero in mutande e reggiseno, uscita ora dalla doccia, e mi sono infilata il suo completino nero a pois bianchi, perfetto per la primavera-estate 1945 (quando lo ha comprato, presumo). Ho socchiuso la porta di casa, appeso alla maniglia il tratto di corda e aperto la finestra accanto alla porta, chiudendo la tendina beige. La casa è a un piano solo e la finestra dà direttamente sul vicolo. Poi mi sono seduta sulla sedia dietro la finestra, in modo che chi guardava da fuori vedesse a malapena il mio profilo da dietro la tenda. Il tratto di corda sulla maniglia significa che la coluta è in casa e in ascolto; ma avverte di non entrare, perché se entri offendi la coluta e sei in suo potere.
– Il bacile è orientato male, sentenzia nonna.
Si riferisce al bacile d’oro dove ho versato l’acqua incantata ed il sangue.
– Nonna, è un oggetto rotondo. Come accidenti fa a essere orientato male?
– Deve essere al centro della stanza.
E lo sposta, spingendolo al centro del tavolo.
– E tira anche le altre tende, che sennò ti vedono in faccia.
– Ma nonna, fa caldo.
– Macché, con il completino sei leggerissima. Che è quella roba?
Indica una borsa di tela con dentro una decina di scatoline colorate.
– Ah, queste? Eh, considerato quello che mi chiedono di solito –
– Oé, coluta!
La prima visita. Sbircio da uno spazio fra le tende. È Beppe Santini, quello che ha il bar in centro.
– Dimmi.
– Mia moglie, Carmela, ha mal di testa di nuovo.
– Brufen, sentenzio, e gli passo attraverso la tenda un blister di Ibuprofene. Lui lo guarda perplesso.
– Da sciogliere in acqua?
Nonna comincia a borbottare.
– No, da inghiottire. Vedrai che la rimette in sesto. E dille di passare da me, se ricapita.
Beppe ringrazia col segno di croce, baciandosi poi le dita della mano, e se ne va.
– Speriamo che passi veramente, commento ad alta voce – così le dico che le serve un analista, non la coluta. Questa continua emicrania è psicosomatica, si vede lontano un miglio.
– Medicine…!, borbotta mia nonna. – Roba da vergognarsi. Bastava buttare nel bacile un po’ di sangue di rospo e pensare intensamente a Carmela. C’è il barattolo qui, guarda, fresco fresco.
– Nonna, è il 2020.
– Cosa c’entra. Dico solo che io le cose le facevo in un altro modo.
– Eh. E mo’ sono io la coluta.
– Bah!
– Oé, coluta!
Eccone un altro. Sbircio attraverso la tenda. La piccola Margherita, avrà otto anni. È sempre spaventata quando viene qui.
– Dimmi.
– Mamma non sta bene. Ha dolori ovunque da due giorni. Si contorce sul letto. Non vuole alzarsi nemmeno.
– Ha il ciclo?
Margherita resta perplessa, poi:
– Sì, credo abbia le sue cose.
– La formula di Sant’Onorio, sussurra mia nonna, – e quattro rosari al contrario.
– Oki, rispondo seccamente. – E se continua, dille che le ci vuole un medico. Ordine della coluta.
Le passo la scatolina di Oki, lei ringrazia col segno di croce, bacia lo stipite della mia porta e scappa via.
– Vabbè, io mi metto di là a fare la soppressata. Ti sei ricordata di prendere il budello da Ciccio Solimene?
– Sì, è in frigo. Però fai piano, nonna!
– ‘Fai piano, nonna’. Io non so con che faccia mi dici queste cose.
E si mette nell’altra stanza ad armeggiare col tagliere per macinare la carne. Speriamo che non abbia a lamentarsi del peperoncino. Non dovrebbe: se l’è portato lei dall’orto. Passano i minuti, nonna taglia in punta di coltello, curiosamente fa pochissimo rumore sul tagliere – forse se sbircio in cucina scopro che coltello e carne galleggiano a mezz’aria? Mentre sto per andare a controllare, ecco che
– Oé, coluta!
Stavo per alzarmi dalla sedia: mi blocco, mi risiedo. Guardo tra le tende. È Vincenzo, quello che ha il campo sotto la scarpata dietro casa mia dritto fino alla costa (San Violento è in montagna ma è anche sul mare, in Calabria capita spessissimo).
Coluta, mi hanno fatto il malocchio.
– Ne sei sicuro?
– Gli olivi muoiono. Uno dietro l’altro. Hanno un verme strano. Gli agronomi non ne sanno niente, sono ancora lì a guardarlo al microscopio. Io lo so che qualcuno mi ha fatto una fattura. Coluta, toglimela, ti prego.
Mannaggia. Finché posso aiutare qualche isterico con una banale pasticca, passi. Ma questo mi pone un problema concreto. E adesso come mi regolo?
– Enzo…
Mi blocco. La coluta non esita mai. Con gli amici posso anche fare uhm, ehm, bè, ba bi bo mentre parlo, ma da qui devono venire frasi dure, secche, come se le avessi in bocca da prima che venisse il pellegrino.
– Devo vedere gli olivi malati. Mi ci porterai domani mattina.
– Sì, coluta.
Così prendo tempo.
Coluta, ma mi dici chi è stato?
Non posso dirgli di no. Prendo un barattolo accanto al bacile, lo apro, butto un po’ di polvere blu metallico nel liquame. Subito si illumina, e l’acqua si solleva da un canto, accumulandosi sulla parete nord del bacile. Quindi è un uomo. Metto nell’acqua il dito, e poi in bocca. Il nome mi attraversa il cervello come un fulmine.
Coluta, sai il nome?
Sì, buonanotte, adesso te lo dico anche, così tu prendi il fucile da sotto il cuscino e vai ad ammazzarlo (a San Violento siamo fatti così). Oh, ma potrò esercitare anche io un minimo di autorità?
– Il nome non ti è dato saperlo, sussurro. – Domani mi porterai a vedere gli olivi malati. Adesso vai.
– Grazie, coluta.
Si mette a quattro zampe, bacia l’angolo della porticina di casa mia, si fa il segno della croce e scompare nel vicolo. La corda appesa alla maniglia oscilla al poco vento. Appoggio schiena e testa sulla sedia. Sento lo spentolare soffocato di nonna e l’odore di maiale. Ma che deve fare una poveretta nata negli anni Novanta, che è andata al liceo e magari un giorno vorrebbe pure laurearsi, quando la incastrano nel mestiere più ambiguo del suo paesino sull’Aspromonte? Che poi: fosse solo tradizione, pazienza; ma qui è proprio genetica, sono quelle cose di cui mi imbarazzo a parlare e preferisco farle vedere. Ma cosa dico? Farle vedere? Devo essere impazzi-
– Oé, coluta!
Eccallà.
Sbircio dalla finestra. Uh, la piccola Crocifissa Patané. È quella che ha sposato Saverio, il pasticcere. Lui non è proprio di San Violento – venne qui ancora bambino da Chiaravalle, altre montagne altra storia, ma con la pasticceria ha fatto i soldi. Non dovrei dire ‘piccola’ perché ha la mia età – sposata a diciott’anni, ma io non so a queste che gli passa per la testa – comunque mai state amiche. Certo è messa male, ha gli abiti mezzi strappati, un occhio nero e le labbra tumefatte.
Coluta, coluta, faccio una scenata, aiutami.
– Che hai, Croce?
Coluta, bisogna che tu ammazzi mio marito.
Avevo appena finito di pensare che me l’ero vista brutta con Enzo.
– Sofia, ma chi è? Quella scema di Crocifissa?, sibila mia nonna con le maniche tirate su e le mani unte di macinato fino all’avambraccio.
Mi pare che stiamo esagerando.
– Croce, urla Saverio dall’altro capo del vicolo, e poi comincia a correre verso di lei con passi pesanti.
Ma stamattina non potevo starmene a letto?
La raggiunge. Cominciano a urlarsi in faccia. Lei gli arriva poco sopra l’ombelico ma è incazzata nera, non ha intenzione di cedere, lo spintona. Lui urla più forte, si vede che gli prudono le mani, vorrebbe stenderla con un manrovescio ma forse ha un po’ paura della coluta. Con i suoi due metri e dieci, se decide di fare dei danni può farli sul serio.
– Torna immediatamente a casa
– Non ci torno a casa, mi hai quasi ammazzata, non ne posso più
– Ti ammazzo se non torni, disgraziata, troia
– Guarda che la coluta ti vede.
Un attimo di silenzio. Saverio mi guarda attraverso la tenda.
– Sì? E io me ne fotto della coluta.
Le mette le mani al collo, minacciando di strozzarla. Ho visto abbastanza. In un attimo la corda appesa alla maniglia si svincola e si attorciglia intorno al collo di Saverio. S’illumina fino a sembrare metallo incandescente, e di colpo si stringe. Saverio si immobilizza, lascia cadere le mani, si solleva a pochi centimetri dal terreno con la testa verso l’alto, gli occhi vacui, il respiro regolare.
– Entra, Croce.
– Sì, coluta.
Crocifissa sgattaiola dentro la porticina come una lucertola in fuga e si nasconde sotto la credenza, visto che entrare in casa della coluta – anche se ti c’invita lei – è proprio l’estremo rimedio e bisogna cercare di vedere il meno possibile.
Intanto, nonna è venuta accanto a me. Guardiamo Saverio in coma, sospeso in aria, la corda attorno al collo.
– Conosco un’erba, cresce nel giardino di Mariarosa. Puoi andare a coglierla subito, a lui bado io. Se gliela facciamo ingerire, dimenticherà tutto e potrebbe pure diventare meno violento.
– Dimenticherà tutto…?
– Poi possiamo anche fargli una foto e immergerla in olio e miele con saliva di geco, se usi la formula di Buer puoi rammollire l’uomo della foto fino a farlo piangere.
– Nonna, siamo nel 2020.
– Io all’età tua facevo così.
– Eh, ma io non posso. Io ho visto un altro mondo. Non posso far finta che vada tutto bene, devo agire. Guarda che per noi ragazze non è più come ai tuoi tempi.
– Sì, come no. E che pensi di fare?
Qualcosa nel mio sguardo la fa istintivamente arretrare. Mi volto verso la finestra, estendo il braccio verso la tenda, apro la mano, come se volessi prendere Saverio nel palmo. Lui, ancora sospeso nel vicolo davanti alla mia porta, comincia a vibrare, prima piano, poi sempre più forte. Sento le arterie sotto la mia pelle pulsare. Un po’ tremo anche io. Lui ormai oscilla follemente, non distinguo più il suo profilo, frulla come un colibrì. Poi inizia a roteare su sé stesso. Il vento, ora fortissimo, agita le foglie secche e scaraventa qui e lì la mia tendina. Un ronzio orrendo cresce e cresce ancora. Mando un grido e rinculo all’indietro. Saverio esplode in un fungo atomico di sangue viscere e carne, imbrattando di rosso rovente e fumo le pareti delle case. Il ronzio cessa, la mia tensione cala, ricado sulla sedia col respiro grosso, e il vento si placa.
– Crocifissa, esci da là sotto e aiutami a pulire, che quella Sofia sta stremata, ordina seccamente nonna.

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